Attendere… il giusto

I Domenica T.A.

Un testo del profeta Geremia è il portale di ingresso di questo nuovo tempo di Avvento e che orienta così la nostra meditazione, la nostra preghiera, la nostra attesa, il nostro desiderio: <In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra> (Gr 33, 15). Questa parola del profeta che ci permette di accogliere con serenità quanto il Signore Gesù ci dice nel Vangelo e che, non a torto, potrebbe inquietarci. É come se la Liturgia ci aiutasse a scendere gradualmente da visioni troppo alte e maestose verso un’ottica semplice e limpida con cui leggere e attraversare la storia fino a rendere per noi – e non solo per noi – un angolo possibile di salvezza. Il primo sguardo è rivolto in alto <segni nel sole, nella luna e nelle stelle>; il secondo profondamente in basso – in quelli che potremmo definire gli inferi del cuore – caratterizzati come <angoscia di popoli in ansia> (Lc 21, 25); al centro vi è un altro sguardo: <allora vedranno il Figlio dell’uomo…> (21, 27).

Questa prima domenica di Avvento ci aiuta a rettificare e a rendere più limpido, più <giusto> il nostro sguardo sul mistero della vita e lo fa ripetendoci l’esortazione del Signore che dice ancora una volta: <State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano> (21, 34). Talora non ci rendiamo conto a sufficienza di quanto ad appesantire la nostra vita sia proprio la nostra tendenza a dare spazio a desideri eccessivi che non sono realmente adeguati alla nostra realtà. Cosa mai rende un germoglio più <giusto> o meno giusto se non il fatto di accettare il posto che la natura gli dona e il ruolo che così gli affida?! Nessuno germoglio può, ad esempio, decidere di cambiare posto. ma è chiamato ad ottimizzare la situazione in cui si trova se in alto, librandosi nel cielo, se in basso aggrappandosi soavemente alla terra. Per non cadere nella trappola che genera gli affanni è necessario vigilare e pregare come cifra di una capacità reale e realistica di attenzione e di assunzione.

La vigilanza e l’invito ad esercitarla nella nostra fede ha un grande valore simbolico non prima di tutto e soprattutto per la sua valenza ascetica che pure rimane, ma per il suo valore terapeutico e umanizzante. La vigilanza permette di sottrarci periodicamente alla fascinazione del mondo che ci circonda e ci ammalia con le sue illusorie promesse, le sue fallaci speranze e con il disorientamento del desiderio che già Filone alessandrino riteneva la fonte di tutti i turbamenti e di molte sofferenze. Come spiega Louis Bouyer se <l’uomo impegnato in occupazioni lavorative sente il bisogno di tempi di vacanze sia per la psiche che per il corpo, tantopiù il credente sente profondamente il bisogno di darsi uno spazio di riposo spirituale>1. Ciò comporta un ritornare vigili su se stessi per assumere i tratti di cui parla l’apostolo e che non possono in nessun modo appesantire: <crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.> (1Ts 3, 12-13). Il tempo di Avvento, come la Quaresima, è un tempo di ri-presa spirituale e il suo pressante invito alla vigilanza non è che una forma di con-versione che permette, nel nostro cuore, di preparare la venuta del Signore Gesù: qui ed ora… il modo più giusto perché l’unico veramente possibile.


1. L. BOUYER, L’Église de Dieu, Cerf, Paris 1970, p. 345.

Attendre… le juste

I Dimanche du T.A. 

Un texte du prophète Jérémie est le portail d’entrée de ce nouveau temps de l’Avent qui oriente ainsi notre méditation, notre prière, notre attente, notre désir : ” En ce jour-là et en ce temps -là, je ferai germer  à David un germe juste qui exercera le droit et la justice dans le pays ” ( Jr 33, 15 ). Cette parole du prophète  nous permet d’accueillir avec sérénité ce que nous dit le Seigneur Jésus dans l’Evangile, et qui, à raison, pourrait nous inquiéter. C’est comme si la Liturgie nous aidait à descendre graduellement d’une vision trop haute et majestueuse vers une optique simple et limpide nous permettant de lire et de traverser l’Histoire jusqu’à permettre  pour nous – et pas seulement pour nous – une ouverture possible de salut. Le premier regard est tourné vers le haut ” signes du soleil, de la lune et des étoiles “, le second se penche profondément vers le bas – dans ce que nous pourrions appeler les enfers du cœurs – caractérisés par ” l’angoisse et la consternation des peuples ” ( Lc 21, 25 ) ; au centre, il y a un autre regard : ” alors, ils verront le Fils de l’homme…” ( 21, 27 ).

Ce premier dimanche de l’Avent nous aide à rectifier et à rendre plus limpide, plus ” juste ” notre regard sur le mystère de la vie et cela en nous répétant l’exhortation du Seigneur qui nous dit encore une fois : ” Prenez garde à vous-mêmes, de peur que vos cœurs ne s’appesantissent ” ( 21, 34 ). Parfois, nous ne nous rendons pas suffisamment compte combien appesantir notre vie est vraiment notre tendance en accordant de l’espace aux désirs excessifs qui ne sont pas réellement adaptés à notre réalité. Qu’est-ce qui rend un germe plus ou moins ” juste ” si ce n’est le fait d’accepter la place que la nature lui donne et le rôle qu’ainsi elle lui confie ?! Aucun germe ne peut, par exemple, décider de changer de place, mais il est appelé à optimiser la situation dans laquelle il se trouve si, vers le haut, il se libère du ciel, et si, vers le bas, il s’agrippe doucement à la terre. Pour ne pas tomber dans le piège qui engendre les soucis, il est nécessaire de veiller et de prier pour accroître la capacité réelle et réaliste d’attention et d’ascension.

La vigilance et l’invitation à la pratiquer dans notre foi a une grande valeur symbolique, non pas, avant tout pour sa valeur ascétique qui est réelle, mais pour sa valeur thérapeutique et humanisante. La vigilance permet de se soustraire périodiquement à la fascination du monde qui nous entoure et nous charme par ses illusoires promesses, ses fallacieuses espérances et la désorientation du désir que Philon d’Alexandrie retenait déjà comme la source de tous les dérangements et de nombreuses souffrances. Comme l’explique Louis Bouyer, si ” l’homme occupé par son travail éprouve le besoin d’un temps de vacances pour  l’esprit ou le corps, combien plus encore, le croyant ressent- il  profondément le besoin de s’accorder un espace de repos spirituel”1.   Cela suppose un retournement vigilant sur soi-même pour assumer ce dont parle l’apôtre et qui ne peut, en aucun cas, nous appesantir : ” Croissez et surabondez dans l’amour entre vous et envers tous, comme le nôtre surabonde pour vous, afin de rendre vos cœurs solides et irréprochables dans la sainteté, face à Dieu notre Père, en attendant la venue de notre Seigneur Jésus avec tous ses saints ” ( Th 3, 12- 13 ). Le temps de l’Avent, comme le Carême, est un temps de re-prise spirituelle et la pressante invitation à la vigilance n’est qu’une forme de con-version qui permet de préparer la venue du Seigneur Jésus dans notre cœur et ceci est, à présent, la façon la plus juste, car l’unique vraiment possible.


1. L. BOUYER, L’Eglise de Dieu. Cerf, PARIS 1970, P. 345

La croce di sant’Andrea

SANT’ANDREA

La croce di sant’Andrea che segna i nostri crocicchi e ci mette in guarda dal pericolo di non vedere un passaggio a livello finendo sotto un treno è la memoria della più importante e delle più esigenti croci della vita: la fraternità! La liturgia della Parola che accompagna la celebrazione di questa festa comincia con una sorta di appello: <Fratello…> (Rm 10, 9). Nel testo del Vangelo che evoca la chiamati di Andrea per due volte si sottolinea come l’appello dei primi discepoli è indissolubilmente legato ad uno sguardo che si posa sul loro essere <due fratelli> (…). Non possiamo fare a meno di ritornare al primo dramma di fraternità vissuto da Caino e Abele. Sembra proprio che il Signore Gesù quando si mette a percorrere le nostre strade umane per prima cosa ci voglia insegnare il cammino di quella fraternità che se è un dono o un retaggio della natura esige tutto il cammino e l’impegno di una scelta che si fa conversione come apertura all’altro, al più vicino che rischia talora di essere il più difficile da comprendere e da amare.

Un testo di Bernardo di Chiaravalle riprende la tradizione di tutte le Chiese attorno alla figura dell’apostolo Andrea: < “O croce tanto lungamente desiderata, offerta ora all’aspirazione della mia anima, vengo a te, pieno di gioia e sicurezza. Ricevimi con gioia, me, discepolo di colui che pendeva dalle tue braccia” Così parlava Sant’Andrea, guardando da lontano la croce innalzata per il suo supplizio. Da dove gli venivano una gioia e un’esultanza così incredibili? Da dove tale perseveranza in un essere così fragile? Da dove quest’uomo traeva un’anima così spirituale, una carità tanto fervente e una volontà tanto forte? Non è giusto pensare che prendesse da se stesso un sì gran coraggio; era il dono perfetto disceso dal Padre della luce (Gc 1,17), dal solo che fa meraviglie. Era lo Spirito Santo che veniva in aiuto alla sua debolezza e che metteva nel suo cuore un amore forte come la morte, ed anche più forte della morte (Ct 8,6). Piaccia a Dio che possiamo partecipare a questo Spirito, anche noi oggi! Poiché, se ora è faticoso lo sforzo della conversione, se ci pesa vegliare nella preghiera, è unicamente a causa della nostra povertà spirituale. Se lo Spirito Santo è con noi, verrà sicuramente in aiuto alla nostra debolezza. Ciò che ha fatto per sant’Andrea davanti alla croce e alla morte, lo farà anche per noi: toglierà all’impegno della conversione il carattere difficile, lo renderà desiderabile ed anche piacevole. Fratelli, cerchiamo questo Spirito, facciamo di tutto per ottenerlo, o per possederlo più pienamente, se già l’avessimo. Dobbiamo dunque prendere la nostra croce con sant’Andrea, o piuttosto con colui che egli ha seguito, il Signore nostro Salvatore. La causa della sua gioia era che moriva non solo con lui, ma come lui, e che, unito così intimamente alla sua morte, con lui avrebbe regnato…. Poiché su questa croce è la nostra salvezza>1.

Questo testo diventa ancora più efficace e forte se pensiamo alla croce del fratello che non è da trascinare o semplicemente subire, ma da accogliere e quasi da sposare.


1. BERNARDO DI CHIARAVALLE, 2^ Omelia per la festa di sant’Andrea.

Più forte

XXXIV settimana T.O.

Il tono del discorso di Gesù cambia e si fa assai sereno! In realtà i toni forti che precedono il testo di oggi sembrano essere pensati ad effetto per farci sentire, ancora di più e ancora meglio, la forza racchiusa in un germoglio discreto, piccolo, incapace di imporsi eppure così capace di fare sperare il meglio per se stessi e per gli altri. La conclusione della parabola del fico ci riporta a noi stessi: <Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino> (Lc 21, 31). Il cardinal Newman pregava così: <Mostrati, Signore, come nel tempo della tua Natività, in cui gli angeli visitarono i pastori. Che la tua gloria si schiuda come i fiori e le foglie sugli alberi. Per quanto brillanti siano il sole, e il cielo, e le nuvole, per quanto verdeggianti siano le foglie e i campi, per quanto dolce sia il canto degli uccelli, sappiamo che non è tutto lì, e non scambieremo la parte per il tutto. Queste cose procedono da un centro di amore e di bontà che è Dio stesso. Ma esse non sono la sua pienezza. Parlano del cielo, ma non sono il cielo; sono soltanto, in un certo senso, dei raggi dispersi, e un fioco riflesso della sua immagine; sono soltanto le briciole che cadono dalla tavola>1.

La prima lettura si conclude con una immagine certamente più potente e più ampia, eppure ci rammenta, con altre parole e con diverse emozioni, la stessa cosa: <E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più> (Ap 21, 1). All’immagine del germoglio primaverile e a quella di una città splendente di bellezza e di gloria, l’Apocalisse ne aggiunge ancora un’altra che completa l’evocazione della vita rinascente e della bellezza architettonica che rimanda all’armonia, quella più intima e non meno necessaria: <E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo> (21, 2). Alla fine di un percorso come quello di un anno liturgico, la Liturgia sembra offrirci materiale sufficiente per un esame di coscienza che sia un modo coraggioso di fare il punto del nostro processo interiore: il livello e la qualità della vita, l’armonia tra tutte le componenti dell’esistenza perché diano spazio ad un’architettura dello spirito e delle relazioni umane, il respiro profondo di un’intimità con Dio che crei le condizioni di solidarietà con i nostri simili.

A partire da questi tre punti risulta chiaro che il dono di una terra nuova, in cui si possa coltivare una speranza nuova per tutti, è certamente un dono che viene dall’alto – che viene da Dio – ma che pure ha bisogno di tutta la nostra complicità in modo che possa portare il frutto di una felicità condivisa. L’Apocalisse ci ricorda che dobbiamo tenere alla <catena> (Ap 20, 1) tutto ciò che si oppone alla vita, all’armonia, all’intimità. Il veggente di Patmos ci ricorda pure che ogni vola che noi acconsentiamo a ciò che dilata la gioia questo viene scritto nel <libro della vita> (20, 12). La nostra fiducia è grande: <Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno> (Lc 21, 33).


1. J. H. NEWMAN, PPS, IV, 13.

Droghe

XXXIV settimana T.O.

È lo stesso autore dell’Apocalisse che annota e sottolinea: <E per le seconda volta dissero: “Alleluia! Il suo fumo sale nei secoli!”> (Ap 19, 3). Il canto pasquale, che precede sempre la lettura del Vangelo, ci riporta al mistero di questo combattimento quotidiano contro tutto ciò che rischia di deturpare l’immagine di Dio impressa nel nostro essere non solo creature, ma anche figli e figlie dell’Altissimo. Nel libro dell’Apocalisse possiamo sentire tutta la forza di una tensione che fa della storia un verso viaggio verso un compimento di cui siamo non solo beneficiari passivi, ma attivi e responsabili collaboratori. L’Apocalisse sembra essere una vera è propria dichiarazione di guerra contro tutto ciò che rischia di schiavizzare l’umanità allontanandoci dalla consapevolezza di una dignità che esige l’esercizio di una piena libertà: <Perché i tuoi mercanti erano i grandi della terra e tutte le nazioni dalle tue droghe furono sedotte> (18, 23). Siamo chiamati a dare un nome preciso a queste <droghe> evocate dall’Apocalisse per evitare in ogni modo che la nostra libertà e la nostra responsabilità siano indebolite e talora persino annientate.

Per non lasciarci drogare dall’illusione e dalla paura, il Signore Gesù ci offre due rimedi: la lucidità e il coraggio. Le parole del Signore non lasciano spazio alla fantasia né alla mistificazione del reale, ma vanno diritte all’essenziale di ciò che avviene sotto i nostri occhi senza chiudere gli occhi su ciò che ogni avvenimento non solo è nel suo accadere, ma pure rappresenta come rimando agli effetti collaterali: <Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina> (Lc 21, 20). Senza giri di parole, il Signore ricorda con un realismo quasi inquietante: <mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra> (21, 26). La <paura> sembra essere la droga più pericolosa perché paralizza la capacità di affrontare la vita con quel coraggio che non è temerarietà, ma capacità di valutare e di decidere. La conclusione è quasi marziale: <Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina> (21, 28).

Il discepolo è chiamato a farsi in tutto simile al Maestro e ad affrontare le esigenze della vita a testa alta e con un senso di dignità assoluta. Non c’è bisogno di nascondersi a se stessi ricorrendo a soluzioni che diano l’impressione di soffrire di meno, è necessario, invece, affrontare con coraggio la realtà con una lucidità che attinge il coraggio in una opzione fondamentale per la <liberazione> di se stessi e degli altri. Le immagini di desolazione, di distruzione, di sconvolgimento non vogliono essere un invito a subire la storia – con i suoi inevitabili e ricorrenti drammi – bensì una sorta di mappa per attraversarla senza perdere l’orientamento per raggiungere felicemente il porto di una salvezza condivisa.

Arpa

XXXIV settimana T.O.

L’Apocalisse ci porta sempre più in profondità e ci aiuta ad intravedere non tanto la fine ma il fine della storia. La storia si compie attraverso le piccolissime storie che sono la vita di ogni creatura visibile ed invisibile, animale, vegetale e minerale di cui l’uomo – ciascuno di noi – rappresenta il simbolo più eloquente e comprensivo anche se non unico. Così nel cielo si vede un altro <segno grande e meraviglioso> (Ap 15, 1), ma il Veggente, dopo aver parlato di <sette angeli>, subito aggiunge: <Vidi pure un mare di cristallo misto a fuoco e coloro che avevano vinto la bestia e la sua immagine e il numero del suo nome, stavano ritti sul mare di cristallo> (15, 2). Agli angeli che popolano il cielo corrispondono sulla terra gli uomini che vincono le suggestioni del male poiché non accettano di piegarsi, ma continuamente e sempre stanno <ritti> per imitare l’Agnello-Pastore che sta <ritto> (14, 1) davanti al Padre e al cospetto della storia che da Lui – nella sua oblazione pasquale – riceve il senso che altrimenti rischierebbe di non avere o almeno di non trovare. 

Si potrebbe dire che la sfida principale, che attraversa pure la vita di ciascuno di noi, è quella, appunto, di rimanere ritti, retti, eretti senza mai cedere alla facilità di acconsentire alla tendenza di piegarci come bestie verso la terra. Siamo chiamati a vivere e – in caso ci fosse richiesto – a morire andando a testa alta non perché ci si creda alcunché, ma perché consci di come in verità la nostra <patria è nei cieli> (Fil 3, 20). Anche per noi vale il discernimento a cui furono assoggettati i soldati di Gedeone: <quanti lambiranno l’acqua con la lingua come lambisce il cane li porrai da una parte> (Gdc 7, 5), per essere chiaramente e senza scrupolo esclusi dalle battaglie del Signore. Anche per noi vale la duplice parola del Signore Gesù: <sarete odiati da tutti> (Lc 21, 17), ma <con la vostra perseveranza salverete le vostre anime> (21, 19). 

Perseverare significa tenere teso l’arco dell’amore anche quando l’odio diventa palpabile e asfissiante. Perseverare significa respirare sempre dal più profondo della nostra più remota interiorità senza lasciarci – in nessun modo – contaminare dalla paura, cosicché la persecuzione diventerà – suo malgrado – <occasione di rendere testimonianza> (21, 13). Quella che il Signore ci richiede è una testimonianza piena, senza tentennamenti e senza cedimenti. Non basta rimanere <ritti> (Ap 15, 2), bisogna pure cantare <accompagnando il canto con le arpe divine>. Forse – soprattutto nel nostro tempo così bisognoso di speranza – ciò che rischia di mancare più d’ogni altra cosa a noi che ci diciamo “cristiani” è proprio un’arpa… qualcosa che stemperi le paure e accompagni la marcia dell’umanità tutta verso la gioia. Per tutto ciò bisogna avere cuore! Lasciamoci toccare da questa parola di Agostino: <Ciascuno consideri se il suo cuore non sia troppo stretto>. E qualora fosse così non ci resta che dilatarlo attraverso la musica dell’amore che sa pizzicare tutte le corde di ogni cuore e che sa portare a compimento ogni desiderio di bene.

Quando

XXXIV settimana T.O.

Spesso anche noi ci chiediamo <quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?> (Lc 21, 7). Il <quando> delle nostre interrogazioni diventa per il Signore Gesù non più una categoria temporale in senso cronologico, ma un atteggiamento di discernimento nei confronti della realtà da vivere ogni giorno con intensità e decisione. Da questo nasce un monito che non dobbiamo mai sottovalutare: <Badate di non lasciarvi ingannare. Molti, infatti, verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”> (Lc 21, 8). L’inganno sta nel fatto di attendere il compimento di una promessa dal di fuori e in un tempo a venire tanto da trasformare la vita in una sorta di sospensione messianica che ci inclina a credere che qualcuno, prima o poi, verrà a risolvere i nostri problemi. Il Signore ci ricorda con una sorta di preoccupazione di non lasciarci non solo ingannare, ma neppure troppo impressionare: <Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine> (21, 9). La <fine>, infatti, non è la cosa più importante, bensì la consapevolezza di un fine verso cui convogliare il meglio delle nostre energie così da trasformare ogni piccolo passo del quotidiano in un reale compimento che non rimanda la speranza, ma la compie con il dono di sé.

Il veggente di Patmos ci ricorda, nella prima lettura, che il compimento è una necessità che non si compie semplicemente come conclusione cronologica della storia, ma pure come compimento quotidiano del compito che è la vita in quanto tale: <vidi: ecco una nube bianca, e sulla nube stava seduto uno simile a un Figlio d’uomo: aveva sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata> (Ap 14, 14). Possiamo sentire tutto ciò come una minaccia, oppure come una consolazione e una rassicurazione perché in realtà, secondo le parole dell’angelo: <è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura> (14, 15). Mietere una messe ben matura è la cosa più normale e più bella che si possa pensare e non ha nulla di minaccioso, al contrario rappresenta la normale e desiderabile conclusione di una lunga attesa che va dal momento della semina a quello della raccolta.

Alla luce della parola del Signore Gesù e di quella dell’angelo dell’Apocalisse siamo rimandati ad un modo diverso di abitare il tempo. Non si tratta di aspettare o di aspettarsi chissà quali cose, ma la sfida è quella di maturare decisamente tanto da essere pronti per la mietitura interiore di una vita che ha raggiunto la sua pienezza. Non è facile, ma è doveroso e sano, saper immaginare e preparare anche il tempo della fine non come minaccia, ma come un’opportunità e un desiderabile compimento che ci porta più in là di ciò che abbiamo già sperimentato e conosciuto fin qui come il grano che si fa disponibile a diventare pane, come l’uva che gioiosamente si lascia versare nel <tino> (Ap 14, 19) per diventare vino. Stiamo attenti a non marcire come grano abbandonato nei campi che nessuno miete, a non intristire come uva matura che nessuno vendemmia.

Diminutivo

XXXIV settimana T.O.

Siamo rapiti da questo sguardo del Signore Gesù che si lascia conquistare dalle realtà più piccole e più povere, in una logica di attenzione più sensibile al diminutivo che al superlativo. Lo sguardo del Signore Gesù è penetrante ed è capace di valorizzare ciò che altri rischiano non solo di sottovalutare, ma persino di disprezzare o, nel migliore dei casi, non vedere affatto. L’evangelista Luca ci fa entrare, per così dire, nello sguardo del Signore e così facendo, in realtà, ci fa entrare nel suo stesso cuore permettendoci così di cogliere tutta la differenza dell’atteggiamento del Signore a partire dal quale dobbiamo convertire e informare il nostro modo di guardare e di valutare: <vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio> (Lc 21, 1). Eppure, il Signore non vede solo ciò che si impone allo sguardo con lo scintillio dell’oro o il sordo rumore di monete che cadono nel tesoro del Tempio attirando attenzione e creando ammirazione. Il Signore Gesù <Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine> (21, 2). Il diminutivo non è solo pieno di tenerezza, che talora può nascondere una certa sufficienza, ma è la rivelazione di un modo di stare al mondo che si fa invito alla conversione il cui primo passo è valutare non il valore oggettivo delle cose, ma la loro valenza più profonda: <Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere> (21, 4).

Lo sguardo con cui il Signore Gesù intercetta i gesti di quanti incontra sul suo cammino per coglierne il senso più profondo, diventa nell’Apocalisse una vera e propria visione del mondo che sarebbe assolutamente inadeguato ridurre ad una semplice sequenza di “visioni extrasensoriali”. Ciò che si fa intravedere il veggente di Patmos sono le conseguenze a largo respiro di questa logica del diminutivo che diventa uno stile di sequela capace di orientare fino a rifondare la storia universale: <Essi sono coloro che seguono l’Agnello dovunque vada. Questi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l’Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca: sono senza macchia> (Ap 14, 4-5). All’immagine delle <monetine> si accosta quella dell’<Agnello> e di quanti lo seguono in un atteggiamento di piccolezza e di mitezza che supera radicalmente la logica del <superfluo> (Lc 21, 4) per aprirsi a quella del dono totale ed assoluto. Una grande speranza ci viene comunicata dalla Liturgia di quest’oggi, c’è un modo diverso di stare al mondo senza cadere nella trappola del superlativo continuo che rischia di prosciugare la nostra capacità di umanità: <ecco l’Agnello in piedi sul monte Sion, e insieme a lui centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo> (Ap 14, 1). Questo nome misterioso più che un nome anagrafico è uno stile da cui si riconosce quel legame di appartenenza che fa la differenza. In una parola: dare <tutto>, darsi totalmente proprio come si fa quando si muore, come si fa quando si ama! 

Nessuno è escluso

CRISTO RE

Ancora una volta l’evangelista Marco cede il posto a Giovanni con il quale concludiamo questo anno liturgico. Lo facciamo ritornando al momento più forte della vita del Signore, che è la sua gloriosa Passione. Mentre portiamo a compimento il ciclo di un anno liturgico in cui ci è stato dato nuovamente di meditare il mistero di Cristo e ci prepariamo a vivere un nuovo Avvento, la Liturgia ci chiede di volgere lo sguardo del nostro cuore <a Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen> (Ap 1, 5-6). Il veggente di Patmos è talmente preso dalla sua visione di Cristo Risorto da ritenere che a Lui si debbano volgere <anche quelli che lo trafissero> (1, 7). In una parola, nessuno è escluso e ognuno è invitato ad entrare nel Regno di Dio che ci è stato annunciato in Cristo Signore. La Liturgia di questa domenica ci fa contemplare il mistero del Regno di Dio che viene attraverso la contemplazione di Gesù che davanti a Pilato dichiara con solennità: <Io sono re> (Gv 18, 37). Nella misura in cui ciascuno di noi si mostra in grado di accogliere la logica del Vangelo partecipa di questa medesima regalità. Ma qual è il segreto del re, potremmo chiederci? Una risposta possibile a questa domanda la troviamo nella Colletta della Messa: <Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo, fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine>. Il <segreto del re> (Tb 12, 7) è proprio il mistero della libertà che produce una modalità di relazione in cui non ci sono <servitori> (Gv 18, 36), ma solo <amici> (Gv 15, 15). La solennità odierna ci aiuta a mantenere la giusta distanza e, se si rendesse necessario, a saperci opporre risolutamente ad ogni errore sulla regalità di Cristo quando viene intesa – come già da parte degli stessi apostoli e di quanti incontravano Gesù sulle strade della Palestina – in senso politico. La regalità del Signore Gesù è quella che viene partecipata ad ogni battezzato attraverso l’immersione nell’acqua e l’unzione con il Crisma: essere liberi dalla radice dell’egoismo che genera il peccato per essere liberi di amare come Cristo fino a dare la vita. Il confronto con Pilato è proprio questo raffronto tra due logiche che sono agli antipodi: l’egoismo e l’amore, il potere e il servizio, la schiavitù e la libertà. Quando il profeta Daniele vede <venire con le nubi del cielo uno simile ad un figlio d’uomo> (Dn 7, 13) dice che <il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto> (7, 14). Sotto la croce, dove la Madre e il discepolo amato sanno rimanere fino alla fine perseveranti nell’amore, essi non hanno <combattuto> (Gv 18, 36) per difendere Gesù bensì ne sostengono l’offerta come Aronne e Cur sostennero le braccia di Mosè mentre il popolo combatteva contro Amalek guidato da Giosué (Es 17, 10).

Personne n’est exclu

CHRIST ROI 

Une fois encore, l’évangéliste Marc cède la place à Jean avec lequel nous concluons cette année liturgique. Nous le faisons en retournant au moment le plus fort de la vie du Seigneur, qui est sa glorieuse Passion. Alors que nous arrivons à l’accomplissement du cycle d’une année liturgique où il nous a été donné la possibilité de méditer à nouveau le mystère du Christ, et que nous nous préparons à vivre un nouvel Avent, la Liturgie nous demande de tourner le regard de notre coeur ” vers Celui qui nous aime et qui nous a libérés de nos péchés par son sang, il a fait de nous un royaume, des prêtres pour son Dieu et Père, à lui la gloire et la puissance pour les siècles des siècles. Amen ” ( Ap 1, 5-6 ). Le voyageur de Patmos est tellement rempli de sa vision du Christ Ressuscité qu’il conçoit que ” même ceux qui l’on crucifié ” devraient se tourner vers Lui ( 1, 7 ). En un mot, personne n’est exclu et chacun est invité à entrer dans le Royaume de Dieu qui a été annoncé par le Christ Seigneur. La Liturgie de ce dimanche nous fait contempler le Mystère du Royaume de Dieu qui transparaît par la contemplation de Jésus qui, déclare solennellement devant Pilate “Je suis Roi” ( Jn 18, 37 ). Dans la mesure où chacun de nous est capable d’accueillir la logique de l’Evangile, il participe à cette même royauté. Mais, nous pourrions nous demander quel est le secret du roi ? Nous trouvons une réponse possible à cette question dans la Collecte de la Messe : ” Dieu éternel et tout-puissant qui a voulu renouveler toute chose en ton Fils, le Christ, Roi de l’univers, fais que chaque créature, libérée de l’esclavage du péché, te serve et te loue sans fin”. Le “secret du roi” ( Tb 12, 7 ) est vraiment le mystère de la liberté qui engendre un mode de relation où il n’y a plus de ” serviteurs” ( Jn 18, 36 ), mais seulement des ” amis ” ( Jn 15, 15 ). La solennité de ce jour nous aide à garder la bonne distance et, si cela était nécessaire, à savoir nous opposer résolument à toute erreur concernant la royauté du Christ lorsqu’elle est comprise dans un sens politique – comme ce fut le cas déjà par les apôtres eux-mêmes et par ceux qui rencontraient Jésus sur les routes de Palestine -. La royauté du Seigneur Jésus est celle qui est impliquée dans chaque baptême par l’immersion dans l’eau et l’onction par le Saint Chrême : être libre des racines de l’égoïsme qui engendre le péché, pour être libre d’aimer comme le Christ jusqu’à donner sa vie. La confrontation avec Pilate est vraiment ce rapport entre deux logiques qui sont aux antipodes : l’égoïsme et l’amour, le pouvoir et le service, l’esclavage et la liberté. Quand le prophète Daniel voyait ” venir avec les nuées du ciel comme un Fils d’homme ” ( Dn 7, 13 ), il disait que ” son pouvoir est un pouvoir éternel qui ne finira jamais, et son règne est tel qu’il ne sera jamais détruit “( 7, 14 ). Sous la croix, où la Mère et le disciple bien-aimé sont restés jusqu’à la fin, persévérants dans l’amour, ils n’ont pas ” combattu” ( Jn 18, 36 ) pour défendre Jésus, mais ils ont soutenu l’offrande comme Aaron et Hour soutenaient les bras de Moïse alors que le peuple, guidé par Josué, combattait Amalek  ( Ex 17, 10 ).