Accogliere… l’estasi

Madre di Dio

Nell’ottava del Natale del Signore risuona, quasi per ravvivare la contemplazione del mistero dell’incarnazione, la parola di Paolo: <Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna> (Gal 4, 4). La Madre di Dio – Maria di Nazareth – ha accompagnato, in modo singolare, tutto il nostro cammino di Avvento e fa tutt’uno con <Giuseppe e il bambino> (Lc 2, 16). Nella scena che si presenta ai pastori non è comunque facile abituarsi, fino in fondo, a questa idea: Dio nato da donna! I primi secoli della vita della Chiesa furono attraversati da molti turbamenti proprio a ragione di questo legame inscindibile tra la Madre e il Figlio di Dio. Non era certo facile da metabolizzare nella cultura ellenistica che una donna sia <veramente Madre di Dio> come si canta continuamente nella liturgia bizantina. Per gli antichi intuire e dire questo mistero richiedeva una grande fatica intellettuale. Per noi, supportati da secoli di riflessione teologica, la sfida è forse più esistenziale per far lavorare in noi il mistero della divina maternità di Maria dando il frutto da sempre atteso e sperato: <riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli> (Gal 4, 5). Contemplare Maria, quale Madre di Dio, significa rientrare a nostra volta in noi stessi per imitare il tratto più umano-divino di questa donna come noi. In Maria risplende quel modello di umanità possibile e altamente desiderabile riassunta con un primo piano dall’evangelista Luca: <Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore> (Lc 2, 19). Forse tra le cose che la Madre di Dio medita nel suo cuore è proprio l’esperienza di benedizione che è poter vedere così da vicino <il suo volto> (Nm 6, 25). La benedizione riservata ai sacerdoti che invocavano la divina protezione con le parole: <Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia> (6, 24) è ora offerta a tutti da una donna. Maria, madre del Signore, ci offre di accogliere la benevolenza divina in un bambino <adagiato nella mangiatoia> (Lc 2, 16). Questo bambino può essere non solo <visto> (2, 17), ma anche toccato e abbracciato. Tutto questo cambia il corso della storia facendola ripartire dalle donne e dai bambini… dai più poveri e i più piccoli. Sejourner Truth così si interrogava lottando per i diritti delle donne: <Quel piccolo uomo in nero laggiù dice che una donna non può avere gli stessi diritti di un uomo perché Cristo non era una donna. Ma da dove è venuto il vostro Cristo?>. La solennità con cui iniziamo il nuovo anno ci obbliga a non dimenticare di ripartire col piede giusto. Dobbiamo ripartire sempre da ciò che non si può imporre da sé come un <bambino>, ma chiede di essere accolto con amore. Siamo chiamati a stupirci di nuovo del prodigio di ogni maternità che si invera in ogni uomo e donna che si prende cura di chi è più debole e fragile.

Accogliere… l’estasi

Ottava di Natale

La differenza del modo di essere umano di Dio e del nostro modo di essere umani ad immagine di Dio è grande e questo è legato ad una questione di essenza: <Dio è amore> (1Gv 4, 8)! L’incarnazione del Verbo di cui l’evangelista Giovanni ci parla in modo magnifico nel suo prologo, non è altro che un’estasi amorosa che rende Dio così vicino a noi da farlo uno di noi, uno dei nostri, più reale e più vero nel suo modo di essere presente nella e accanto alla nostra vita di quanto noi stessi non riusciamo a fare. La Parola di cui ci viene manifestata la carne è il modo per indicare ciò che sta all’origine e alla fonte stessa della vita. Potremmo anche dire che <in principio era l’amore> e l’amore non si incarta, ma si incarna mettendosi a camminare sulle nostre strade di uomini.

Potremmo chiederci, mentre un anno si conclude, qual è la parola che fonda la nostra vita e su cui ogni giorno possiamo ricominciare a sperare e quindi ad amare. Se siamo sinceri dovremo riconoscere che è una domanda che sta al cuore del nostro vivere e del nostro soffrire: <Mi vuoi bene?>  e ancora <Quanto mi vuoi bene?>. Accogliendo questa domanda siamo obbligati a ritrovarla non solo nel nostro cuore, ma anche nel cuore degli altri e a cercare di dare una risposta facendo della nostra esistenza una incarnazione dell’abbraccio stesso di Dio per noi che si fa abbraccio di Dio per tutti. L’apostolo non ha timore a manifestare la sua preoccupazione a motivo di una possibile chiusura all’accoglienza del dono della presenza di Dio tra noi e dentro di noi, tanto da dire con tono severo: <di fatto molti anticristi sono già venuti> (1Gv 2, 18). Ciò non toglie che, nonostante tutto e anche in momenti di maggiore umbratilità, <la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta> (Gv 1, 5).

Nella sua lettera l’apostolo ci conforta e ci aiuta a concludere un nuovo anno sotto il segno di una speranza che non ha niente a che vedere con i soliti auguri, ma che tocca l’essenziale della nostra vita riaccolta come mistero di relazione a Dio che si realizza nel tempo, ma non si identifica con il tempo: <Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità> (1Gv 2, 20). Se l’apostolo evoca <l’ultima ora> (2, 18) non certo per spaventarci, ma per incoraggiarci ad un bilancio della nostra vita che non sia retrospettivo, ma prospettico: che cosa ci attendiamo dal tempo che viviamo e che ci è dato di vivere come un dono rinnovato? Se siamo un po’ turbati a motivo di quanto avviene dentro di noi e attorno a noi, la Parola ci conferma con non siamo soli poiché abbiamo <ricevuto l’unzione del Santo> (2, 20). Sotto questa immagine si indica la parola di Dio ricevuta attraverso Cristo Signore (cfr. Gv 6, 69) come pure lo Spirito Santo consolatore che accompagna, guida e conforta il cammino verso il compimento della storia. 

Accogliere… da poveri

Ottava di Natale

Anna è icona di tutti quei poveri che hanno non solo saputo attendere, ma che sono anche capaci di riconoscere e accogliere la realizzazione della loro attesa nei segni poveri e reali delle concrete visite del Signore. Nel Tempio dove accanto alla normalissima e umilissima famiglia di Nazaret forse alucni invocavano la venuta del Messia e fantasticavano sui modi e sui tempi della sua rivelazione ad Israele, Anna, invece, sa riconoscerlo fino ad accoglierlo tra le sue braccia e indicarlo ai vicini… chissà in quanti avranno ritenuto Anna non certo una <profetessa> (…), ma una vecchia visionaria e un po’ fuori di sé. Tutto il cammino del Signore Gesù nel Vangelo secondo Luca che va da Gerusalemme a Gerusalemme è incastonato da due figure di donne vedove capaci di indicare tutta la portata della novità del Vangelo.

Il digiuno e la preghiera sono stati capaci di scavare nel cuore della vedova Anna un posto comodo e spazioso per accogliere il Verbo fatto carne e non uno sguardo sospettoso su tutto ciò che non viene da se stessi e non corrisponde ai propri criteri e alla propria sensibilità.

Anna i cui sensi si sono affinati attraverso una lunga attesa fatta di digiuno e preghiera a sostegno di una continua attenzione e una profonda vigilanza, sa cogliere in questo bambino la parola più autorevole e più possente di Dio: una parola-evento che diventa lo spartiacque imprescindibile della storia e il riferimento irrinunciabile di ogni storia. Cosa cambia nella nostra vita la presenza di Cristo Signore venuto nella carne per poterci incontrare e per poterci amare? È questa una domanda che può e forse deve lavorare il nostro cuore in questo tempo natalizio in cui siamo chiamati a misurarci con l’essenziale della nostra vita poiché <il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno> (1Gv 2, 17). Tutto sembra quasi contraddittorio: l’apostolo denuncia l’amore per il mondo come in contrasto con la volontà di Dio, mentre l’evangelista Luca ci mostra il Verbo che non solo si fa carne, ma pure accetta di nascondersi nella terra della storia come un seme che si lascia cadere con infinita fiducia e si lascia abbracciare con sorridente abbandono.

Proprio la figura di Anna è scelta da Luca per chiudere i racconti dell’accoglienza del Verbo fatto bambino nell’abbraccio di un’umanità ritornata alla propria innocenza <con digiuni e preghiere> (Lc 2, 37) che sono il segno di una crescita interiore nella consapevolezza che apre alla relazione con Dio. Ed è l’umile uscire di scena di questa donna che sembra venire dal nulla e nel nulla scomparire che apre il lettore alla contemplazione di quel lungo tempo che sarà necessario anche a Gesù per divenire se stesso ed essere piena rivelazione dell’amore e del disegno del Padre: <fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui> (2, 39-40).

Accogliere… i perché!

Santa Famiglia

La contemplazione del mistero della famiglia di Gesù è un vero annuncio di gioia e di salvezza. La famiglia di Nazaret è, infatti, così particolare ed è segnata da una solitudine che sta alla base della vita in una comunione in cui i sentimenti più forti sono come levigati dal rispetto assoluto per il cammino dell’altro in cui le parole, in realtà, sono rare. Di Giuseppe non ci viene tramandata nemmeno una parola, nemmeno nel momento del ritrovamento di Gesù nel Tempio quando Maria riesce a confessare al figlio quanto erano stati <angosciati> (Lc 2, 48). La risposta non è certo un balsamo, anzi sembra quasi un pizzico di sale che trasforma quello che poteva sembrare un incidente in uno stile: <Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?> (2, 49). Le prime parole di Gesù sono una domanda e non una risposta. Sembra che siano i suoi genitori a dover dare una risposta e non il contrario. E la prima risposta sembra essere quella contro ogni angoscia che esprime la paura di perdere e di smarrire l’amore così come viene espressa dal cuore della madre: <Figlio, perché ci hai fatto questo?> (2, 48).

Se è vero che la conclusione del testo suona come un primo piano dell’attitudine proprio del Signore Gesù il quale <Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso> (2, 51), nondimeno questo sembra non possa avvenire senza una chiara presa di distanza di Gesù dai suoi genitori quando <rimase a Gerusalemme> (2, 45). La famiglia che accoglie il Verbo è un luogo in cui si sanno accogliere le inevitabili separazioni che sono il necessario preludio alle necessarie identificazioni con la propria missione che fa tutt’uno con il mistero della propria persona. Sembra che Giuseppe, Maria e Gesù abbiano appreso l’uno accanto agli altri l’arte della vera comunione che è custodia assoluta del mistero della propria solitudine in cui i sentimenti non vengono temperati, ma sono temprati con la disponibilità a dare all’altro tutto lo spazio per essere fedele a se stesso. La parola di Giovanni sembra aver potuto guidare le scelte profonde della famiglia di Nazaret: <se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio> (1Gv 3, 21).

Questa parola dell’apostolo che la tradizione riconosce come particolare esperto nell’amore, ci offre una luce per comprendere e per discernere. Cosa dovrebbe essere una famiglia e soprattutto a cosa serve una comunione di vita? La risposta sembra essere di fare spazio <al cuore> e di far maturare per quanto dolorosamente un senso di <fiducia in Dio> senza la quale persino la fede potrebbe degenerare in un’autocertificazione che rischia di accecare e di precludere le vie di un’obbedienza nelle fede che è sempre un’obbedienza nell’amore. Anna si fa profezia della logica ineluttabile della vita: <Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore> (1Sam 1, 28). Anna riprende il suo cammino di solitudine e lascia che Samuele faccia il suo cammino davanti a Dio per diventare se stesso fino ad essere costituito profeta. L’apostolo Giovanni ci rammenta con forza l’essenziale: <vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente> (1Gv 3, 1). La sfida della vita credente è rinunciare ad ogni forma di paternità e maternità come auto-eternazione per entrare nella comune avventura di figliolanza che ci rende fratelli e sorelle più che madri e padri. Lo stesso apostolo ci dà pure un criterio di discernimento: <In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato> (3, 24). Lo Spirito che ha adombrato Maria rendendo possibile l’impossibile, lo Spirito che ha reso capace Giuseppe di decidere liberamente di mettere al primo posto l’amore invece di difendere il suo onore, lo Spirito che ha sospinto Gesù sulle nostre strade e lo ha reso raffinato compagno dei nostri sogni e dei nostri smarrimenti.

Accueillir… les pourquoi !

Sainte Famille

La Sainte Famille – La contemplation du mystère de la famille de Jésus est une véritable annonce de joie et de salut. La famille de Nazareth est, en effet, si particulière et marquée par une solitude qui se trouve à la base de la vie dans une communion où les sentiments les plus forts sont comme lissés par le respect absolu pour le chemin de l’autre et dont les paroles, en réalité, sont rares. De Joseph il ne nous est rapporté pas même une parole, même pas au moment des retrouvailles de Jésus au Temple lorsque Marie réussit à confesser au fils combien ils avaient été «  angoissés » ( Lc 2, 48 ). La réponse n’est certes pas un baume, mais ressemble presque à une pincée de sel qui transforme ce que l’on pouvait qualifier d’incident en une expression : «  Pourquoi me cherchiez-vous ? Ne saviez-vous pas que je devais m’occuper des affaires de mon Père ? » ( 2, 49 ). Les premières paroles de Jésus sont une question et non une réponse. Il semble que ce sont les parents qui doivent donner une réponse et non le contraire. Et la première réponse semble être celle contre toute angoisse qui exprime la peur de perdre et de voir disparaître l’amour comme cela est exprimé par le coeur de la mère : «  Fils, pourquoi nous as-tu fait cela ? » ( 2, 48 ).

S’il est vrai que la conclusion du texte résonne comme un premier pas de l’attitude du Seigneur Jésus lequel «  Descendit donc avec eux et vint à Nazareth leur restant soumis » ( 2, 51 ), il semble pourtant que cela ne puisse advenir sans une claire prise de distance de Jésus par rapport à ses parents lorsqu’il «  était à Jérusalem » ( 2, 45 ). La famille qui accueille le Verbe est un lieu où l’on sait accueillir les inévitables séparations qui sont le prélude nécessaire aux indispensables identifications avec sa propre mission qui ne fait qu’un avec le propre mystère de la personne. Il semble que Joseph, Marie et Jésus ont appris les uns des autres l’art de la vraie communion qui est la protection absolue du mystère de la propre solitude où les sentiments ne sont pas tempérés, mais ils se tempèrent par la disponibilité à donner à l’autre tout l’espace pour être fidèle à soi-même. La parole de Jean semble avoir pu guider les choix profonds de la famille de Nazareth : «  Si notre coeur ne nous reproche rien, ayons confiance en Dieu » ( 1 Jn 3, 21 ).

Cette parole de l’apôtre que la tradition reconnaît comme particulièrement importante en amour, nous offre une lumière pour comprendre et discerner. Que devrait être une famille et surtout à quoi sert une communion de vie ? La réponse semble être de faire de la place  au «  au coeur »  et de faire mûrir, même si c’est douloureux un sens de «  confiance en Dieu » sans laquelle, même la foi pourrait dégénérer en une auto-certification qui risque d’aveugler et d’empêcher une obéissance à la foi qui, est toujours une obéissance à l’amour. Anne devient la prophétie de la logique inéluctable de la vie : «  Moi aussi, je le donne au Seigneur pour tous les jours de sa vie » ( 1 Sam 1, 28 ). Anne reprend son chemin de solitude et laisse Samuel faire son chemin devant Dieu pour devenir lui-même jusqu’à être constitué prophète. L’apôtre Jean nous rappelle avec force l’essentiel : «  Voyez quel grand amour nous a donné le Père en nous appelant fils de Dieu, et nous le sommes réellement » ( 2Jn 3, 1 ). Le défi de la vie du croyant est de renoncer à toute forme de paternité et de maternité comme auto- continuation pour entrer dans l’aventure commune de la filiation qui nous rend frères et sœurs plus que mères et pères. Le même apôtre nous donne aussi un critère de discernement «  Voici en quoi nous reconnaîtrons qu’Il demeure en nous : par l’Esprit qu’il nous a donné » ( 3, 24 ). L’Esprit qui a recouvert Marie de son ombre, rendant possible l’impossible, l’Esprit qui a rendu Joseph capable de décider librement de mettre l’amour au premier plan au lieu de défendre son honneur, l’Esprit qui a transporté Jésus sur nos routes et l’a rendu compagnon exquis  de nos rêves et de nos désarrois.

Accogliere… l’incubo

Santi Innocenti

I versetti omessi nella festa della Santa Famiglia, vengono ripresi dalla liturgia odierna per celebrare il ricordo dei santi Innocenti, tutti quei <bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù> (Mt 2,16) nel tempo in cui il Figlio di Dio è venuto al mondo. Sebbene il numero di queste vittime innocenti vada immaginato certamente esiguo rispetto a molti altri massacri di cui la storia ci ha resi non sempre innocui spettatori, ciò nondimeno solleva in noi un grave turbamento pensare che tale eccidio rappresenti una delle prime conseguenze del Natale del Signore. Addirittura inquietante è il fatto che la chiesa lo celebri come una festa, affermando che <nei santi Innocenti> Dio è <stato glorificato non a parole, ma con il sangue> (Colletta). Certo, nella vita spezzata di questi bambini, che non sanno di morire a causa di Cristo, possiamo vedere rappresentato, e in certo modo, riscattato, il sangue di tutti i giusti da Abele a Zaccaria (cf. Lc 11,51), dal più noto fino al più sconosciuto innocente di ogni sterminio perpetrato lungo i secoli. Possiamo persino cogliervi la più limpida prefigurazione del sacrificio di Cristo, il Figlio innocente che è morto <una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti> (1Pt 3,18), per ricondurre a Dio l’umanità intera. 

La chiave di accesso più adeguata alla festa di oggi è offerta proprio dalla riflessione dell’apostolo Giovanni, che trasforma il <grido> (Mt 2,18) del nostro disappunto in uno sguardo sincero dentro il mistero del nostro cuore: <Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi> (1Gv 8,8-10). Nell’atmosfera drammatica di questa festa liturgica, siamo invitati a percorrere quella distanza, mai breve, che separa ciò che noi diciamo di essere da ciò che in realtà siamo, fino a scorgere e accettare la presenza di una forte ambiguità in noi, che si manifesta soprattutto quando veniamo spodestati dalla poltrona delle nostre sicurezze e dei nostri poteri. Il furore di Erode, che non tollera che ci si prenda <gioco di lui> (Mt 2,16) e avverte come un incubo la venuta di un messia, non ha alcuna giustificazione. Tuttavia nemmeno le <tenebre> (1Gv 1,5) che abitano in noi e nelle quali spesso camminiamo possono essere facilmente giustificate o comprese. 

Sappiamo soltanto che <Dio è luce e in lui non ci sono tenebre> (1,5) e che <abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto> (2,1). Questa coscienza attenua l’orrore suscitato dal ricordo del sangue innocente, diventa speranza <per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo> (2,2). Una speranza che certo consola, ma che pure deve rafforzare in noi il cammino di conversione che riparte sempre da una presa di coscienza: l’innocenza è davanti a noi e si conquista con il sangue di una vita accolta e di una vita interamente donata. Non c’è altra via per sottrarsi all’incubo di Erode che ci può trasformare in un incubo per i nostri fratelli, soprattutto per i più piccoli.

Accogliere… la realtà

San Giovanni

Forse l’evangelista Giovanni aveva ancora in mente quel mattino di Pasqua, quando compose il prologo della lettera che, a partire da oggi, accompagna la nostra meditazione fino in fondo alle <misteriose profondità> (Colletta) del Verbo di Dio e della sua incarnazione. Forse fu proprio dopo quella concitata corsa al sepolcro, dopo aver visto i segni della morte diventati involucro vuoto, che il suo sguardo acquistò il dono dell’intelligenza penetrante: <E vide e credette> (Gv 20,8). Forse solo allora, <l’altro discepolo> (20,4.8) quello <che Gesù amava> (21,20) – colui che la tradizione identifica con Giovanni, il fratello di Giacomo – si accorse che tutti i presagi e le intuizioni nei confronti del Maestro erano realtà e i suoi occhi divennero lo sguardo profondo della prima comunità cristiana: <La vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi> (1Gv 1,2).

La festa del quarto evangelista ci ricorda che il mistero dell’incarnazione di Dio ha bisogno di essere guardato in profondità, per poter essere compreso e vissuto in modo adeguato. Il gesto di amore di un Dio che pone la sua vita nella nostra carne contiene, per quanto ci possa meravigliare, sempre «altro» rispetto a quello che finora abbiamo saputo accogliere e ha potuto trasformare la nostra vita in una risposta al vangelo. Il Natale non è soltanto un avvenimento da vedere, la sua bellezza vuole coinvolgere tutti i nostri sensi: <Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… noi lo annunciamo anche a voi> (1,1). Solo nella misura in cui il ricordo celebrato della nascita di Gesù Cristo nella carne si approfondisce e diventa contemplazione, si attiva in noi il dinamismo della fede che riesce a cogliere nella splendida umanità del Figlio di Dio il senso ultimo della realtà, cioè il suo <principio> (1,1). 

Ma ciò che nella vita si ritiene vero e fondante non può mai concludersi soltanto in un’intima esperienza di contemplazione: <Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi> (1,3). Nella misura in cui scopriamo di essere discepoli amabili davanti al segno della tenerezza di Dio nella carne del Verbo, sorge in noi il bisogno di rendere <testimonianza> (1,2) ai fratelli che incontriamo. Ciò che viene accolto come bello e vero ha bisogno di diffondersi, cerca comunione. Vedere, credere – quindi – annunciare il Verbo della vita: questa resta sempre la strada da percorrere se vogliamo autenticare il Natale che stiamo celebrando nella fede, se desideriamo che <la nostra gioia sia piena> (1Gv 1,4).

Accogliere… tra le braccia

Santo Stefano

All’indomani del Natale del Signore, la Chiesa ci fa festeggiare con una solennità che viene dalla luce natalizia il natale di sangue di Stefano il cui titolo è “protomartire” (Colletta). Mentre i nostri occhi sono ancora pieni della luce stupita che emana dalla grotta di Betlemme, la liturgia ci conduce direttamente a Gerusalemme e mentre tutto il nostro cuore è rapito dalla contemplazione del Dio fatto bambino, lo sguardo di Stefano ce ne fa sentire tutta la ricchezza di mistero: <Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio> (At 7, 56). Stefano – secondo la tradizione – fu condiscepolo di Saulo di Tarso alla scuola di Gamaliele ed era come lui il rappresentante di una vivace comunità di ebrei ellenisti che oggi definiremmo “aperti”. Eppure, è Stefano che “per primo” accetta di portare le conseguenze di un’apertura intellettuale con tutte le sue conseguenze esistenziali che, alla luce dell’intelligenza delle Scritture, non solo fa riconoscere in Gesù di Nazaret, il compimento delle promesse di Israele, ma pure rende capaci di dare la vita per lui proprio <e i testimoni deposero il mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo> (7, 58). Così commenta il vescovo Fulgenzio: <La carità che fece scendere Cristo dal cielo sulla terra, innalzò Stefano dalla terra al cielo. La carità fu prima nel Re, rifulse poi nel soldato> e aggiunge sottolineando il legame tra il primo martire e il grande apostolo <Dove Stefano, ucciso dalle pietre di Paolo, lo ha preceduto, là Paolo lo ha seguito per le preghiere di Stefano>1. In questo gioco di comunione e di offerta della propria vita fino al sangue possiamo cogliere il compiersi nel discepolo della parola del Maestro: <il fratello darà a morte il fratello> (Mt 10, 21). Ma si compie ancora più mirabilmente l’altra parola del Signore Gesù: <non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi> (10, 20). Questo si rende possibile perché Stefano è capace di fare il primo passo nella testimonianza ed il suo martirio corona – questo significa il suo nome – il suo desiderio di essere “il primo” ad amare fino a dare la propria vita. Mentre facciamo festa per Stefano siamo chiamati a fare il punto sul nostro desiderio di essere discepoli del Signore: quando si ama non si può non desiderare di essere i primi nel dimostrare l’amore e questo anche a costo della vita che comincia con la grande sfida del discernimento. Una traduzione possibile direbbe: <prendete una certa distanza in relazione a quello che pensano gli uomini> non per creare distanza, ma per porre le basi per una comunione più profonda e più vera la cui verità si misura proprio sulla capacità di mettersi in prima linea, di fare il primo passo, di accettare di cedere per primi per non rinunciare a ciò che per primi si è potuto intuire con l’intelligenza di un cuore illuminato dall’amore.


1. FULGENZIO DI RUSPE, Discorsi, 3 per la festa di santo Stefano.

Accogliere… il tutto

Natale del Signore

La scelta delle letture che la Liturgia propone per le quattro Messe del Natale del Signore – Vigilia, Notte, Aurora, Giorno – non sono semplicemente dei formulari che si possono scegliere a proprio piacimento ma rappresentano una sorta di sguardo mistico che dalla storia – la Genealogia secondo Matteo letto alla Vigilia – conduce fino a quella che i nostri fratelli orientali chiamano la Meta-Storia. Si contemplato la radice sul cui tronco germoglia Gesù di Nazareth e ci si sofferma sul luogo e il contesto storico in cui la luce della sua presenza fece irruzione nella storia dell’umanità <sotto Quirinio> (Lc 2, 2). Tutto il mistero è rivisitato “attraverso” lo sguardo di poveri <pastori che vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge>. Nel pieno meriggio di questo Giorno Santo il nostro occhio è invitato – dopo essersi spalancato sullo spettacolo commovente di un <bambino avvolto in fasce e che giace in una mangiatoia> – ad alzarsi in volo verso un altro punto di vista: quello dall’alto, quello di Dio stesso che <molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio> (Eb 1, 1-2). 

Questo Figlio che noi contempliamo tra le braccia di Maria come uno di noi è <il Verbo> che <era presso Dio ed era Dio> (Gv 1, 1). L’evangelista che alla fine del suo testo dovrà riconoscer di aver dovuto tralasciare molte cose riguardanti Gesù perché <se fossero scritte…> (Gv 21, 25) non esita nel primo versetto del suo Vangelo a dirci tutto quello che dobbiamo sapere e che non dobbiamo dimenticare: l’incarnazione non è uno scherzo ma è qualcosa in cui Dio si è giocato fino in fondo e in modo totale e senza ritorno. Aldilà di ogni forma in cui l’intervento di Dio è stato atteso nel corso della storia del popolo della promessa e, inconsapevolmente, al cuore delle promesse attorno a cui tutti i desideri degli uomini e dei popoli si sono organizzati, questo intervento di Dio è talmente totale da non poter che suscitare l’ammirazione e l’incontenibile esultanza: <Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme> (Is 52, 9). 

Il grande annuncio che rende <belli sui monti i piedi del messaggero> (Is 52, 7) è ciò che sta al cuore del prologo di Giovanni: <E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità> (Gv 1, 14). Dopo aver detto questo non c’è più tanto da vedere quanto da accogliere a cuore aperto.

Attendere… la salvezza

24 Dicembre T.A.

Ormai giunti alla vigilia di un nuovo Natale non possiamo fare altro che attendere e sperare di fare esperienza di <salvezza> di cui la storia di Israele è un’icona offerta a tutta l’umanità non per sentirsi esclusa da un’esperienza di grazie che riguarderebbe solo pochi eletti, bensì per sentirsene profondamente e realmente partecipi. Per tre volte il termine <salvezza> ritorna nel Cantico di Zaccaria che la Chiesa ci fa pregare tutte le mattine a conclusione delle Lodi e questo tema compare in una modalità di crescendo. Dapprima è un’esperienza interna <nella casa di Davide suo servo> (Lc 1, 69); poi diviene <salvezza dalle mani dei nemici> (1, 71) per raggiungere il livello di massima profondità quando diventa <remissione dei peccati> (1, 77). In questo modo la Liturgia prepara i nostri cuori a riconoscere e ad accogliere il <salvatore> (Lc 2, 11) la cui nascita, nella notte dei nostri dubbi e delle nostre stanchezze, gli angeli annunceranno ai pastori che siamo chiamati a vegliare sul gregge dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.

L’Avvento si conclude ed è il profeta e re Davide – pastore umile e forte – a intonare il salmo del compimento ormai imminente: <Egli mi invocherà: “Tu sei mio Padre”> (Sal 88, 27)) Le parole di Zaccaria confermano le promesse e riaccendono le speranze poiché <ha suscitato per noi un salvatore potente, nella casa di Davide suo servo> (Lc 1, 69). Il profeta Natan non cessa di richiamare la nostra attenzione: tutto quello che abbiamo preparato, tutto quello che possiamo pensare di mettere in atto perché il Regno venga in mezzo a noi impallidisce e fa un passo indietro davanti all’inenarrabile <amore edificato per sempre> che ci ricolma e, allo stesso tempo, ci supera. A Betlemme non ci sarà <posto> (Lc 2, 7) per il figlio di Davide, il quale non si presenta come re, ma come un “piccolo” che ha bisogno di essere accolto per accogliere ogni uomo e ogni donna, a cominciare dai più poveri.

Le parole che, per bocca del profeta Natan, vengono rivolte al re Davide sono in realtà indirizzate al cuore immemore di ciascuno di noi: <Sono stato con te dovunque sei andato…> (2Sam 7, 9). E mentre ci accingiamo a celebrare ancora una volta il mistero del Natale del Signore, siamo obbligati a prendere coscienza di quanto e di come il Dio dei padri cammina e continua a camminare con noi. Le parole di Zaccaria diventano un portale di ingresso nella contemplazione del dono incommensurabile del Dio fatto carne, fatto uomo, resosi uno di noi in Cristo Gesù: <egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza> (Lc 1, 72). Oggi – nell’oggi della salvezza quotidianamente sperimentata – l’attesa delle generazioni così numerose da essere come <la sabbia sulla spiaggia del mare> (Eb 11, 12) e il desiderio infinito dei cuori che è come le stelle del cielo, conosce la gioia di essere esaudito e può quindi trovare <riposo> (2Sam 7, 11): Dio visita il suo popolo, Dio abita il cuore di ogni creatura facendone la sua <casa> (7, 12) e donandoci così di sperimentare la salvezza come un senso ritrovato di pace, di risposo… finalmente a casa e finalmente salvi. Un dono per noi, ma un dono che siamo chiamati ad offrire anche a quanti, ancora oggi, non hanno un <posto> in cui sentirsi a casa, in cui sentirsi sani e salvi.