Attendere… il Tu

I Domenica d’Avvento –

Il profeta Isaia che diventerà una presenza particolarmente cara nella nostra vita lungo tutto questo nuovo tempo di Avvento dà il tono alla nostra attesa e, in certo modo, ce ne svela l’essenziale: <Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore> (Is 63, 16). Leggiamo con calma la prima lettura di questa domenica, che ci introduce in un nuovo anno liturgico, e scopriremo non certo senza uno stupore quasi commovente che – per ben sette volte – compare il pronome personale <tu> fino a dire quasi come atto di consegna e di assoluta fiducia: <noi siamo argilla e tu colui che ci plasma> (64, 7). Al cuore della profezia di Isaia risuona un’espressione capace di condensare tutto il mistero dell’incarnazione cui l’Avvento vuole preparare il nostro cuore di discepoli: <tu scendesti> (64, 2). Ciò che siamo chiamati a gustare, ancora una volta, attraverso i giorni di questo breve ma così intenso tempo liturgico, è proprio l’immensa meraviglia davanti al mistero di un Dio che non ha paura di scendere fino a mettersi al nostro livello. Un amore così grande da farsi non solo riconoscere come <padre>, ma a cui – con infinità libertà e nella più dolce intimità – possiamo dare del <tu>!

Potremmo dire lasciandoci conquistare e ammaestrare dalle parole del profeta che il mistero del Natale è esattamente questo grande dono di poter sentire la presenza di Dio nella nostra vita di uomini e donne che camminano attraverso il tempo non come qualcosa di minaccioso, ma di profondamente consolante. Per aprire il nostro cuore alla fiducia e alla confidenza il Padre, nella pienezza dei tempi che corrisponde al quotidiano vissuto con attenzione e vigilanza, ha non solo mandato il suo Figlio amato. Questo Figlio lo ha mandato nella forma più comprensibile al nostro cuore talora duro: quello di un bambino inerme che ha bisogno di essere accolto per poterci finalmente e interamente accogliere. Allora l’esortazione che nel Vangelo risuona verso la fine del ministero del Signore e nell’imminenza della sua Passione se vale alla fine non può che valere pure all’inizio: <Fate attenzione> (Mc 13, 33). È esattamente quello che si chiede ad un visitatore inatteso quando entra in una casa dove dorme un bambino piccolo: lo si invita a fare attenzione al suo riposo che è indispensabile alla sana crescita.

Ma il Signore Gesù non si limita a questo e ancora ci esorta: <fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati> (13, 36). Non si tratta solo di essere attenti, ma pure di essere operosi perché al suo risveglio il bambino ci trovi pronti a nutrirlo, ad accudirlo e persino a giocare… in una parola a dare la precedenza a chi – piccolo – non può imporsi, ma solo sperare nella bontà e nella sensibilità di chi è più grande. Dovunque volgiamo lo sguardo vediamo in questi giorni luminarie e presepi che impongono quasi violentemente la realtà del Natale. Come credenti siamo chiamati a vigilare perché il mistero dell’Incarnazione non sia svuotato e quasi reso inutile dalle feste del Natale. Non è certo facile, ma la parola dell’apostolo può aiutarci ad avere una sorta di bussola per non perdere la giusta direzione del cammino di questo tempo: <Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo> (1Cor 1, 9). Giorno dopo giorno, possiamo esaminarci su quanto riusciamo a crescere nel dare del <Tu> a Dio imparando a riconoscere il <tu> di ogni fratello e sorella che incontriamo sulla nostra strada e che ha bisogno di essere riconosciuto e accolto. Forse la più bella scoperta rischia di essere quella di apprezzare meglio il dono di essere – per Dio e per gli altri – un amabile <tu> a nostra volta. In tal modo sarà veramente nostra l’invocazione del profeta: <Se tua squarciassi i cieli e scendessi!> (Is 63, 19). Vieni Signore Gesù!

Attendre… le Tu

I Dimanche de l’Avent 

Le prophète Isaïe qui deviendra une présence particulièrement chère dans notre vie tout au long de ce nouveau temps de l’Avent, donne le ton à notre attente, et, d’une certaine façon, en révèle l’essentiel: ” Toi, Seigneur, tu es notre Père, depuis toujours, tu t’appelles notre Rédempteur ” ( Is 63, 16 ). Lisons tranquillement la première lecture de ce dimanche qui nous introduit dans un nouveau temps liturgique et nous découvrirons, non sans un certain étonnement presque émouvant, que – par sept fois – apparaît le pronom personnel ” Tu ” jusqu’à dire, presque comme un acte de consentement et d’absolue confiance : ” nous sommes de l’argile et Toi, celui qui nous modèles ” ( 64, 7 ). Au coeur de la prophétie d’Isaïe résonne une expression capable de condenser tout le mystère de l’incarnation dont l’Avent veut préparer notre coeur de disciples ” Tu es descendu ” ( 64, 2 ). Ce que nous sommes appelés à goûter, encore une fois, à travers les jours de ce temps liturgique bref, mais si intense, est vraiment l’immense merveille face au mystère d’un Dieu qui n’a pas peur de descendre jusqu’à se mettre à notre niveau. Un si grand amour qui se fait non seulement reconnaître comme ” Père “, mais à qui – avec une infinie liberté et dans la plus douce intimité – nous pouvons dire ” Tu” !

Nous pourrons exprimer, en nous laissant conquérir et enseigner par les paroles du prophète, que le mystère de Noël est exactement ce grand don de pouvoir sentir la présence de Dieu dans notre vie d’hommes et de femmes qui cheminons à travers le temps, non comme quelque chose de menaçant, mais de profondément consolant. Pour ouvrir notre coeur à la confiance et à la confidence, le Père, dans la plénitude du temps, qui correspond au quotidien vécu avec attention et vigilance, n’a pas seulement envoyé son Fils bien-aimé. Ce Fils, il l’a envoyé dans la forme la plus compréhensible à notre coeur si dur : celle d’un enfant sans défense qui a besoin d’être accueilli pour pouvoir finalement et entièrement nous accueillir. Alors, si l’exhortation qui résonne dans l’Evangile, vers la fin du ministère du Seigneur et à l’imminence de sa Passion, est valable à la fin, elle ne peut qu’être valable aussi au début : ” Faites attention ” ( Mc 13, 33 ). C’est exactement ce que l’on demande à un visiteur inattendu lorsqu’il entre dans une maison où dort un petit enfant : on l’invite à faire attention à son sommeil, indispensable à une saine croissance.

Mais le Seigneur Jésus ne se limite pas à cela et il nous exhorte encore : ” faites en sorte que, en venant à l’improviste, l’on ne vous trouve pas endormis ” ( 13, 36 ). Il ne s’agit pas seulement d’être attentifs, mais aussi d’être opérationnels, pour qu’à son réveil, l’enfant nous trouve prêts à le nourrir, à l’aider et même à jouer…en un mot à donner la priorité à celui – petit – qui ne peut s’imposer, mais seulement espérer en la bonté et la sensibilité de celui qui est plus grand. Partout où nous dirigeons notre regard, nous voyons, ces jours-ci des illuminations et des crèches qui imposent, presque violemment, la réalité de Noël En tant que croyants, nous sommes appelés à veiller pour que le mystère de l’Incarnation ne se vide pas et ne devienne pas inutile dans les fêtes de Noël. Cela n’est, bien sûr, pas facile, mais la parole de l’apôtre peut nous aider à avoir une sorte de boussole pour ne pas perdre la bonne direction du chemin de ce temps : ” Dieu , par qui vous avez été appellés à la communion avec son Fils, Jésus Christ, est digne de foi ” ( 1Co 1,9 ). Jour après jour, nous pouvons nous examiner pour voir combien nous réussissons à grandir dans la façon de dire ” Tu ” à Dieu, en apprenant à reconnaître le ” Tu” de chaque frère et soeur que nous rencontrons sur notre route et qui a besoin d’être reconnu et accueilli. La plus belle découverte sera, sans doute, de mieux apprécier le don d’être – pour Dieu et pour les autres –  en recevant un aimable ” Tu ” à notre tour. De cette façon, nos pourrons faire nôtre l’invocation du prophète : ” Si tu déchirais les cieux et descendais ! ” ( Is 63, 19 ). Viens, Seigneur Jésus !

Al giusto posto

XXXIV settimana T.O.  –

Siamo invitati a mettere persino le giuste occupazioni e preoccupazioni al posto giusto. La cosa importante che il Signore Gesù cerca di trasmetterci non è il “come” della fine del mondo ma il “come” arrivare, vivendolo quotidianamente, a questo momento di verità tanto da vivere autenticamente il tempo presente senza “ingannare il tempo” per non ingannare noi stessi. Vegliare <in ogni momento> (Lc 21, 36) significa amare chi è più debole e ha più bisogno, ma significa anche prendersi cura di ciò che in noi è più fragile e bisognoso tanto. La sfida quotidiana del nostro cammino discepolare è passare da un semplice atto di presenza alla storia – personale e globale – ad un essere realmente presenti a noi stessi e agli altri soprattutto nei momenti più esigenti e duri. In questo ultimo giorno del tempo ordinario, mentre già si preparano i colori e i toni di un rinnovato Avvento, siamo chiamati a rimboccarci le maniche e non certo di incrociarle. Si tratta per ciascuno di affrettare con nostre scelte e le nostre azioni quel momento sognato da Daniele in cui <la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo> (Dn 7, 27).

Il primo passo per evitare di incrociare le braccia dinanzi alle esigenze della storia è quello di congiungere le mani in atto di preghiera per obbedire alla consegna del Signore: <Vegliate, in ogni momento, pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo> (Lc 21, 36). Come spiega un teologo contemporaneo: <La preghiera non è soltanto una risposta alla vita di tipo radicale per mezzo del godimento e dell’assaporamento della vita, ma è anche un modo per opporsi ai nemici della vita. In un senso molto reale, la storia della preghiera è la storia del potere all’interno della comunità di preghiera e nel mondo in generale. La preghiera, infatti, è l’atteggiamento che si assume di fronte ai poteri malvagi, è una battaglia, è la lotta umana contro il male>1. Potremmo dunque concludere questo anno di ascolto della Parola attraverso il ciclo della liturgia con il proposito di coltivare di più e in modo più radicalmente profetico la nostra attitudine alla preghiera non certo per isolarci misticamente dalla vita e dalla storia, ma per abitarla fino a trasformarla.

Il monito del Signore ci raggiunge e ci interpella: <State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano> (21, 34). L’esempio di Daniele diventa per noi una sorta di traccia per passare dal turbamento davanti a ciò che si agita nella storia per guadagnare in speranza attraverso una rinnovata fiducia nel fatto che infine e definitivamente al male <sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente> (Dn 7, 26). Tutto ciò ci sarà certo dato in dono, ma, al contempo, sarà il frutto delle nostre fatiche e delle nostre conquiste interiori attraverso il combattimento contro ogni forma di superficialità e l’impegno costante a mettere ogni cosa, ogni emozione, ogni sentimento, ogni desiderio al giusto posto.


1. M. FOX, Preghiera. Una risposta radicale all’esistenza, Gabrielli Editore, Verona 2014, p. 92

Guardare

XXXIV settimana T.O.  –

Nella prima lettura troviamo un continuo invito ad aguzzare la vista e sembra che il profeta Daniele sia proprio un uomo capace non solo di guardare, ma anche di osservare, fino a comprendere oltre le stesse cose che cadono sotto i suoi occhi. In questo modo egli può cogliere il senso più profondo di ciò che gli eventi della storia non solo rivelano, ma pure segretamente preparano: <Io Daniele, guardavo nella mia visione notturna…> (Dn 7, 2). Per ben sette volte, nella prima lettura, si evoca la capacità e la volontà del profeta di guardare con una tale profondità da essere in grado di andare ben oltre le apparenze e far maturare – nonostante tutto il peso di minaccia che le varie bestie sembrano incutere – una speranza ancora più grande: <Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunge fino al vegliardo e fu presentato a lui> (7, 13). L’esempio di Daniele ci obbliga ad un serio esame di coscienza sul rischio di avere sempre gli occhi aperti sulla realtà e sulla storia che ci passa davanti attraverso un inarrestabile flusso di immagini e di suggestioni. Quando è così, siamo incapaci di vedere – in realtà – alcunché, quasi prigionieri e spesso persino accecati da una superficialità che rischia di renderci insensibili.

Sembra proprio che guardare e vedere in modo profondo e avvertito sia un dovere che non si improvvisa, ma ha bisogno di una lunga preparazione. E non solo. Questa visione necessita di una vera abitudine – per nulla abitudinaria – ad andare oltre le apparenze, ingaggiando una sorta di diuturno combattimento spirituale contro la superficialità in tutte le sue manifestazioni: le più evidenti, come quelle delle bestie evocate dal profeta Daniele o le più sottili e ancora più invisibili  dei germogli, evocate dal Signore Gesù nel Vangelo: <Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino> (Lc 21, 31). Pertanto non basta vedere con gli occhi o sentire con le orecchie. Per discernere i segni dell’irruzione del Regno di Dio nella nostra storia è necessario maturare nella capacità di intra-vedere, fino ad essere profeticamente capaci di ultra-vedere. Nel battesimo siamo stati unti con il crisma che ci ha reso profeti, re e sacerdoti. Ciò comporta, per ogni battezzato e discepolo del Signore Gesù, un dovere di profezia posta al cuore della storia perché essa possa realmente diventare, non semplicemente l’evidenza di eventi che si succedono quasi casualmente, ma il respiro di una coscienza sempre più affinata: <Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi: quando già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l’estate è vicina> (21, 29-30).

Quando il fico, la cui spettrale veste invernale non lascia alcun posto a nessuna illusoria speranza, germoglia, è segno che tutti gli altri alberi faranno ben presto altrettanto e che il raccolto dei frutti si avvicina, assicurando non solo la continuità, ma pure la gustosità della vita. Come discepoli di Cristo Signore, educati quotidianamente alla scuola del Vangelo, siamo chiamati a presagire i tempi e i modi di una speranza senza la quale tutto rischia di soccombere in un’invincibile tristezza.

Saper cambiare

Sant’Andrea  –

Per entrare nella festa di questo apostolo ci lasciamo guidare interiormente e quasi suggestionare positivamente da un testo della Tradizione che un po’ citiamo e un po’ parafrasiamo. Andrea è stato il primo a riconoscere il Signore come suo maestro… Il suo sguardo ha percepito la venuta del Signore e ha lasciato l’insegnamento di Giovanni Battista per farsi discepolo di Cristo… Alla luce della lampada (Gv 5,35), cercava la vera luce; al suo bagliore incerto, si preparava allo splendore di Cristo. Da maestro qual era, Giovanni Battista era diventato servo e araldo di Cristo presente davanti a lui: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Ecco colui che libera dalla morte; ecco colui che distrugge il peccato. Io sono stato inviato non come lo Sposo, bensì come colui che lo accompagna (Gv 3,29). Sono venuto come servo e non come maestro”. Spinto da queste parole, Andrea lascia il suo maestro di prima e corre verso colui che gli era stato annunciato. Corre verso il Signore, il suo desiderio si manifesta in questo atto, trascinando con sé non solo se stesso e il proprio cuore, ma anche il suo compagno di discepolato e il suo fratello forse maggiore di lui, ma di certo di lui più testardo. Tutti e due lasciano la lampada e camminano verso il Sole.

Andrea è la prima pianta del giardino degli apostoli, è lui che apre la porta all’insegnamento di Cristo ed è il primo a cogliere i frutti del campo coltivato dai profeti. Riconosciuto il profeta di cui parlava Mosè dicendo: <Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto> (Dt 18,15). Come l’appassionato agricoltore della parabola, non si accontenta di trovare il tesoro ma compra anche il campo. Come il sapiente scriba non solo lo compra, ma pure lo mostra e ne condivide la bellezza con suo fratello Pietro. Per questo mostra a Pietro il tesoro che ancora non conosceva: “Abbiamo trovato il Messia (Gv 1,41)”. Colui che desideravamo, attendevamo la sua venuta, vieni ora a gustare la sua presenza. Non ancora apostolo, Andrea conduce suo fratello a Cristo. Questo è stato il suo primo miracolo>1.

Come ci ricorda l’apostolo Paolo citando le Scritture: <Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato> (Rm 10, 13). La festa dell’apostolo Andrea può e deve essere l’occasione per intensificare la preghiera e l’amore perché le Chiese ritrovino la loro essenziale unità e siano così più capaci di accompagnare la fede di molti verso una pienezza di comprensione del mistero di Dio che rende la vita di tutti più bella e più vera. Ciascuno di noi è chiamato a seguire sempre per primo, senza omettere mai la croce dall’orizzonte della propria sequela. Solo così potremo sostenere il cammino discepolare dei nostri fratelli, tanto da compiere in noi la parola del profeta: <Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!> (Rm 10, 15). 


1. BASILIO DI SELEUCIA, Discorso a lode di Sant’Andrea, 2-3

Sprecati

XXXIV settimana T.O.  –

Per quanto i passaggi della vita possano sembrare talora duri e spesso così incomprensibili, la parola del Signore Gesù ci accompagna e ci guida in un lavoro di continua interpretazione che non riguarda soltanto i testi sacri, ma anche gli eventi della vita: <Avrete allora occasione di dare testimonianza> (Lc 21, 13). Questa frase ha il duplice sapore della constatazione e della consegna perché viene posta a conclusione di una serena presa di coscienza del fatto che <Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome> (21, 12). Quello che la vita e la storia possono farci subire, sembra essere un argomento che ci riguarda molto meno di ciò che noi saremo in grado di far dare alle costrizioni della vita, come frutto generoso maturato al sole della libertà e dell’amore. Così possiamo intuire la verità dell’apparente contraddizione nelle parole del Signore, una contraddizione che ci promette, al contempo, una sicura persecuzione, persino all’interno dei vincoli più sacri e amati, senza omettere di rassicurarci in modo tanto radicale da dire: <nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto> (21, 18). 

Infatti, nulla che ha come origine l’esercizio generoso e leale della libertà e dell’amore andrà perduto, non perché non cadrà come un capello, ma perché qualcuno lo raccoglierà e lo conserverà, rendendolo così memoria di una vita donata a tal punto… da sembrare perfino sprecata. Vi è una preziosità che può, infatti, sfuggire all’occhio umano soprattutto se accecato dall’amor proprio, ma in nessun modo sfugge all’Altissimo. Il dramma di Baldassàr è quello della leggerezza e della superficialità. Quando, infatti, <comandò che fossero portati i vasi d’oro e d’argento che suo padre Nabucodonosor, aveva asportato dal tempio di Gerusalemme, perché vi bevessero il re e i suoi dignitari, le sue mogli e le sue concubine> (Dn 5, 2), forse non aveva neppure intenzioni coscientemente sacrileghe, quanto piuttosto la voglia di mostrare la sua ricchezza e lo splendore dei bottini di suo padre. Ma <In quel momento apparvero le dita di una mano d’uomo, che si misero a scrivere sull’intonaco della parete del palazzo…> tanto che <il re cambiò di colore> (2, 5-6).

Era sfuggito al re che quei vasi non erano semplicemente contenitori preziosi, ma erano segno di qualcosa di più grande, di più bello, di immensamente più vero del <grande banchetto> (2, 1) da lui imbandito. Il <vino> dell’ebbrezza di sé non poteva essere contenuto dai vasi che erano stati testimoni della grandezza trascendente dell’Altissimo. Così l’occasione per pavoneggiarsi si trasformò, per Baldassàr, nella necessaria presa di coscienza del limite del suo fragile e apparente potere: <Mene, Tekel, Peres> (2, 25). L’unica via per dare consistenza alla nostra vita è di coltivare il senso profondo delle cose, trasformando ogni piccolo evento in una tappa e in un’occasione di crescita. Il monito del Signore diventa una bussola: <Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita> (Lc 21, 19) e nulla, proprio nulla, andrà <perduto> (21, 18) se sapremo rischiare di sembrare sprecati.

Fine

XXXIV settimana T.O.  –

Il Signore Gesù non ci vuole lasciare nell’ignoranza e non vuole che cediamo alla confusione interiore che, il terrore di non saper discernere il significato reale degli eventi, può seminare nel nostro cuore. La parola di Gesù è un monito a mantenere la calma e la lucidità della mente attraverso l’esercizio della purezza del cuore: <Badate di non lasciarvi ingannare> (Lc 21, 8). Il profeta Daniele, interpretando il sogno del Nabucodonosor, ci offre una chiave per comprendere, a nostra volta, i segni che ritmano il nostro cammino attraverso il tempo: <come il ferro non si amalgama con l’argilla fangosa> (Dn 2, 43). Questa parola di Daniele diventa così un criterio di discernimento da applicare alla nostra vita personale come pure agli eventi della storia. Ci sono realtà che apparentemente sono provviste di una forza impressionante, ma – in realtà – sono segnate da una debolezza costituzionale che, nell’apparenza dell’onnipotenza, già celano la debolezza più estrema.

Il sogno di Nabucondosor, cui Daniele dà una <spiegazione> che è <degna di fede> (2, 45), diventa nel Vangelo il segno del Tempio. Proprio <mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi>, Gesù ne preannuncia la distruzione fino a dire che <non sarà lasciata pietra su pietra che son sarà distrutta> (Lc 21, 6). Il Tempio di Gerusalemme, segno della fede di Israele nel Dio unico che è il Dio dei Patriarchi e dei Profeti, e quasi una denuncia architettonica dell’idolatria degli altri popoli, alla fine non solo sembra subire la stessa sorte di quella <statua enorme, di straordinario splendore> (Dn 2, 31), ma persino peggiore. L’origine di ogni rovina è la confusione tra l’inevitabile fine di ogni realtà umana – nel senso di naturale conclusione – e di ogni esperienza storica per quanto gloriosa: il fine di ogni vita e di ogni avvenimento.

Per questo il Signore ci mette in guardia da noi stessi e dalle nostre paure che spesso ci fanno ingigantire le cose futili e rimpicciolire quelle essenziali: <Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine> (Lc 21, 9). In questo modo, l’unico Maestro ci ricorda che prima di tutto bisogna intercettare e perseguire il fine della nostra umana avventura. Ogni generazione – non esclusa la nostra – fa esperienza della fine del mondo, poiché ogni tratto di storia deve misurarsi con la propria crescita e con il proprio tramonto. Per questo tutti dobbiamo misurarci con la fine del mondo e del modo a cui siamo abituati e a cui siamo spesso tenacemente attaccati. L’esperienza di fede e la nostra fedeltà a Cristo dovrebbero darci la forza e la lucidità di saper assumere e portare il tramonto del nostro proprio modo di concepire la vita e di immaginare la storia, così che, quello che può sembrare in un primo momento una vera catastrofe, può rivelarsi, invece, come un’impagabile opportunità. L’essenziale è non perdere di vista il nostro cuore e tenerci, nel segreto delle sue imperturbabili profondità, al riparo da ogni inutile rigonfiamento di noi stessi, non dimenticando mai che solo Dio è <grande> (Dn 2,l 45) e noi siamo in buona parte di <argilla> (2, 33). 

Assedio

XXXIV settimana T.O.  –

Quest’ultima settimana del tempo liturgico già ci prepara a vivere un nuovo anno liturgico e si apre con un’immagine: <Nabucodonosor, re di Babilonia, marciò su Gerusalemme e la cinse di assedio> (Dn 1, 1). Non solo Gerusalemme è assediata dalla superpotenza di turno sulla scena della storia, ma è pure miseramente espugnata mentre gli splendidi arredi del Tempio e le persone più influenti e brillanti vengono deportati nella terra dove sembra non ci sia posto per il Dio dei padri. Eppure, non è poi così vero! Infatti, mentre sembra che tutto sia deciso per il peggio veniamo a sapere che <Daniele decise di non contaminarsi> (1, 8). Così la terra degli stranieri e degli dèi diventa, in virtù della perseveranza e dell’amore anche di pochi, il luogo in cui la gloria di Dio si manifesta in modo ancora più sensibile, tanto  che,  il timoroso e benevolo Asfénaz, dovette arrendersi all’evidenza: <vide che le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri giovani che mangiavano le vivande del re> (1, 15). 

La florida bellezza dei loro volti e la prestanza dei loro corpi non è che il riflesso esterno di ciò che lo stesso re dovrà, personalmente, constatare di lì a poco: <fra tutti non si trovò nessuno pari a Daniele, Anania, Misaele e Azaria> infatti <su qualunque argomento in fatto di sapienza e di intelligenza il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i maghi e gli indovini che c’erano in tutto il suo regno> (1, 19-20). La testimonianza di questi giovani è un monito anche per noi che, talora, ci sentiamo così tanto assediati da sentirci giustificati a lasciarci contaminare, attraverso la paura, da ciò che inquina il nostro desiderio più vero e profondo. In realtà, se si possono assediare ed espugnare le mura delle città costruite con i mattoni e con le pietre, non c’è nulla e nessuno che possa entrare nella cittadella del nostro cuore senza il nostro reale consenso.

Accanto a questi quattro giovani, belli e prestanti, la Parola di Dio mette in rilievo la figura ben più piccola e umile di una <vedova povera> (Lc 21, 2) che, segretamente, dimostra di essere la persona più ricca e più libera di quei <ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio> (21, 1). Non solo perché, secondo l’acuta osservazione di Gesù – condivisa volutamente con i discepoli – questa donna <nella sua miseria> non si è accontentata di donare semplicemente il <superfluo>, ma <tutto quello che aveva per vivere> (21, 4) e, soprattutto, perché in tal modo ha dimostrato di essere, lei stessa, un vero tempio di Dio in cui l’adorazione e l’amore sono un sacrificio perfetto e continuo. La vedova, ormai nella piena maturità e quasi alla fine della sua vita, rappresenta bene ciò che i giovani, di cui ci parla la prima lettura, hanno messo il primo seme nella loro esistenza. Si tratta, infatti, di fare <la prova per dieci giorni> (Dn 1, 14,) accettando il rischio della crescita, dell’adattamento alle situazioni, persino la necessità di rettifiche e miglioramenti, ma senza perdere la direzione del cuore e senza cedere al timore o alla soddisfazione dell’immediato. Il Signore Gesù, ormai sempre più prossimo alla sua Passione, deve essersi specchiato in quella vedova, come avrà a lungo meditato l’esempio di Daniele e dei suoi compagni accettando, come loro, di attraversare la prova del fuoco… il dono di <tutto quello che aveva per vivere> (Lc 21, 4). Non c’è nulla che possa tenere in assedio l’amore!

Giudizio personale

Cristo Re dell’Universo –

La fine di un anno liturgico diventa l’occasione per un serio esame di coscienza per fare il punto del nostro cammino di sequela e di conformazione a Cristo Signore. Le parole del profeta Ezechiele ci ricordano ancora una volta le intenzioni più profonde e più vere del Signore nel suo modo di relazionarsi con la nostra umanità che è, fondamentalmente, un modo di prendersi cura e di farlo personalmente: <Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna> (Ez 34, 11) e ancora <Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io lo farò riposare> (34, 15). Ciò che comunemente chiamiamo “giudizio universale”, affrescato da artisti di ogni tempo, come nella Cappella Sistina, in realtà è universale solo nella misura in cui è un esigente e intimo “giudizio personale”. Infatti, <Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria…> (Mt 25, 31) non farà altro che rivelare a ciascuno quel livello di personalità raggiunto durante la propria vita che si evince dalla capacità o meno di stare accanto agli altri – soprattutto i <più piccoli> (25, 40) – lasciandosi toccare e interpellare dai loro bisogni più semplici e quotidiani.

La parola dell’apostolo può essere non solo illuminante, ma pure può aiutarci ad orientarci nel nostro cammino: <Se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti> (1Cor 15, 21). Indubbiamente ciò riguarda la nostra relazione a Cristo Signore come nostro salvatore, ma il fatto che Egli si indentifichi nei <più piccoli>, significa che proprio attraverso la nostra relazione ai più bisognosi si attua il nostro cammino verso la risurrezione. Ogni risurrezione, che non sia una fuga, inizia – già qui e ora – con l’insurrezione e la crescita della nostra persona intesa come capacità di amare nella gratuità e senza alcun calcolo. Tutto ciò non solo senza sperarne nessun ricambio, ma quasi senza neppure accorgersene a motivo della sua assoluta naturalezza: <Signore, quando ti abbiamo visto…?> (Mt 25, 37). Se personalmente sapremo vivere così, allora il Regno di Dio già albeggerà già qui, già ora!

Celebrare il mistero della regalità di Cristo è un modo sottile per fare il punto della nostra libertà. Nel mistero della sua croce, il Signore ci ha conquistato la libertà di essere figli e non più servi. Il desiderio di essere suoi discepoli ci rende sempre più liberi di essere piccoli e di amare la compagnia dei <più piccoli>. Come spesso avviene nella nostra comprensione del mistero di Cristo, i simboli sono tanto più capaci di aprirci all’accoglienza del mistero quanto più si possono leggere <sub contrario>. Ora se il nostro Signore Gesù Cristo è re dell’universo è proprio perché si è fatto piccolo e povero con noi e per noi tanto da essere assolutamente libero da ogni paura, da ogni timore, da qualsivoglia rischio di ricatto o di intimidazione. Mentre concludiamo un altro anno liturgico la cosa più bella sarebbe scoprire che il nostro cuore, celebrando i misteri di Cristo e ascoltando ogni giorno la sua Parola, è diventato più semplice, più libero, più figlio. Non temiamo dunque nessun giudizio e ci affidiamo volentieri allo sguardo mite e festoso di Cristo nostro re e Signore.

Jugement personnel

Christ Roi de l’Univers 

La fin d’une année liturgique devient l’occasion pour un sérieux examen de conscience afin de faire le point sur notre chemin à la suite et en conformité du Christ Seigneur. Les paroles du prophète Ezéchiel nous rappellent, encore une fois, les intentions les plus profondes et les plus vraies du Seigneur dans sa façon d’entrer en relation avec notre humanité, ce qui est, fondamentalement, une façon d’en prendre soin et de le faire personnellement : ” Voilà, je chercherai moi-même mes brebis et je les passerai en revue ” ( Ez 34, 11 ) et encore : ” Je conduirai moi-même mes brebis au pâturage et je les ferai reposer ” ( 34, 15 ). Ce que nous appelons communément ” jugement universel “, représenté en fresque par les artistes de tous les temps, comme dans la chapelle Sixtine, n’a, en réalité, de nom universel que dans la mesure où cela représente un ” jugement personnel ” exigeant et intime. En effet, ” Lorsque le Fils de l’homme viendra dans sa gloire…” ( Mt 25, 31 ) il ne fera rien d’autre que de révéler à chacun jusqu’à quel point , durant sa propre vie, il aura démontrer sa capacité de rester plus ou moins auprès des autres – et surtout des ” plus petits ” ( 25, 40 ) – se laissant toucher et interpeller par leurs besoins quotidiens les plus simples

La parole de l’apôtre peut être non seulement illuminant, mais elle peut aussi nous aider à nous orienter sur notre chemin : ” Si la mort arrive par l’intermédiaire d’ un homme, la résurrection des morts viendra aussi par l’intermédiaire d’un homme ” ( 1 Co 15, 21 ). Cela concerne indubitablement notre relation au Christ Seigneur, notre sauveur, mais, le fait qu’Il s’identifie aux ” plus petits”, signifie vraiment que notre relation aux plus nécessiteux actualise notre chemin vers la résurrection. Chaque résurrection, qui n’est pas une fuite, initie déjà maintenant – par l’insurrection et la croissance de notre personne, comprise comme capacité d’aimer dans la gratuité et sans aucun calcul. Tout cela, non seulement sans en espérer aucun échange, mais sans même en espérer s’en apercevoir en agissant tout naturellement : ” Seigneur, quand t’avons-nous vu… ? ” ( Mt 25, 37 ). Si, personnellement, nous arrivons à vivre ainsi, alors, le Règne de Dieu, aube nouvelle, se lèvera déjà ici et maintenant !

Célébrer le mystère de la royauté du Christ est une façon subtile de faire le point sur notre liberté. Dans son mystère de la croix, le Seigneur a conquis pour nous la liberté d’être fils et non plus serviteurs. Le désir d’être ses disciples nous rend toujours plus libres d’être petits et d’aimer la compagnie des ” plus petits “. Comme cela arrive souvent dans notre compréhension du mystère du Christ, les symboles sont souvent plus à même de nous ouvrir à l’accueil du mystère, d’autant plus qu’ils peuvent se lire ” subcontraires”. Maintenant, si notre Seigneur Jésus Christ est roi de l’univers, c’est vraiment parce qu’Il s’est fait petit et pauvre avec nous et pour nous, surtout pour être absolument libre de toute peur, de toute terreur, de n’importe quel risque de chantage ou d’intimidation. Alors que nous concluons une autre année liturgique, la plus belle chose serait de découvrir que notre coeur est devenu plus simple, plus libre, plus filial, en célébrant les mystères du Christ et en écoutant chaque jour sa Parole. Ne craignons donc aucun jugement, et confions-nous volontiers au regard doux et joyeux du Christ, notre Roi et Seigneur.