Attendere… insieme

I settimana T.A.

Non c’è niente di più semplice dello sguardo: si guarda come si respira, eppure nulla è più difficile che essere capaci di vedere. Tutta la storia della salvezza, quale cifra della stessa storia dell’umanità, non è altro che un lento imparare a vedere attraverso lo sguardo accettando, cosa talora più difficile e penosa, di essere visti. Tra il Creatore e la nostra umanità, come in tutte le relazioni forti e significative, siamo di fronte ad una storia di sguardi attraverso cui si consuma il dramma di una relazione più o meno riuscita. Dobbiamo anche riconoscere che la sfida non consiste solo nell’imparare a guardare per essere in grado di vedere, ma pure di lanciarci in questa avventura insieme e non da soli. L’evangelista Matteo ci parla di <due ciechi> (Mt 9, 27) che insieme si rivolgono al Signore Gesù nella speranza di essere sanati e insieme, dopo aver vissuto l’esperienza del dolore condiviso e di una supplica comune, possono infine condividere la gioia e le conseguenze di essere di nuovo capaci di vedere. 

Il salmo responsoriale ci fa fare una professione di fede: <Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?> (Sal 26, 1). Il profeta Isaia ci fa partecipi di una grande promessa che ci riguarda personalmente e assai profondamente: <D’ora in poi Giacobbe non dovrà più arrossire, il suo viso non impallidirà più> (Is 29, 22). La domanda che il Signore Gesù pone ai due ciechi è rivolta oggi anche a noi: <Credete che io possa fare questo?> (Mt 9, 28). Non ci capiti di rispondere troppo in fretta e ricordiamoci che è necessario un salto come quello vissuto dai due ciechi che, dopo aver invocato Gesù <gridando: “Figlio di Davide”> (9, 27) lo riconoscono e lo confessano quale <Signore> (9, 28). In pochi istanti i due ciechi percorrono, nel buio della loro cecità, un ben più lungo cammino tanto da sentirsi rispondere: <Avvenga per voi secondo la vostra fede> (9, 29).

Mentre ci prepariamo al Natale del Signore è come se la Liturgia, attraverso la scuola della Parola, volesse mettere nei nostri occhi una buona dose di collirio per poter riconoscere nel bambino adagiato in una mangiatoia la visibilizzazione della Luce increata. La luce di Cristo ci salva perché accogliendo ci rende capaci di accoglienza verso noi stessi per saper abbracciare con uno sguardo rinnovato e purificato ciò che degli altri e di noi stessi non vorremmo vedere… non vorremmo sapere. Riconoscere come questi due cieci di avere bisogno di aiuto e saperlo chiedere insieme, quasi sostenendosi nella supplica e facendosi coraggio nell’invocazione, è, paradossalmente, l’unica via per poter finalmente vedere riscoprendo i colori dell’universo che ci abita interiormente e che ci circonda. Eppure, tutto ciò non sarebbe possibile senza quella fede che apre il nostro cuore ad un di più di speranza che è già un modo di vedere oltre la tenebra e il buio e così <quelli che mormorano impareranno la lezione> (Is 29, 24).

Attendere… uno spazio

I settimana T.A.

La parola della Liturgia apre il nostro cuore alla speranza di avere, infine, uno spazio in cui poter sperare, in cui potersi sentire al sicuro non nel senso di una protezione infantilizzante, ma nella dimensione di un ambito a nostra misura in cui ci sia permesso di crescere e di far crescere. Il segno che lo spazio della <casa> (Mt 7, 24) che andiamo edificando nella e con la nostra vita sia fondata sulla <roccia> e perciò possa ritenersi veramente <salda> (Is 26, 3) è che continuamente risuoni, dai suoi più alti bastioni, un grido chiaro e forte: <Aprite le porte> (26, 2). La solidità della città del nostro cuore è direttamente proporzionale alla capacità di aprire i nostri cuori ad un’accoglienza sempre più dilatata e insensibile ad ogni paura perché fondata su quella <volontà del Padre> (Mt 7, 23) che ci riconosce tutti come suoi figli e ci pensa tutto come fratelli. Si può leggere il testo di Isaia come la parabola della città rovesciata! Infatti, il profeta parla del nostro Dio come colui che edifica, certo, ma pure come colui che <ha abbattuto coloro che abitavano in alto, ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo> e se non bastasse Isaia non ha nessun timore ad aggiungere un’ulteriore nota chiarificatrice: <I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri> (Is 26, 5-6).

Queste parole profetiche, unitamente a tante altre simili che ritmano il fluire delle Scritture, hanno ispirato il Cantico della Madre del Signore che, davanti all’estasiata esclamazione di Elisabetta, punta lo sguardo sul mistero non della sua eccezionalità e singolarità, ma sulla sua profonda partecipazione alla storia di salvezza dei più poveri che esige, necessariamente, la conversione di quanti sono troppo ricchi da essere motivo di oppressione. La parabola del Signore è un invito a creare nella nostra vita uno spazio di salvezza che esige una certa saldezza in cui si rifletta ciò che viene evocato dal profeta Isaia: <La sua volontà è salda; tu le assicurerai la pace, pace perché in te confida> (26, 3). L’amore di Dio si offre a noi come casa sicura e ben fondata non perché sia esente da minacce, ma perché capace di resistere graziosamente e solidamente. 

Rassicurandoci, il Signore ci chiede pure di verificare onestamente la nostra vita per comprendere meglio il motivo per cui vogliamo costruire e verificare il modo con cui ci siamo messi all’opera. Il profeta parla di una città che viene offerta da Dio al suo popolo per consolarlo delle sofferenze inflittegli dalla grande e potente Babilonia. Le sue imponenti costruzioni e i suoi splendidi giardini impressionavano la fantasia di quei <poveri> che il Signore predilige e sotto i cui <piedi> (26, 6) fa sgretolare tutti i sogni di onnipotenza autoreferenziali. La <roccia> (Mt 7, 24) di cui ci parla il Signore Gesù non è altro che la coscienza chiara di non poter in nessun modo fondare la nostra vita su noi stessi, ma nella fede che ci rende pienamente fiduciosi tanto da non avere nessuna paura di aprire <le porte> (26, 2) facendo così della nostra vita uno spazio aperto e al contempo sicuro.

Attendere… liberi

I settimana T.A.

Due scenari per intuire la medesima cura con cui il Signore accompagna il cammino del suo popolo e il nostro proprio cammino: il banchetto messianico alla fine dei tempi, di cui ci parla quasi trasognato il profeta Isaia, e la moltiplicazione dei pani – così familiare – sulle rive del lago. La preghiera orienta e forse anche un poco aggiusta il tiro della nostra attesa: <la forza di questo sacramento ci liberi… e ci prepari> (Orazione dopo la Comunione). Mentre contempliamo ancora una volta la commovente <compassione> (Mt 15, 32) con cui il Signore sfama i poveri che accorrono a lui, la liturgia ci chiede di rammentare bene che il pane che riceviamo – la presenza del Signore che ci accompagna lungo il cammino della vita fatta di bisogni oltre che di desideri – ha come scopo quello di renderci un po’ più liberi e sempre più preparati non solo a partecipare, ma ad essere pure attenti e attivi nel <banchetto> che il Signore stesso <preparerà> (Is 25, 6) per tutti.

Potremmo dire che l’Avvento se scava in noi il desiderio di partecipare alla gioia del Regno di Dio che viene, lo fa proprio aiutandoci a riappropriarci della nostra povertà. È infatti la nostra coscienza di avere bisogno che ci avvicina al Signore Gesù creando lo spazio necessario perché egli possa rendersi presente alla nostra vita: <Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino> (Mt 15, 32). Il Signore Gesù non vuole che rimaniamo digiuni della sua presenza e della sua compagnia per poter serenamente vivere il nostro cammino senza venir meno e potendoci rallegrare di raggiungere la mèta del nostro desiderio più vero e profondo. Le parole del profeta Isaia ci confortano e ci rafforzano: <Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza> (Is 25, 9).

Se abbiamo sperimentato la salvezza donataci, allora la nostra stessa vita si fa dono e condivisione di salvezza con tutti i nostri fratelli in cammino con noi e come noi. La nostra è una condivisione tra poveri più che essere una condivisione con i poveri. Il Signore Gesù si fa infatti povero accettando di dare interamente la sua vita e chiedendo ai suoi discepoli di accompagnarlo e imitarlo in questo medesimo atteggiamento. Il tempo di Avvento è un tempo di interiorizzazione e di metabolizzazione delle nostre povertà, fragilità e limiti per renderli un luogo di salvezza per noi stessi e di condivisione di salvezza per tutti coloro che la vita pone sulla nostra strada. Se è vero che <il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto> (Is 25, 8) è anche vero che noi stessi siamo chiamati ad essere il fazzoletto con cui il Signore si prende cura del pianto di ogni uomo e donna in quella <compassione> che in Cristo Gesù si è fatta così visibile da farsi carne e sangue. La domanda risuona nel nostro cuore: <Quanti pani avete?> (Mt 15, 34) che può essere intesa così “quanta compassione avete?” mettiamola davanti al Signore ed egli la moltiplicherà fino alla <sazietà> (15, 37)… fino a farne avanzare.

Attendere… è valutare

I settimana T.A.

Dopo esserci nutriti della Parola e del Corpo e Sangue di Cristo così preghiamo nell’Eucaristia di quest’oggi: <insegnaci a valutare con sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo> (Orazione dopo la Comunione). Mentre cominciamo a vivere questo nuovo Avvento, è come se fossimo sensibilizzati al dovere di <valutare> il modo con cui ci apriamo alla presenza di Dio nella nostra vita e siamo capaci di discernerne i segni nella storia dell’umanità. Come dice un giornalista contemporaneo: <Il tempo dell’Avvento ci è dato anche per imparare a lasciarci mettere in causa proprio dalla contraddizione evangelica che ci mette alla scuola dell’Infinitamente Piccolo che a quella dei sapienti di questo mondo>1.

La gioia di cui è ricolmo il Signore Gesù viene dallo <Spirito Santo> (Lc 10, 21) e proprio per questo si differenzia da altre gioie perché non è concentrata su se stessa, ma aperta a qualcosa di più grande e di più ampio capace di inglobare – persino di preferire –i più <piccoli>. Nel mistero del Natale, alla cui rinnovata celebrazione liturgica ci prepariamo, il Figlio di Dio si rivelerà al mondo proprio come il “piccolo” del Padre che attraverso la sua vulnerabilità e la sua umiltà è capace di ristabilire i legami della famiglia di Dio interrotti dalle ferite di quel bisogno di grandezza e di irresponsabile autonomia da cui, così sovente, siamo tentati per gestire le nostre piccolezze inaccolte. Nella stessa linea il profeta Isaia offre al popolo imbarazzato dal suo sentimento di diminuzione, a motivo del giogo Assiro così opprimente e così potente da mettere in crisi la stessa identità del popolo, una speranza per sormontare il dubbio su quanto sia vero che Dio lo ami e lo custodisca.

Alle soluzioni di contrapposizione e di rivincita il profeta oppone quella di un semplice <germoglio> che <spunterà dal tronco di Iesse> (Is 11, 1). Isaia non solo rettifica e rianima la speranza del popolo e la nostra, ma pure ci mette tra le mani un criterio per <valutare> la speranza di cui siamo ricolmi. Il germoglio di cui parla il profeta, se si radica nel tronco della dinastia davidica, nondimeno porta il sigillo del modello davidico che è la coscienza consapevole della propria piccolezza che fu criterio di scelta per Samuele per riconoscere colui che, tra tutti i figli di Iesse, era stato scelto da Dio per guidare il suo popolo. Nella prima lettura troviamo come l’esplicitazione di ciò che lo <Spirito Santo> (Lc 10, 21) opera nel cuore del Signore Gesù perché ci riveli il volto del Padre suo: <ma giudicherà con giustizia i miseri prenderà decisioni eque per gli umili della terra> (Is 11, 4). Proprio in questo spirito davidico, di cui ci testimonia il salterio tradizionalmente attribuito al re-piccolo, possiamo valutare e verificare se e quanto la nostra attesa è autentica: <Perché egli libererà il misero che invoca e il povero che non trova aiuto. Abbia pietà del debole e del misero e salvi la vita dei miseri> (Sal 71, 12-13).


1. J. HAGGERTY, Quitter Dieu pour Dieu, Mame, Paris 2009, (M 205/28)

Attendere… una parola

I settimana T.A.

Il gesto di un centurione apre il nostro itinerario quotidiano di Avvento: <gli venne incontro> (Mt 8, 5). Nel vangelo secondo Matteo siamo ancora idealmente alle falde del monte delle Beatitudini ove il Signore Gesù ha appena pronunciato le parole delle beatitudini capaci di dare un colore e un calore di Regno a tutte le nostre umane situazioni. Appena sceso dal monte, ecco che le parole si fanno gesti e l’evangelista Matteo ce ne elenca ben dieci quasi un decalogo non più di comandamenti, ma di tenerezza. Dopo il lebbroso ecco il centurione, dopo quel tocco che supera la barriera eretta da una malattia così religiosa come la lebbra, ecco <una parola> (8, 8) che è capace di andare oltre tutte le nostre estraneità. Il tempo di Avvento ci prepara al Natale in cui contempliamo e accogliamo il Verbo che si fa carne, ed il primo passo di questa marcia verso la luce sembra essere quella di riappropriarci di una parola che sia capace di creare e ricreare continuamente una relazione che sia terapeutica perché umanamente autentica.

Il Vangelo ci ricorda con la figura di questo centurione che il luogo in cui può essere accolta la parola creatrice di Dio cui risponde e corrisponde la nostra parola di adesione e di amore non è il cielo disincarnato delle intuizioni, bensì la terra dell’attenzione che si fa sguardo e intercessione per sollevare e confortare prima di tutto l’altro: <Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente> (8, 6). L’incontro tra Gesù e il centurione avviene a causa di questo <servo> che <soffre terribilmente>. Tra Gesù e il centurione si creano le condizioni di un incontro così forte da generare l’ammirazione del Signore a partire da una condivisa attenzione alla sofferenza che non riesce a rimanere semplicemente spettatrice, ma si fa condivisione e coinvolgimento estreme. Quella <fede così grande!> (8, 10) di cui Gesù parla agli astanti radica in un amore così grande da essere capace di precedere la fede come adesione di fede.

Si ritorna così alla parola originaria con cui Dio ha creato il mondo e comincia a prepararsi nel cuore lo spazio per accogliere la parola che, in Gesù, viene pronunciata ogni giorno sulle e attraverso le nostre umane situazioni, perché divengano una parola di risposta all’opera cominciata da Dio e affidata, ora, al nostro impegno e alla nostra capacità di ricreare continuamente il mondo secondo il progetto amoroso del Padre. Il <messaggio> che Isaia <ricevette in visione> (Is 2, 1) è ciò di cui il Signore Gesù è incarnazione e che richiede a ciascuno di noi di vivere in un dinamismo di obbedienza esistenziale al progetto di Dio sulla nostra umanità. Ancora oggi il Signore risponde: <Verrò e lo guarirò> (Mt 8, 7). Ancora oggi da noi il Signore si aspetta una reazione simile a quella del centurione: <dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito> (8, 8). Ciò che cambia il mondo perché guarisce il nostro modo di vivere e di pensare non sono i gesti di potenza, ma i sottili gesti di tenerezza. Che un centurione si prenda così tanta cura di un <servo> è già segno del Regno che viene ed è l’aurora di una <fede così grande> da fargli prendere posto <a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli> (8, 11).