Correre

IV settimana T.O.

Un solo vangelo ci permette di entrare in modo assai particolare in due momenti di intima relazione tra il Signore Gesù e coloro che cercano in Lui quel conforto e quell’intimità che, sola, può sottrarre all’angoscia di non poter più sperare dopo aver dato fondo ad ogni speranza: <spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando> (Mc 5, 26). Un padre, Giàiro, si fa prossimo al Signore per chiedere di interrompere la corsa della morte della sua figlioletta. Davanti all’“ultimatum” di un cuore sull’orlo dell’abisso di un lutto insostenibile decritto in tutta la sua ineluttabilità: <La mia figlioletta sta morendo> (5, 23), il Maestro non si tira indietro. Anzi non esita ad entrare interamente nell’angoscia di questo padre, mettendosi in cammino con lui e accanto a lui per andare a svegliare la ragazza che per il padre <sta morendo> e che forse si sta lasciando morire.

Come il padre Giàiro non vede niente altro che la vita di sua figlia, così il Signore accetta di entrare interamente nel suo stesso desiderio e, senza pensare a nulla e a nessuno, si volge verso la casa tanto da trascinare con sé <molta folla> (5, 24) in questa corsa controcorrente atta a fermare il flusso della morte. Eppure c’è qualcun altro che ha bisogno della sua attenzione e che si accontenterebbe, ben volentieri, perfino delle briciole della sua considerazione così da decidere di toccarlo furtivamente e nascostamente. La reazione del Signore è di grande signorilità: la corsa contro la morte non gli rende impossibile di fermarsi senza riserve per dare tutta la sua attenzione a questa donna afflitta da <dodici anni> (5, 25) da una continua perdita di sangue. Questa perdita continua di vita deve lasciarla sempre profondamente stanca e prostrata, oltreché umiliarla gravemente, a motivo dello stato di impurità in cui continuamente viene a trovarsi secondo la Legge di Mosè e i tabù che circondano, da sempre e dovunque, il mistero del sangue mestruale.

Il Signore Gesù, che sicuramente deve tenere il passo di Giàiro, non esita a fermarsi e, per un attimo, fermare tutto e tutti: questa donna non va guarita distrattamente, ma va guardata diritto negli occhi e va riconosciuta in tutta la sua dignità. La fretta non rende Gesù per nulla frettoloso, ma lo tiene magnificamente attento e sensibile, non solo a ciò verso cui è in cammino, ma anche verso ciò che la strada ancora gli richiede. Dal Signore Gesù possiamo imparare ad essere intimi senza cedere all’intimismo. Ancora da Lui dobbiamo imparare ad essere decisi nel nostro cammino, mai frettolosi e, meno ancora, distratti. Dal Cristo ci è chiesto di imparare il giusto ritmo e il fiato adeguato per mettere in pratica l’esortazione della prima lettura: <corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento> (Eb 12, 1).

Meglio

IV settimana T.O.

Quello dell’indemoniato di Gerasa è uno dei racconti più circostanziati che l’evangelista Marco ci offre nel suo Vangelo. Il contesto è quello di una svolta nel cammino e nella missione del Signore Gesù. Per la prima volta Gesù unitamente ai suoi discepoli si lascia alle spalle la Giudea e s’inoltra dall’altra parte del Giordano. In quei luoghi, così vicini a Gerusalemme eppure così lontani, si sente maggiormente il peso e il giogo dell’occupazione straniera a motivo del pericolo più grande di essere quasi contaminati da ciò che si oppone alla purezza della fede. Il fatto che vi si allevino, in grande quantità, dei porci, è segno che qualcuno deve pure mangiarli! La terra è occupata da ciò che rischia di snaturarla. Così il cuore e la vita di quest’uomo, che esce incontro a Gesù dai sepolcri, è segnato da una sofferenza e da una rabbia che rischia di farlo vivere in uno stato più simile a quello degli animali – tra l’altro i più immondi – condannandolo ad una vita disumana.

L’indemoniato di Gerasa è interiormente combattuto tra il desiderio di uscire dallo stato in cui la sua vita è stata prostrata e il bisogno, fatto di abitudine e di strana, quanto dolorosa complicità, con il male che lo abita, tanto che una parte di sé si fa interprete del desiderio – meglio sarebbe dire del non-desiderio – del mondo in cui abita: è troppo presto per la salvezza! Sì, sarebbe bene riceverla, ma non troppo presto perché questo significa un incremento di vita che comporta una serie di cambiamenti e di imprescindibili rinunce. 

La parola pronunciata dalla Legione di demoni non è altro che l’espressione anticipata di ciò che gli abitanti della regione chiederanno al Signore Gesù: ritornarsene da dove era venuto perché è troppo presto per accogliere fino in fondo, e in pienezza, il dono di quella libertà fatta di molteplici e continue liberazioni dalle innumerevoli catene che ci tengono prigionieri e schiavi. Forse, proprio lo svantaggio di quell’uomo ormai ridotto allo stremo della vita, era proprio il fatto di non avere più niente da perdere, tanto da sentire in Gesù, la sua ultima possibilità per poter finalmente passare o di qua o di là: o nella vita o nella morte. La legione non è d’accordo, la gente del luogo neanche, non resta a Gesù che ritornarsene dall’altra parte del lago, dopo aver posto comunque, un segno forte e indimenticabile: la liberazione è possibile! A noi scegliere di aprire le porte e di accettare di entrare nella sua dinamica di liberazione e di vita.

I Geraseni non hanno dubbi sul da farsi: <si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio> (Mc 5, 17). I demoni, a loro volta, non avevano avuto alcun dubbio: <Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi> (5, 12). L’autore della Lettera agli Ebrei ci ricorda che Dio <aveva predisposto qualcosa di meglio> (Eb 11, 40). Ma il meglio che il Signore ci vuole offrire esige, sempre e comunque, la disponibilità a riprendere la strada della vita con una responsabilità e creatività veramente nuove che non ci permettono di <restare> (Mc 5, 18) ma ci chiedono, piuttosto, di andare sempre oltre.

Proprio beati

IV Domenica del T.O.

La liturgia di oggi ci fa il grande dono di proclamare nella Chiesa – ancora una volta – l’evangelo delle Beatitudini. Per otto volte il Signore Gesù dice: <Beati…>. Si tratta di un testo che conosciamo a memoria, un testo che amiamo e, indubbiamente, un testo che ci provoca continuamente e sempre. L’intreccio delle letture offerte dalla liturgia della Parola ci permette di entrare nel castello delle Beatitudini attraverso un portale del tutto particolare che suona così: <Considerate la vostra vocazione, fratelli> (1Cor 1, 26). Questa esortazione di Paolo apre ad una comprensione delle Beatitudini nel senso che esse sono la nostra vocazione particolare di discepoli del Signore Gesù formati alla scuola dell’evangelo e conformati al mistero pasquale. Potremmo dunque chiederci quale sia la prima regola della felicità-beatitudine. La liturgia sembra dirci che la prima e fondamentale regola della felicità sia proprio la capacità di guardarsi allo specchio limpidamente e senza paura alcuna e accogliere il mistero della scelta di Dio: <ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti… ciò che nel mondo è debole per confondere i forti… ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato> (1Cor 1, 27-28). Alla fine di questa immersione nella scelta di Dio giustamente si può rimanere alquanto stupiti e inquietati: bisogna proprio prendere le cose alla rovescia. Ma la motivazione dell’apostolo non solo è in grado di chiarire ma pure di illuminare e convincere del fatto che non c’è altra scelta possibile. Egli dice: <perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio> (1, 29). Con queste parole dell’apostolo che cadono “casualmente” tra la prima e terza lettura di questa liturgia della Parola, siamo condotti al cuore delle Beatitudini siamo condotti al cuore della vita stessa di Dio che – secondo san Tommaso d’Aquino – è pura Beatitudine e somma Felicità. Solo se entriamo nella sua vita seguendo le regole del “gioco” della vita divina potremo sperimentare a nostra volta la pienezza della gioia. Ma tutto questo non è in noi e non dipende da noi bensì è pura partecipazione e dono gratuito. Così il primo versetto della liturgia di questa domenica risuona contemporaneamente come un appello e un programma: <Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra> (Sof 2, 3).

A questa parola del profeta fa eco l’inizio assoluto del Discorso della Montagna che è racchiuso tra due beatitudini capaci di delineare l’orizzonte della felicità lasciando aperte tutte le variazioni e creazioni possibili di felicità e di gioia: dapprima <i poveri in spirito> (Mt 5, 3) e – in ultimo – <i perseguitati> (5, 10-11). Queste due beatitudini rappresentato la sintesi più forte della logica divina che il Signore Gesù proclama sul monte come la nuova pista attraverso cui possiamo serenamente attraversare i deserti della vita per giungere – compiuto l’esodo da noi stessi e ucciso il nostro egoismo – alla terra interiore della libertà vera: kenosi (svuotamento) e martyrìa (testimonianza fino allo stremo) sono la via offerta al discepolo per essere in tutto come il maestro e talora persino <di più> (Gv 14, 12). Spesso sentendo nel nostro cuore il termine <vocazione> (1Cor 1, 26) pensiamo a chissà quali appelli fino ad essere persino intimoriti che ci possa toccare in prima persona qualcosa di simile. Invece la nostra vocazione è riassunta dalla conclusione delle beatitudini: <Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli> (Mt 5, 3.10.12). Ma cosa sono mai questi cieli perché possano realmente interessarci fino ad essere oggetto di desiderio ardente e arrischiato?

I cieli che attendiamo non sono altro che la maturità del cielo che viviamo con la nostra capacità di riflettere sempre più e sempre meglio l’ordine, la beatitudine, la luce di Dio fino a poter <riposare senza che alcuno li molesti> (Sof 3, 13). Il cielo è questo riposo e la beatitudine non è altro che la capacità di attraversare la storia e le storie come un <popolo umile e povero> (3, 12).

Vraiment bienheureux

IV Dimanche du T.O.

La liturgie d’aujourd’hui nous fait le grand don de proclamer en Eglise – encore une fois – l’évangile des Béatitudes. Huit fois, le Seigneur Jésus dit : ” Bienheureux…”. Il s’agit d’un texte que nous connaissons par coeur, un texte que nous aimons, et, indubitablement, un texte qui nous provoque continuellement et toujours. La trame des lectures offertes par la liturgie de la Parole nous permet d’entrer dans le château des Béatitudes par un portail très particulier qui résonne ainsi : ” Considérez votre vocation, frères ” ( 1 Cor 1, 26 ). Cette exhortation de Paul ouvre une compréhension aux Béatitudes dans le sens qu’elles sont notre vocation particulière en tant que disciples du Seigneur Jésus formés à l’école de l’Evangile et en conformité au mystère pascal. Nous pourrions donc nous demander quelle est la première règle de ce bonheur des béatitudes. La liturgie semble nous dire que la première règle fondamentale du bonheur est vraiment la capacité de se regarder dans un miroir limpidement et sans aucune peur en accueillant le mystère du choix de Dieu : ” ce qui dans le monde est insensé pour confondre les savants…ce qui dans le monde est faible pour confondre les forts…ce qui dans le monde est ignoble et méprisé” ( 1 Cor 1, 27-28)  A la fin de cette immersion dans le choix de Dieu, l’on peut, avec raison, être pour le moins, étonnés et inquiets : il faut vraiment prendre les choses à l’envers. Mais la motivation de l’apôtre n’est pas seulement capable d’éclairer, mais aussi d’illuminer et de convaincre du fait qu’il n’y a pas d’autre choix possible. Il dit : ” car aucun homme ne peut se glorifier devant Dieu ” ( 1, 29 ). Par ces paroles de l’apôtre qui tombent, mine de rien, entre la première et la troisième lecture de cette liturgie de la parole, nous sommes conduits au coeur des Béatitudes et au coeur de la vie même de Dieu qui- selon St Thomas d’Aquin – est pure Béatitude et bonheur total. C’est seulement si nous entrons dans sa vie en suivant les règles du ” jeu ” de la vie divine, que nous pourrons expérimenter, à notre tour, la plénitude de la joie. Mais, tout cela n’est pas en nous et ne dépend pas de nous, mais c’est une pure participation et un don gratuit. Ainsi, le premier verset de la liturgie de ce dimanche résonne actuellement comme un appel et un programme : ” Cherchez le Seigneur, vous tous, pauvres de la terre ” ( Soph 2, 3 ).

A cette parole du prophète fait echo le début du Discours sur la Montagne qui est inclus entre deux béatitudes capables de contourner l’horizon du bonheur en laissant ouvertes toutes les variations et créations possibles du bonheur et de la joie :  tout d’abord ” les pauvres en esprit ” ( Mt 5, 3 ) et – à la fin – ” les persécutés ” ( 5, 10-11 ). Ces deux béatitudes représentent la synthèse la plus forte de la logique divine que le Seigneur Jésus procclame sur la montagne comme la nouvelle piste avec laquelle nous pouvons traverser sereinement les déserts de la vie pour rejoindre – après avoir accompli notre propre exode et détruit notre égoïsme – la terre intérieure de la véritable liberté : kenosi ( le vide ) et martyria ( le témoignage jusquà l’extrême ) sont les chemins offerts au disciple pour être en tout comme le Maître et peut-être même ” plus ” ( Jn 14, 12 ). Nous entendons souvent résonner dans notre coeur le mot ” vocation ” ( 1 Cor 1, 26 ) et nous imaginons, je ne sais quels appels, jusqu’à être convaincus que cela peut nous toucher personnellement. Alors que notre vocation est résumée par la conclusion des Béatitudes : ” Réjouissez-vous et soyez dans la joie, car votre récompense est dans les cieux ” ( Mt 5, 3. 10-12 ). Mais que peuvent donc être ces cieux pour nous intéresser réellement jusqu’à devenir objets de désirs ardents et s’y risquer ?

Les cieux que nous attendons ne sont rien d’autre que la maturité du ciel que nous vivons par notre capacité de refléter toujours plus et mieux, l’ordre, la béatitude, la lumière de Dieu jusqu’à pouvoir ” y reposer sans que personne les attaquent ” ( So 3, 13 ). Le ciel est ce repos et la béatitude n’est rien d’autre que la capacité de traverser l’Histoire et les histoires comme un ” peuple humble et pauvre ( 3, 12 ). 

Decidersi

III settimana T.O.

Non c’è tempo da perdere e soprattutto non possiamo addossare al Signore Gesù la responsabilità della nostra paura e del nostro turbamento. Se il Signore dorme beatamente è perché il suo cuore non è scosso dalle onde del mare che significano gli assalti del male che cerca – proprio come l’acqua di una lago o mare in tempesta – di insinuarsi nella barca snaturandola: da mezzo che permette di navigare lo rende mezzo che trascina a fondo. La barca è sempre barca, come ognuno di noi è sempre se stesso, la differenza si crea a motivo di come lasciamo che le forze dell’esterno corrodano la nostra fede fino ad annientarla. La prima lettura ci dà una bellissima occasione per riflettere e per discernere il nostro cammino alla luce di quanti, in quel medesimo cammino, ci hanno preceduto, non certo con minori difficoltà di quelle che viviamo noi stessi.

La lunga e stupenda litania sulla fede dei nostri padri e delle nostre madri in cui sono ricapitolati e significati i cammini di tutti gli uomini e di tutte le donne di cui la storia non ha registrato i nomi, ma di cui serba indelebile memoria delle segrete ferite e delle gloriose seppur invisibili piaghe, è come la risposta all’invito che il Signore sussurra all’orecchio dei suoi discepoli: <Passiamo all’altra riva> (Mc 4, 35). Da parte nostra rischiamo di sottovalutare il rischio inerente all’accoglienza di questo invito del Signore, pensando che il fatto di camminare attraverso le acque in sua compagnia ci esima da ogni pericolo… e invece: <ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca> (4, 37). Come i discepoli e ben prima di loro, lo stesso padre Abramo, <chiamato da Dio> (Eb 11, 8), forse si mise in marcia con la speranza di trovare ben presto una dimora per sé e una fecondità per la sua stirpe e, invece, quanto dovette attendere non solo quando <partì senza sapere dove andava>, ma per tutto l’intero percorso della sua vita: <egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso> (11, 10).

A nostra volta siamo chiamati ad imbarcarci sulla barca con il Signore Gesù e ciò significa sempre e comunque accettare di lasciarsi alle spalle la terraferma delle certezze per navigare nell’incerto mare della fede che è <fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede> (11, 1). La domanda che si pone è circa il motivo per cui il Signore Gesù permette un’esperienza come quella vissuta dai discepoli in mezzo al mare in tempesta tanto da indurli a implorarlo e quasi a rimproverarlo: <Maestro, non t’importa che siamo perduti?> (Mc 4, 38). L’esperienza dello smarrimento in mezzo alla tempesta conclude i racconti delle parabole e, forse, è un modo per il Signore di aiutare i suoi discepoli ad interpretare le parabole e ad applicarle alla loro vita. Ciò che in realtà può veramente uccidere quel seme che viene affidato alla terra del nostro cuore perché fruttifichi è proprio la paura di cui i discepoli sono costretti a prendere coscienza e che il Signore non esita a denunciare: <Perché avete paura? Non avete ancora fede?> (4, 40).

Oltre

III settimana T.O.

Il Signore Gesù è venuto per parlare la nostra lingua e ci parla di sé parlandoci così bene di noi! Le parabole, ben oltre il contenuto di immagini e di messaggio, sono prima di tutto il segno e la memoria di una stupenda cospirazione tra la nostra vita e quella di Dio che cerca di maturare dentro di noi e nonostante noi. Per questo il Signore Gesù parlandoci del regno di Dio che è venuto a ad inaugurare e piantare nella nostra vita, non trova di meglio che raccontare le cose alle quali siamo abituati e da cui dipende la nostra vita di ogni giorno: <un uomo che getta il seme > (Mc 4, 26) oppure <un granello di senape> (4, 31). Gesti semplici e quotidiani che pure sono capaci di portare non solo lontano, ma persino oltre quello cui siamo abituati o, peggio ancora, cui siamo rassegnati: <cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare in nido alla sua ombra> (4, 32).

Eppure nella liturgia troviamo un contrasto forte tra l’invito alla fiducia e all’abbandono del Signore Gesù e la messa in guardia della prima lettura dal rischio di abbandonare il combattimento: <Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa> (Eb 10, 35). E l’anonimo autore della lettera agli Ebrei ci tiene a sottolineare e a chiarire il fatto che <Avete solo bisogno di perseveranza, perché, fatta la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso> (10, 36). Queste parole ci aiutano ad accogliere con la giusta gravità, le due parabole che troviamo nel Vangelo, senza cadere nell’illusione ingenua che tutto sia semplice e, soprattutto, che sia automatico. Se, infatti, non solo è vero e bello che <il terreno produce spontaneamente> (Mc 4, 28), è anche vero che, perché questo avvenga, la terra deve aver maturato una fecondità possibile senza la quale non si potrà raccogliere nessun frutto.

Ogni giorno siamo chiamati a vivere con impegno il paradosso della realtà facendo della nostra vita una parabola vivente: “abbandono nella lotta sempre unita alla necessaria lotta nell’abbandono”. Tutti noi sappiamo, infatti, quanto possa essere difficile e duro l’imparare a consegnarsi come una terra che attende il seme e ad accettare che la nostra fatica nel crescere pianta rigogliosa possa essere gioiosamente usata da altri come accade agli alberi con gli uccelli. Alla luce della Parola di Dio racchiusa nelle Scritture possiamo oggi scandagliare la nostra vita quotidiana per riuscire a scorgervi quelle realtà semplici e quotidiane che pure sono chiamate a diventare – per noi stessi e per gli altri – delle parabole che portano oltre illuminando di una luce e di un sapore meravigliosi la nostra esistenza che è già parte del Regno di Dio. Del resto: <Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà> (Eb 10, 37). Come il seme nella terra vorremmo anche noi poter dire con una certa fierezza: <Noi però non siamo di quelli che cedono> (10, 39).

Abbondante

Santi Timoteo e Tito

La parola con cui il Signore invia i suoi discepoli ad annunciare la presenza del Regno di Dio indica una dismisura e un paradosso che sembrano irrinunciabili per una missione che non sia semplicemente un contenuto dottrinale – per quanto elevato – ma uno stile di vita capace di farsi lievito nella realtà di un modo evangelico di vivere, di sentire, di reagire. Da una parte il Signore ricorda ai settantadue discepoli che <La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai!> (Lc 10, 2) e dall’altra chiede loro di non attrezzarsi troppo, anzi di non attrezzarsi affatto: <non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada> (10, 4). Sembra che l’ampiezza del lavoro cui i discepoli sono chiamati non debba in nulla metterli in agitazione. Al contrario il Signore chiede una misura ancora più grande di fiducia non in se stessi, nei propri mezzi e persino nell’annuncio di cui sono portatori, ma negli altri verso cui i loro passi vengono indirizzati in una semplicità e libertà. Questo stile, che si fa tratto inconfondibile, è già annuncio e testimonianza di un modo nuovo di approcciare e di presentarsi: <Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa> (10, 7) e nello stesso tempo non può pretendere in alcun modo di essere ricompensato.

Alla <messe abbondante> che rischierebbe di esasperare, il Signore sembra contrapporre una fiducia interiore ancora più abbondante da essere capace di donare ai suoi discepoli persino la serenità di affrontare l’inevitabile rifiuto senza nessun vittimismo né alcuna recriminazione: <ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi> (10, 3). Sembra che la vera preoccupazione del Signore non è che i suoi discepoli siano risparmiati, ma che abbiano il coraggio di rimanere sempre e comunque dei veri <agnelli>. Ciò che nella Colletta dell’Eucaristia dei santi Timoteo e Tito viene evocata e invocata come <scuola degli apostoli>, sembra non essere altro che questa leggerezza interiore che permette di coniugare al realismo di uno sguardo disincantato e preciso sulle situazioni, una fiducia invincibile. Proprio e solo questa fiducia rende possibile continuare a seminare e a mietere senza nessun calcolo e con una gratuità che diventa un vero e proprio stile di vita e, in particolare, stile di relazione.

Lo ricorda con dolcissima forza l’apostolo Paolo scrivendo a uno dei suoi discepoli e collaboratori più stimati e amati: <Dio, infatti, non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza> (2Tm 1, 7). La <medesima fede> (Tt 1, 4) da cui Paolo sente di essere intimamente legato a Tito diventa una sorta di forza interiore che permette continuamente di comunicare il meglio di sé creando attorno a sé un <ordine> (1, 5) che è quello di un amore e di un’attenzione sempre più profonde e autentiche. 

Credere o non credere

Conversione di san Paolo

Normalmente dei santi celebriamo il giorno natalizio della loro morte che porta a compimento non solo il loro cammino di vita, ma rivela e corona il loro combattimento spirituale e la loro costanza nella lotta per essere interiormente trasformati da Cristo Signore. Della Madre di Dio e di san Giovanni Battista celebriamo pure il giorno della loro nascita che li lega in modo del tutto particolare e unico al mistero del Salvatore generato da una madre e indicato da un amico. Di Paolo celebriamo la conversione, sentendo come Chiesa che questo passaggio della sua vita non solo è stato importante per il suo cammino, ma ha significato una vera svolta per tutta la Chiesa e per l’umanità. Così commenta Fulgenzio di Ruspe: <Saulo è spinto sulla via di Damasco per diventare cieco, poiché non vedendo giunga a vedere la vera Via. Egli perde la vista degli occhi, ma il suo cuore è illuminato affinché la vera luce appaia agli occhi del cuore e a quelli del corpo. È spinto dentro se stesso, per ‘cercarsi’. Vagabondava in compagnia di se stesso, viaggiatore inconsapevole, e non si ritrovava poiché interiormente aveva perduto la via>1.

Chi di noi non potrebbe identificarsi in questo piccolo ritratto dell’apostolo che prima di diventare pastore è come una pecora perduta e incagliata tra i rovi di se stesso e delle sue convinzioni? Egli ha bisogno di essere salvato da se stesso e da tutto ciò che ne faceva un devoto zelante, tanto di ritenere di avere il dovere di perseguitare chi cercava la via della vita in modo diverso dal suo. Saulo non è un uomo che vive nel peccato o nella dimenticanza dei precetti divini, al contrario può affermare con fierezza e senza menzogna: <Io sono un Giudeo… educato… nell’osservanza scrupolosa della Legge dei Padri, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi> e aggiunge <Io perseguitai a morte questa Via, incatenando e mettendo in carcere…> (At 22, 3-4). Il cammino di Saulo non è quello di una conversione morale, ma di una conversione di fede… alla fede che esige un modo di concepire la fedeltà a Dio in modo imprescindibilmente unito al rispetto e all’amore degli altri persino quando mettessero in dubbio o in crisi la nostra devozione. Per questo al cuore della conversione di Saulo vi è una parola: <fratello> (9, 17)!

Possiamo immaginare che questa conversione se è stata intuita come una folgore mentre Saulo si stava avvicinando a Damasco, nondimeno abbia avuto bisogno di un lungo tempo di decantazione e di maturazione come ricorda egli stesso evocando il tempo vissuto in <Arabia> (Gal 1, 17). Alla vicenda interiore di Paolo si potrebbe applicare il paradosso Shakespeariano: <credere e non credere, questo è il problema>! Infatti, nel Vangelo scelto per accompagnare questa festa le parole del Risorto risuonano così: <Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato> e ancora <Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono…> (Mc 16, 16-17). I segni sono quelli di una fraternità sempre più profonda e vera. Le <lettere> (At 9, 2) che autorizzavano Saulo a incatenare i discepoli di Gesù, diventeranno le Lettere da lui scritte ai discepoli del Signore Gesù in cui il dilemma di credere o non credere diventerà sempre più chiaramente quello di amare o non amare.


1. FULGENZIO DI RUSPE, Discorso attribuito, n° 59 appendice; PL 65,929.


Fuori

III settimana T.O.

Il brevissimo testo del vangelo di oggi ci mette di fronte ad un grande dramma: il rischio di capovolgere le parti nel rapporto di discepolanza. Infatti, vediamo come, davanti al ministero del Signore Gesù che si fa tutto a tutti, <giunsero la madre di Gesù e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare… > (Mc 3, 31). In questa breve, ma intensa nota di Marco, è racchiuso tutto il mistero di un possibile – sempre possibile – fraintendimento che falsa il rapporto che ognuno di noi è chiamato a tessere con il Signore Gesù. È lui che ci chiama e ci indica il cammino per uscire sempre più profondamente da noi stessi per incontrare non solo Lui ma, attraverso di lui, per entrare nel cerchio di coloro che ascoltano la sua parola e si fanno risanare dalla sua presenza. La sottile tentazione del rimanere <fuori> (3, 32) non può che tenerci fuori dallo sguardo e dalla relazione con lo stesso Signore e Maestro della nostra vita.

Questo perché, procedere così, significa vivere in una logica inversa a quella assunta dal Verbo nel suo farsi uno di noi, logica che viene tratteggiata in modo così concreto nella Lettera agli Ebrei, da essere quasi corporea, tangibile, concreta. Il Cristo usa le parole del salmo per parlare di se stesso: <Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi ha preparato> (Eb 10, 5). Con questa immagine di un <corpo> assunto si vuole indicare la profondità e la durevolezza del coinvolgimento di Dio – in Cristo Gesù – nella nostra storia. Da parte nostra siamo chiamati ad entrare nella stessa logica dicendo a nostra volta e con Lui: <Ecco, io vengo a fare la tua volontà> (Eb 10, 9). A questa parola della Lettera agli Ebrei fa eco la stessa parola del Signore Gesù che rimette la madre e i fratelli nella giusta direzione di relazione: <Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre> (Mc 3, 35).

Solo così possiamo comprendere che compiere la volontà di Dio è accettare e desiderare di essere <fratello, sorella e madre> di ogni uomo e di ogni donna che fa parte di quel <corpo> (Eb 10, 5) che il Verbo ha assunto e di cui ognuno di noi è membro. La nostra tentazione di tenerci <fuori> fino a cercare di tirare <fuori> lo stesso Signore non farebbe che metterci fuori dal mistero della volontà di Dio che è quella di fare di tutti una cosa sola. C’è una verità che non dobbiamo mai dimenticare né tantomeno sottovalutare: <Non è possibile far conoscere Gesù se non dal di dentro, e non si può conoscere veramente una persona se non la si ama. Chi vive in intimità con il Cristo sa parlare bene di lui>.1 Non solo sa parlare bene di lui, ma è abitato da un desiderio ardente di farsi in tutto simile a lui. In caso contrario quello che si potrà sperimentare e quello che ci si illuderà di dover annunciare non sarà che una pallida, talora persino fuorviante, <ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose> (Eb 10, 1).


1. G. CHEVROT, La victoire de Paque, Bonne Presse, Paris 1951, p. 265.


Finito

III settimana T.O.

L’affermazione con cui il Signore Gesù reagisce al terribile sospetto che si fa tremenda accusa e radica in una gelosia così incontenibile da sembrare persino incontinente è, in realtà, un grande atto di speranza: <Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito> (Mc 3, 26). Infatti, Satana non può che essere diviso in se stesso non conoscendo le gioie della vera comunione, ma solo le dure tristezze della divisione e della contrapposizione. Per questo non può che continuare ad essere causa di divisione. Eppure la sua potenza è misera poiché, senza il pieno consenso della volontà, non può trascinare alcuno nel suo abisso di desolazione. A questa parola che riguarda Satana, il Signore Gesù ne aggiunge un’altra che riguarda invece anche noi.

È questa una delle parole più dure che siano mai uscite dalla bocca del Signore: <tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato in eterno, è reo di colpa eterna> ((3, 28-29). La particolare forza di questa parola riguarda situazioni e atteggiamenti assai ordinari della nostra vita. Sono tanti i momenti in cui diventiamo nemici del bene che fiorisce e fruttifica attorno a noi che, per uno strano istinto siamo portati a cogliere e amplificare piuttosto il male che pure è presente, ma non e non dovrebbe mai diventare la realtà più importante. Sarebbe un errore riferire questa parola del Signore a situazioni estreme di contrapposizione a Dio che pure esistono, ma è necessario cogliere e sradicare nella nostra realtà più quotidiana la tendenza al sospetto che ci rende inclini ad evidenziare maggiormente i segni negativi piuttosto che a farci attenti ed empatici con i più minimi segni positivi che possiamo riscontrare in noi e attorno a noi.

L’autore della Lettera agli Ebrei ci fa comprendere esattamente ciò che gli scribi non riescono o non vogliono per nulla accogliere: <in nostro favore> (Eb 9, 24). Questo è il tratto divino che il Signore Gesù è venuto a rivelarci in pienezza: Dio è in nostro favore e questo significa che il potere del male – di ogni possibile male – non può che essere <finito>. Se i farisei, di cui ci parla il vangelo, sembrano essere così presi dall’evidenziare il male, la prima lettura ci aiuta a cogliere in Cristo Gesù il superamento di esso: <così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza> (Eb 9, 28). Partendo da questa affermazione della lettera agli Ebrei potremmo ardire di affermare che il peccato imperdonabile di cui ci parla così duramente il Signore Gesù è il rischio, non così raro persino nella nostra vita di credenti, di non aspettarci più nulla di buono, di bello e di vero dalla vita. In questo modo si attua, all’interno del nostro cuore, la divisione più grave che si possa immaginare: la separazione dalla radice e dalla sorgente della nostra vita che è Dio dal quale continuamente proviene un’energia di speranza e di fiducia.