Discrezione

Santi Arcangeli  –

Non è proprio così! Il combattimento così glorioso descritto nell’Apocalisse esprime al meglio quello che viene vissuto nelle pieghe più segrete di ogni storia umana, ma bisogna pur riconoscere che nella nostra vita non è proprio così! I nostri combattimenti, le nostre rare vittorie e le nostre consuete sconfitte sono vissute in modo assai più quotidiano e apparentemente normale. La festa degli Arcangeli – Michele, Gabriele e Raffaele, – ci fa percepire la grandezza di ciò che è in gioco nelle nostre esistenze, ma al contempo come e quanto ciò che guida e fa la nostra vita esige la discrezione dell’amore e l’amore della discrezione. In questo si dimostra “angelo grande” il Signore Gesù quando rivela a Natanaele di averlo visto <sotto l’albero di fichi> (Gv 1, 48) ossia di aver conosciuto e rispettato con infinita e amabilissima discrezione il suo cammino di ricerca fatto anche di sospetto e di resistenza. Il Signore non lo rimprovera ma accetta che quest’uomo gli venga <incontro> (1, 47) per quello che è e lo sa accogliere a partire dal suo segreto mistero: esso non solo è comunque da rispettare, ma sempre da riconoscere e da valorizzare con un giusto pizzico di ammirazione.

Celebrando la festa degli Arcangeli facciamo festa per la modalità con cui il Signore guida i nostri cammini umani senza toglierci tutta la responsabilità e la gravità dei singoli passi da compiere e che sono affidati alla libertà e alla creatività di ciascuno di noi. Quel <fiume di fuoco> (Dn 7, 10) di cui parla il profeta Daniele sembra trasformarsi in un mare di grazia nella capacità che il Signore Gesù ha di accogliere Natanaele con infinito rispetto e con radiosa chiarezza. Quella <guerra> (Ap 12, 7) che <Michele e i suoi angeli>scatenano in cielo si trasforma nella carne e nella presenza di Gesù in un <cielo aperto> (Gv 1, 51) da cui non solo gli angeli vanno e vengono liberamente, ma su cui può liberamente passeggiare chiunque voglia <salire e scendere> per penetrare e farsi portare dal mistero di Cristo.

Dagli angeli e dagli arcangeli siamo iniziati alla vita stessa di Dio che è capace di riorientare profondamente – come avvenne per lo scettico, ma sincero Natanaele – il nostro modo di sentire e leggere la vita, di gestire e riflettere sulle nostre relazioni. Laddove a noi verrebbe più spontaneo di lasciarci andare ai nostri pregiudizi negativi, la parola del Signore e il soccorso dei suoi angeli ci aiuta a rallegrarci per ogni realtà e persona che si apre alla grazia. La gioia degli angeli e degli arcangeli non può che condividere quella del loro Signore e per questo esultano <per un solo peccatore che si converte> (Lc 15, 10). Siamo chiamati a vigilare sul nostro cuore e sulle nostre fantasie spirituali: gli arcangeli assomigliano molto meno al possente <drago> (Ap 12, 7) di cui ci parla l’Apocalisse e molto più al <Figlio dell’uomo> (1, 51) di cui ci parla Gesù stesso. Non confondiamo l’efficacia con l’efficienza, la presenza con la potenza, la custodia con il controllo… impariamo dall’invisibilità angelica l’umanissima discrezione, madre di tutte le virtù angeliche e terrestri.

Per mezzo

XXV settimana T.O.  –

Per due volte troviamo, nella prima lettura, la sottolineatura del fatto che il Signore si rivolge al suo popolo <per mezzo del profeta Aggeo> (Ag 1, 1 e 3). Si respira, in un momento delicato come sicuramente fu il tempo della ricostruzione del Tempio a Gerusalemme, un’atmosfera non solo di operosità e di entusiasmo, ma soprattutto – e fondamentalmente – si avverte una non trascurabile sensibilità e docilità. Perché la storia possa andare avanti e il cammino proseguire felicemente verso la sua meta, è necessario accettare tutte le mediazioni che si rendono necessarie e a cui bisogna prestare attenzione perché si possa attuare un sereno e fattivo discernimento. La mediazione del profeta evocata per due volte, anche per ben due volte si fa esortazione ad un’attenzione che si tenga lontana da ogni distrazione: <Riflettete bene sul vostro comportamento…> (1, 5 e 7). Siamo così posti in quella che è l’attitudine giusta se non vogliamo smarrirci sulla strada dei nostri desideri e dei nostri bisogni: ogni giorno siamo chiamati a porci davanti al mistero della vita e alle sue esigenze con attitudine ricettiva e accettando di dialogare e lasciarci interrogare e plasmare da tutte le mediazioni che la vita pone sul nostro cammino di ricerca.

Il rischio di cadere nella trappola di Erode è, infatti, sempre in agguato: <E cercava di vederlo> (Lc 9, 9). Questo però Erode lo desidera senza accettare di essere aiutato e guidato a vedere in modo giusto. Ciò esige sempre la disponibilità a lasciarsi smascherare e purificare dall’incontro con l’altro che, se autentico, non può che rivelarsi a noi stessi manifestando la necessità di un processo interiore di indispensabile purificazione e crescita. Non si può certo escludere a priori, in Erode, un desiderio di capire chi è Gesù; come del resto ci è attestato che “egli” ascoltava volentieri, fino a lasciarsi turbare dalla predicazione del Battista. Nondimeno, alla fine, risulta chiaro che, se anche Erode è curioso, non è tuttavia disponibile a lasciarsi disturbare dall’incontro. Persino al mattino del giorno della Parasceve quando incontrerà finalmente Gesù, non sarà capace di aprirsi all’incontro con il profeta di Nazareth preferendo approfittare di questa occasione per rinsaldare i legami politici con Pilato.

Erode è una figura che sta agli antipodi di quella del discepolo, la cui personalità si va formando, pagina dopo pagina, nello scorrere del Vangelo. Se il discepolo è colui che si lascia incontrare fino a lasciarsi coinvolgere nel cammino del Maestro, Erode, per quanto appassionato, rimane spettatore. Eppure non va dimenticato qualcosa di importante: nessuna vita può veramente giocarsi senza realmente coinvolgersi e impegnarsi personalmente. L’inquietudine di Erode è un modo per sfuggire alla sua paura di trovarsi davanti ad un altro profeta che lo metta di fronte alla verità della sua vita. Il re non vuole conoscere, ma vuole semplicemente inquadrare Gesù per potersene difendere e rendere la sua parola innocua e irrilevante per la sua esistenza e i suoi traffici.

Asilo

XXV settimana T.O.  –

Non saremo mai grati abbastanza e non faremo mai abbastanza nostre le parole dello scriba Esdra: <Ma ora, per un po’ di tempo, il Signore, nostro Dio, ci ha fatto una grazia: di lasciarci un resto e darci un asilo nel suo luogo santo, e così il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi e ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù> (Esd 9, 8). Così pure non saremo mai abbastanza docili ad accogliere la provocazione del Signore Gesù che affida anche a noi il mandato di cui sono investiti gli apostoli: <E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi> (Lc 9, 2). Il ruolo e la missione della Chiesa al cuore dell’umanità, è pensato e voluto dal suo Signore in vista dell’incremento della sua felicità che si identifica con la capacità di offrire ad ogni creatura un <asilo>. Così esortava il vescovo ausiliare di Parigi negli anni in cui la Chiesa – dopo il ’68 – vedeva trasformare radicalmente il proprio modo di presenza nel mondo, quasi costretta – dalla congiuntura culturale, politica ed economica – ad assumere un volto più evangelico: <La Chiesa di Gesù non ha niente altro da offrire se non la fede, la carità e la speranza dei primi discepoli che non hanno trasformato il mondo con il metodo dei politici, dei sapienti o dei filosofi. Ma hanno fatto di più, hanno annunciato al mondo la salvezza, e questo perché il Vangelo ha loro insegnato ciò che abita profondamente il cuore dell’uomo>1.

Proprio per crescere sempre di più in quella che potremmo definire una sensibilità a tutto ciò che è umano, il Vangelo non è – come spesso si sente dire e persino avvertiamo dentro di noi – una lunga serie di proibizioni etiche. Oggi la parola del Signore Gesù ci mette di fronte ad una serie di raccomandazioni perché mai, in noi, ci sia qualcosa che faccia da ostacolo alla luce del Vangelo: <Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche> (9, 3). Al cuore della consegna del Signore Gesù, affidata agli apostoli, non vi sono degli “interdetti” cui sottomettere gli altri, ma delle esigenze rigorose cui sottomettere se stessi per essere veramente in grado di aprire il cuore all’accoglienza della buona novella del regno di Dio. La condizione dell’annuncio sembra proprio essere una sorta di leggerezza interiore indicata da un passo così agile da suscitare gioia – e non timore – fin da quando si è ancora lontani.

Gli apostoli sono uomini e credenti che non hanno nulla, se non quella realtà che portano dentro come un dono ricevuto da condividere, le cui condizioni imprescindibili sono quelle di una serena dipendenza dalla benevolenza degli altri e una gioiosa povertà: realtà queste che diventano il luogo possibile dell’incontro e della comunicazione dei doni. Talora tutto ciò può avvenire in modo assolutamente imprevisto tanto da trovare sulla bocca di Esdra parole commoventi: <ma nella nostra schiavitù il nostro Dio non ci ha abbandonati: ci ha resi graditi ai re di Persia, per conservarci la vita ed erigere il tempio del nostro Dio e restaurare le sue rovine, e darci un riparo in Giuda e Gerusalemme> (Esd 9, 9). Chi se lo sarebbe mai aspettato?!


1. D. PEZERIL, Sortez de votre sommeil, Paris 2001, p. 41.

Puri!

XXV settimana T.O.  –

La dichiarazione del Signore Gesù potrà sembrare persino brusca eppure è fondamentale per la Chiesa di ogni tempo chiamata continuamente a risituare se stessa nel duplice riferimento a Cristo suo Signore e all’umanità di cui e per cui è sacramento di salvezza. <Mia madre e i miei fratelli sono questi…> (Lc 8, 21). Per capire ancora meglio cosa sia necessario vivere per fare parte di <questi>, senza rischiare di rimanere fuori da una relazione significativa con il Signore Gesù, nonostante si possa vantare un grado non trascurabile di vicinanza e di familiarità, la prima lettura sembra darci un quadro assai eloquente: <continuarono a costruire e a fare progressi> e ancora <portarono a compimento la costruzione per ordine del Dio d’Israele e per ordine di Ciro, di Dario e di Artaserse, re di Persia> (Esd 6, 14). Ciò che indica un reale grado di familiarità con il Signore è un riscontrabile livello di laboriosità che tiene conto, continuamente e sempre, di una relazione non esclusiva – nemmeno con Dio! – ma che obbedisce alla volontà del Signore accettando che essa passi – e ne sia come plasmata – attraverso le umane vicissitudini.

La ricostruzione e la dedicazione del Tempio di Gerusalemme è il risultato di una sorta di cospirazione tra il Dio di Israele e i re pagani. Questi ultimi sostengono il popolo nel suo progetto di riedificazione di un luogo che restituisce agli esiliati un’identità forte, nella coscienza ferma che essa rinasce in relazione e con l’aiuto insperato e inaudito di coloro che avevano tentato di annientarla. La nascita del Giudaismo come riscossa di un popolo che ritrova la sua terra e le sue abitudini e che è fortemente tentato di isolarsi fino a segregarsi per evitare ogni contaminazione, è frutto di una benevolenza e di una collaborazione con gli altri che non bisogna mai dimenticare. La nota finale secondo la quale <tutti erano puri> (6, 20) andrebbe forse intesa, o almeno desiderata e ricercata, nel modo più aperto e accogliente che si possa immaginare. Il gesto della mano del Signore che indica <questi> come <coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica> (Lc 8, 21), è lo stesso gesto evocato dalla parabola del seminatore: largo e dilatante, generoso e pieno di fiducia.

Se è vero che <andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla> (8, 19) è ancor più vero che l’unico modo di avvicinarsi veramente al Signore è quello di accettare di mescolarsi e non quello di distinguersi. Del resto ciò che permette di riconoscere i membri di una medesima famiglia è il fatto che tutti ci si somigli in un qualche modo! Per cui non ci resta che assomigliare, visibilmente e nei fatti, al Signore Gesù assumendo il suo stile di universale familiarità. Essere discepoli del Signore Gesù non significa solo, e neppure prima di tutto, accogliere un insegnamento, ma assumere un atteggiamento da cui si possa riconoscere la scuola a cui siamo stati formati: quella di Cristo che ci rende puri da noi stessi e ci fa entrare in processo che potremmo definire di universale purificazione.

Salire

XXV settimana T.O.  –

La dichiarazione del Signore Gesù potrà sembrare persino brusca eppure è fondamentale per la Chiesa di ogni tempo chiamata continuamente a risituare se stessa nel duplice riferimento a Cristo suo Signore e all’umanità di cui e per cui è sacramento di salvezza. <Mia madre e i miei fratelli sono questi…> (Lc 8, 21). Per capire ancora meglio cosa sia necessario vivere per fare parte di <questi>, senza rischiare di rimanere fuori da una relazione significativa con il Signore Gesù, nonostante si possa vantare un grado non trascurabile di vicinanza e di familiarità, la prima lettura sembra darci un quadro assai eloquente: <continuarono a costruire e a fare progressi> e ancora <portarono a compimento la costruzione per ordine del Dio d’Israele e per ordine di Ciro, di Dario e di Artaserse, re di Persia> (Esd 6, 14). Ciò che indica un reale grado di familiarità con il Signore è un riscontrabile livello di laboriosità che tiene conto, continuamente e sempre, di una relazione non esclusiva – nemmeno con Dio! – ma che obbedisce alla volontà del Signore accettando che essa passi – e ne sia come plasmata – attraverso le umane vicissitudini.

La ricostruzione e la dedicazione del Tempio di Gerusalemme è il risultato di una sorta di cospirazione tra il Dio di Israele e i re pagani. Questi ultimi sostengono il popolo nel suo progetto di riedificazione di un luogo che restituisce agli esiliati un’identità forte, nella coscienza ferma che essa rinasce in relazione e con l’aiuto insperato e inaudito di coloro che avevano tentato di annientarla. La nascita del Giudaismo come riscossa di un popolo che ritrova la sua terra e le sue abitudini e che è fortemente tentato di isolarsi fino a segregarsi per evitare ogni contaminazione, è frutto di una benevolenza e di una collaborazione con gli altri che non bisogna mai dimenticare. La nota finale secondo la quale <tutti erano puri> (6, 20) andrebbe forse intesa, o almeno desiderata e ricercata, nel modo più aperto e accogliente che si possa immaginare. Il gesto della mano del Signore che indica <questi> come <coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica> (Lc 8, 21), è lo stesso gesto evocato dalla parabola del seminatore: largo e dilatante, generoso e pieno di fiducia.

Se è vero che <andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla> (8, 19) è ancor più vero che l’unico modo di avvicinarsi veramente al Signore è quello di accettare di mescolarsi e non quello di distinguersi. Del resto ciò che permette di riconoscere i membri di una medesima famiglia è il fatto che tutti ci si somigli in un qualche modo! Per cui non ci resta che assomigliare, visibilmente e nei fatti, al Signore Gesù assumendo il suo stile di universale familiarità. Essere discepoli del Signore Gesù non significa solo, e neppure prima di tutto, accogliere un insegnamento, ma assumere un atteggiamento da cui si possa riconoscere la scuola a cui siamo stati formati: quella di Cristo che ci rende puri da noi stessi e ci fa entrare in processo che potremmo definire di universale purificazione.

Affinare

XXV Domenica del T.O. –

La domanda che il padrone della parabola pone ai suoi operai scontenti e mormoratori suona così: <Non hai forse concordato con me per un denaro?> (Mt 20, 13). Domanda assai esigente e profondamente restringente! Per ciascuno di noi si tratta di chiudere gli occhi su quella che è l’esperienza dei nostri fratelli per essere completamente attenti a noi stessi, fino ad accettare un grado di ignoranza che oltre ad essere vero è anche assai utile. Per ciascuno di noi è la sfida di fare memoria di quanto abbiamo <concordato> con il nostro Signore, tanto da accettare di non sapere – perché di fatto non lo sappiamo – che cosa è stato concordato per gli altri. La parabola che la liturgia ci fa leggere in questa domenica non è una proposta di manovra economica, ma, attraverso una realtà che ci tocca tutti e cioè il rapporto di giustizia tra il lavoro fatto e la ricompensa ricevuta, è un modo per essere condotti ad affinare la nostra sensibilità. Questo è l’unico modo per accordare il nostro modo di sentire e di giudicare a quella che è la logica del <regno dei cieli> (20, 1).

L’apostolo Paolo si fa per noi esempio di un atteggiamento giusto e adeguato quando invita a comportarsi <in modo degno del vangelo di Cristo> (Fil 1, 27). Ci viene così offerto l’esempio per vivere con assoluta attenzione e concentrazione non su quello che fanno o non fanno gli altri, ma su quello che l’apostolo sente essere il suo fondamentale e irrinunciabile dovere di fedeltà, tanto da essere disposto a tutto senza giudicare nessuno. Per questo Paolo dice: <Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva, sia che io muoia> e aggiunge magnificamente: <Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno> (1, 20-21). Essere degni del vangelo è ciò che ci deve stare a cuore e questo non può che essere legato al percorso personale di ciascuno di cui è testimone solo il Signore, che conosce sia la fatica di chi ha <sopportato il peso della giornata e il caldo> (Mt 20, 12), sia l’angoscia di chi è rimasto senza lavoro fino a sera con una motivazione non certo banale: <Perché nessuno ci ha presi a giornata> (20, 7).

Possiamo immaginare tutto quello che vogliamo sul livello di laboriosità e di intraprendenza di questi operai dell’ultimissima ora, ma la parabola ci dice solo che questi tali sono rimasti senza lavorare pur essendo disposti a lavorare, tanto da accettare di fare anche un’ora sola di lavoro e senza nessuna contrattazione come era avvenuto per i primi che poi si lamentano. Il salmo ce lo ricorda in modo assai bello: <Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere> (Sal 144, 17). Il profeta, da parte sua, chiarisce l’atteggiamento di Dio che si sottrae ad ogni tentativo di manipolazione: <Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie> (Is 55, 8). Lungo questa giornata siamo chiamati veramente a mettere un po’ in discussione il nostro modo di pensare e di giudicare spesso autogiustificante e accusatorio nei confronti degli altri. Affiniamo non le armi del giudizio, ma quelle della comprensione che comincia sempre con una giusta e umile comprensione di noi stessi.

Affiner

XXV Dimanche du T.O. 

La question que le maître de la parabole pose à ses ouvriers mécontents et maugréant résonne ainsi : ” N’as-tu pas passé un accord avec moi pour un denier ? ” ( Mt 20, 13 ). Question assez exigeante et profondément restrictive ! Il s’agit pour chacun de nous de fermer les yeux sur l’expérience que vivent nos frères, pour être complètement attentifs à nous-mêmes, jusqu’à accepter un degré d’ignorance qui, en plus d’être véridique, est aussi souvent utile. Pour chacun de nous, le défi est de se souvenir de ce que nous avons ” conclu” avec notre Seigneur, pour accepter de ne pas savoir – car, en fait, nous ne le savons pas – ce qui a été conclu pour les autres. La parabole que la liturgie nous fait lire ce dimanche est une proposition de manoeuvre économique, mais, à travers une réalité qui nous touche tous, c’est le rapport de justice entre le travail accompli et la récompense reçue, c’est une façon d’être conduits à affiner notre sensibilité. Ceci est l’unique façon d’accorder notre manière de sentir et de juger à celle qui est la logique du ” Règne des Cieux ” ( 20, 1 ).

L’apôtre Paul est pour nous l’exemple d’un attachement juste et adéquat lorsqu’il nous invite à nous comporter ” de façon digne de l’évangile du Christ ” ( Phi 1, 27 ). Il nous est ainsi proposé l’exemple de vivre avec une attention et une concentration totale, non sur ce que font ou ne font pas les autres, mais sur ce que l’apôtre sent être son fondamental et irrévocable devoir de fidélité, jusqu’à être disposé à tout, sans juger personne. Pour cela Paul dit : ” Christ sera glorifié dans mon corps, que je sois vivant ou mort ” et il ajoute magnifiquement : ” Pour moi, en effet, vivre c’est le Christ et mourir est un gain” ( 1, 20-21 ). Être dignes de l’évangile est ce que nous devons avoir à coeur d’être et cela ne peut qu’être lié au parcours personnel de chacun dont le seul témoin est le Seigneur qui connaît autant la difficulté de ceux qui ont ” supporté le poids de la journée et la chaleur ” ( Mt 20, 12 ) que l’angoisse de ceux qui, restés sans travail jusqu’au soir ont une motivation peu banale ” : Car personne ne nous a  embauchés pour la journée” ( 20, 7 ).

Nous pouvons imaginer tout ce que nous voulons au niveau du labeur et de l’interdépendance de ces ouvriers de la dernière heure, mais la parabole nous dit seulement que ceux-ci sont restés sans travail alors qu’ils étaient disposés à travailler, quitte à faire seulement une heure de travail, sans aucune récrimination, comme cela fut le cas pour les premiers qui maintenant se lamentent. Le psaume nous le rappelle de façon assez belle : ” Juste est le Seigneur dans toutes ses voies et bon dans toutes ses oeuvres ” ( Ps 144, 17 ). Le prophète, de son côté, éclaircit l’attachement de Dieu à se soustraire de toute tentative de manipulation : ” Car mes pensées ne sont pas vos pensées, et vos chemins ne sont pas mes chemins ” ( Is 55, 8 ). Tout au long de cette journée, nous sommes vraiment appelés à remettre en jeu notre façon de penser et de juger, souvent auto-justifiante et accusatrice face aux autres. Affinons donc, non les armes du jugement, mais celles de la compréhension qui commence toujours par une juste et humble compréhension de nous-mêmes. 

Giardiniere

XXIV settimana T.O.  –

Non si può comprendere la parabola che troviamo nella liturgia di quest’oggi senza tenere nel dovuto conto ciò che l’evangelista pone come introduzione e chiave di interpretazione: <poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città…> (Lc 8, 4). Così pure non bisogna dimenticare i versetti immediatamente precedenti che abbiamo letto nella liturgia di ieri: attorno a Gesù non c’è un gruppo segregante – ci sono discepoli e discepole – e la sua presenza non è offerta in modo settario, ma in modo assolutamente inclusivo ed universale. Detto ciò, nel Vangelo non si respira aria di trasognata ingenuità o di irenico ottimismo e per questo il Signore Gesù mette in evidenza quali possono essere le conseguenze di uno stile inclusivo: come il seme quando viene generosamente seminato non incontra solo della buona terra o almeno non tutta la terra ha lo stesso grado di fecondità o di adeguatezza alle varie sementi, così pure la Parola di Dio se viene donata incondizionatamente non sempre potrà incontrare lo stesso grado di accoglienza. Tutto ciò che noi rischiamo di leggere come un problema nella ricezione del messaggio evangelico, lo stesso Vangelo ce lo fa cogliere come una normalità.

Per questo l’evangelista non si accontenta come gli altri evangelisti di parlare del <seminatore> e dei vari tipi di terreno che, bene o male, lo accolgono, ma fa menzione in modo esplicito e assai particolare del fatto che <uscì a seminare il suo seme> (Lc 8, 5). Tutti sappiamo che ogni seme porta in sé un potenziale di vita, è una promessa e apre ad un possibile incremento e alla novità. Ben prima e ben aldilà di quello che noi possiamo recepire c’è una sorta di estasiata ammirazione per il dono che viene elargito e che non è altro che <il suo seme>! Forse a ciò possiamo applicare quanto dice l’apostolo: <ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo> (1Tm 6, 14). L’apostolo Paolo lo ricorda delicatamente, ma chiaramente al suo discepolo: <ti ordino di conservare e in modo irreprensibile il comandamento fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo> (1Tm6, 14). La raccomandazione apostolica vale per ogni <seme> (Lc 8, 5) che viene affidato alla terra del nostro cuore di qualunque specie esso sia, purché sia capace di <ascoltare> (8, 8).

Non siamo semplicemente interpellati nel ritrovare e nel catalogare noi stessi in uno dei tipi di terreno di cui ci parla la parabola. In realtà se guardiamo attentamente dentro la terra del nostro cuore, della nostra mente, delle nostre emozioni, dei nostri bisogni, facilmente riconosceremo che ora possiamo riconoscerci nell’uno e ora nell’altro, magari raramente lo siamo contemporaneamente, ma non è difficile ritrovare le diverse tipologie, esaminando le nostre reazioni e le nostre chiusure. Il fatto che Maria di Magdala scambi il Risorto per un giardiniere è segno che Gesù conosceva quest’arte e la mette a frutto nei confronti del nostro cuore e delle nostre vite che forse sono ancora lontane dal tempo della semina e hanno bisogno ancora, e prima di tutto, di essere arate e concimate. Ma anche davanti a queste operazioni più faticose e sporchevoli il Signore non si tira certo indietro.

Guarite

XXIV settimana T.O.  –

Dopo aver ascoltato il testo della peccatrice che entra nella casa di Simone e rivela al fariseo i limiti della sua giustizia alla luce radiosa della misericordia che è capace di guarire e dare profondità alla vita, il piccolo riassunto su quella che potremmo definire la “compagnia di Gesù” rischia di farci soffermare solo su quelle donne <che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità> (Lc 8, 2). In realtà, prima di parlare delle donne che <servivano> Gesù <con i loro beni> (8, 3) si evoca la presenza dei <Dodici> (8, 1) che, a loro volta, vivono accanto al Signore un cammino di guarigione e di illuminazione interiore. Nella prima lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua catechesi al suo discepolo e collaboratore Timoteo e mette in chiaro quali siano le malattie non solo comuni ma anche specifiche di coloro che sono chiamati ad un ministero nella e per la comunità: <accecato dall’orgoglio… maniaco di questioni oziose e discussioni inutili> da cui nascono quasi in modo terribilmente naturale: <le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti…> (1Tn 6, 4-5).

Per comprende a quale cammino il Signore abbia chiamato e continui a chiamare tutti coloro che condividono la sua vita e il suo ministero di annuncio della salvezza, le parola che Paolo rivolge in modo appassionata a Timoteo possono rappresentare una sorta di mappa di orientamento per ricominciare, ogni giorno, a camminare nelle vie di Dio: <Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza> (1Tm 6, 11). Paolo non fa mistero del rischio di cadere nell’<avidità del denaro> (6, 10). Nel Vangelo vediamo che queste donne che seguono il Signore hanno trasformato radicalmente l’avidità in generosa condivisione che le ha guarite radicalmente dal bisogno di farsi valere sugli altri, dando loro la gioia e la pace di sentirsi in cammino con gli altri – e prima di tutto con Gesù – in una parità che sa portare tutte le differenze di genere, di vocazione, di storia. Questi tre versetti di Vangelo non solo ci parlano di guarigione, ma ci mostrano la via della guarigione. Essa è possibile perché il Signore Gesù ci accoglie alla sua sequela senza alcuna distinzione e ancora perché la sequela ci guarisca dalla paura delle nostre diversità che alla fine si rivelano essere delle “unicità”. La presenza di un gruppo di donne accanto a Gesù e assieme agli apostoli è una memoria fondante e fondamentale per la coscienza della Chiesa perché possa rimanere dinamicamente fedele alle intuizioni del suo Signore. Potremmo dire che l’esortazione di Paolo a Timoteo che viene invitato energicamente ad essere e a comportarsi quale <uomo di Dio>  (1Tm 6, 11) esige di comportarsi proprio come le donne che seguono e assistono Gesù e i suoi apostoli. Esse sono a servizio della comunità e con il loro modo di servire danno un tono al vivere insieme rendendolo capace di testimoniare fattivamente e concretamente non solo la bellezza, ma pure l’efficacia dell’annuncio.