Il tuo nome è Ritto, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

L’opera del Signore Gesù continua attraverso le parole e i gesti degli apostoli. Le parole di Paolo al <paralizzato> non fanno altro che rinnovare il dono originale della creazione per ogni uomo e per ogni donna: <Alzati, ritto in piedi!> (At 14, 10). La celebrazione del mistero pasquale si protrae per tutto questo tempo gioioso fino a Pentecoste e sembra essere una lunga meditazione su Cristo Signore. Egli è l’Agnello immolato e vivente che, nel mistero della sua offerta pasquale, pur ferito e sgozzato, sta <ritto> (Ap 5, 6; 14, 1) al centro della storia per conferirle il senso più autentico e profondo. Il desiderio e il disegno dell’Altissimo per ognuna delle sue creature e per ciascuno dei suoi figli è che possiamo raggiugere la pienezza della nostra statura nell’esercizio di quella libertà di movimento non solo delle gambe, ma soprattutto, del cuore nella libertà che ci rende suoi figli e icona della sua presenza nel mondo e nella storia. La lettura del Vangelo di Giovanni ci aiuta già a preparare non solo liturgicamente, ma prima di tutto esistenzialmente, il dono di una rinnovata Pentecoste: <Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto> (Gv 14, 26).

Il dono dello Spirito del Risorto non fa che rinnovare e dilatare quel dono fondamentale della creazione che ci ha messi in piedi e in movimento fin dalla creazione del mondo. Pertanto, non basta essere creati, è necessario ogni giorno fare il balzo della libertà, della creatività, di una certa capacità di essere pronti all’avventura come quel paralitico che, sulla parola di Paolo, che rinnova la forza della parola originaria del Creatore, <balzò in piedi e si mise a camminare> (At 14, 10). Come insegna Paolo agli abitanti di Listra il punto di partenza per questa rimessa in movimento è la memoria di quel <Dio vivente, che ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano> (At 14, 15). Il Signore Gesù ci ricorda che l’opera della creazione non è un’opera di potenza, ma un dinamismo di amore: <Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui> (Gv 14, 23).

Al cuore di quel paganesimo interiore che abita il nostro stesso cuore e spesso vediamo abitare il mondo in cui viviamo, il Signore Gesù ci chiede di fare un passo decisivo nella comprensione del mistero di Dio che corrisponde alla giusta comprensione del nostro stesso mistero: amare è il segreto della vita, perché l’amore è l’essenza stessa di Dio. Da parte sua lo Spirito Santo, ci ricorda il Signore Gesù, <vi insegnerà e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto> (14, 26). Lo Spirito Santo sembra avere uno scopo primario nel suo abitare il nostro cuore: insegnarci a ricordare. Ricordare è una delle espressioni più durevoli e necessarie dell’amare. Eppure, non basta ricordare, è necessario che la memoria scavi nel cuore del discepolo uno spazio di reale disponibilità a rimettersi in gioco, senza cedere al comodo di una vita semplicemente assistita e tristemente compianta.

Il tuo nome è Vela, alleluia!

V Domenica di Pasqua –

La conclusione della prima lettura di questa domenica, che ormai già ci fa pregustare il fuoco della Pentecoste e la struggente nostalgia che segna il cammino dei credenti a partire dal momento dell’Ascensione del Signore che ritorna presso suo Padre, ci sospinge verso il largo: <di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto> (At 14, 26). Il Signore Gesù nel Vangelo ci aiuta a capire meglio cosa sia questa vela che è capaci di portare la nostra vita sempre di più al largo permettendoci di avanzare sicuri e gioiosi sull’abisso del mare. La sua parola è semplice, essenziale, fondamentale: <Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri> (Gv 13, 34). L’evangelista tiene a specificare come il Signore Gesù abbia atteso che Giuda fosse <uscito> (13, 31) prima di dare ai suoi discepoli il mandato di essere più che apostoli, dei veri riflessi della sua stessa unione con il Padre: <Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per altri> (13, 35).

Un segno distintivo dell’amore è la capacità di rispettare e, per certi aspetti, di amare persino il rifiuto dell’amore! Per questo il Signore lascia partire nella <notte> (13, 30) della sua scelta e del suo cuore uno dei suoi apostoli, senza imporgli inutilmente il fardello di un appello ad amare cui ormai la vita di Giuda si è completamente chiusa… una chiusura che non può essere forzata dall’amore se non nella forma dell’assoluto rispetto del non-amore. Come scriveva e continuava a dire Raoul Follerau: <La carità è l’ordine che regna nella stessa vita di Dio e si fa riflesso per noi della sua eternità> e aggiunge <solo così potremo diventare veramente umani>. Pertanto, la nostra umanità è come la nave evocata nella prima lettura: essa può avanzare sfidando le correnti e le onde o accondiscendendo ai venti solo nella misura in cui spiega la propria vela al soffio dello Spirito.

Ciò che Giovanni attesta di vedere nell’Apocalisse è ciò che noi tutti attendiamo di vedere: <un nuovo cielo e una terra nuova> (Ap 21, 1). Questo nuovo cielo, questa nuova terra non possono che essere il frutto dell’accoglienza piena e generosa di quel <comandamento nuovo> (Gv 13, 32) che sta sulle labbra del Signor Gesù proprio come l’invito ad accoglierlo come <sposo> (Ap 21, 2) della nostra vita per farci iniziare all’arte dell’amore. E l’amore è sempre contemporaneo al desiderio che viene colto e accolto dall’occhio del cuore capace di vedere così in profondità da andare oltre ogni apparenza. L’amore è sempre <Ora> (Gv 13, 31) ed è nella forza di un presente assoluto capaci di dare futuro ad ogni memoria. L’amore è l’unica realtà che può rendere Dio <glorificato> dalla e nella nostra vita. Perché amando diamo spazio e peso al disegno di Dio sulla nostra umanità facendo del nostro umano cammino una tappa della sua rivelazione. Di fatto non c’è nulla di nuovo nel comandamento del Signore, ma ciò che fa tutto completamente nuovo è quel <come io> (13, 34) che fa del nostro cammino un continuo riflesso del suo essere in mezzo a noi: <Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio con loro> (Ap 21, 3). Questa presenza asciuga ogni <lacrima> e supera ogni <morte> attraverso il fuoco dell’amore che gonfia e sospinge la vela del cuore.

Ton nom est Voile, alléluia !

V Dimanche de Pâques –

La conclusion de la première lecture de ce dimanche, qui est déjà un avant-goût du feu  de la Pentecôte  et la poignante nostalgie qui marque le chemin des croyants à partir du moment de l’Ascension du Seigneur qui retourne près de son Père, nous pousse vers le large : «  de là, ils firent voile pour Antioche, d’où ils étaient partis recommandés à la grâce de Dieu pour l’oeuvre qu’ils venaient d’accomplir » ( Ac 14, 26 ). Dans l’Evangile, le Seigneur Jésus nous aide à mieux comprendre ce qu’est cette voile qui est capable de porter notre vie toujours plus loin en nous permettant d’avancer sûrs et joyeux sur l’abysse de la mer. Sa parole est simple, essentielle, fondamentale : «  Je vous donne un commandement nouveau : aimez-vous les uns les autres, comme je vous ai aimés, ainsi, aimez-vous aussi les uns les autres » ( Jn 13, 34 ). L’évangéliste tient à préciser que le Seigneur Jésus attendit que Judas fut «  sorti » ( 13, 31 ) avant de donner à ses disciples le mandat d’être plus que des apôtres, de véritables reflets de sa propre union avec le Père : «  A ceci tous vous reconnaîtront pour mes disciples : à cet amour que vous aurez les uns pour les autres » ( 13, 35 ).

L’un des signes distinctifs de l’amour est la capacité de respecter, et d’une certaine façon, d’aimer jusqu’au refus de l’amour ! Pour cela, le Seigneur laisse partir dans la «  nuit » ( 13, 30 ) selon son choix et son coeur, l’un de ses apôtres, sans lui imposer inutilement le fardeau d’un appel à aimer car, désormais, la vie de Judas s’est complètement fermée…une fermeture qui ne peut être forcée par l’amour si ce n’est par la forme de l’absolu respect du non-amour. Comme l’écrivit et continua à dire Raoul Follereau : «  La charité est l’ordre qui règne dans la vie même de Dieu et elle s’en fait reflet pour nous dans son éternité » et, il ajoute : « ainsi seulement nous pourrons devenir vraiment humains ». En attendant, notre humanité est comme le bateau évoqué dans la première lecture : celui-ci peut avancer défiant les courants et les eaux ou bravant les vents, seulement dans la mesure où sa propre voile se plie au souffle de l’Esprit.Ce que Jean prétend voir dans l’Apocalypse et ce que nous attendons tous de voir  est : «  un ciel nouveau et une terre nouvelle » ( Ap 21, 1 ). Ce ciel nouveau, cette terre nouvelle ne peuvent qu’être le fruit du plein accueil généreux de ce «  commandement nouveau » ( Jn 13, 32 ) qui est sur les lèvres du Seigneur Jésus tout comme l’invitation à l’accueillir comme « l’époux » ( Ap 21, 2 ) de notre vie pour nous initier à l’art de l’amour. Et l’amour est toujours contemporain au désir qui est recueilli et accueilli par l’oeil du coeur capable de voir si profondément jusqu’à pénétrer au-delà de toute apparence. L’amour est toujours «  Maintenant » ( Jn 13, 31 ) et se trouve dans la force d’un présent absolu capable de donner un futur à toute mémoire. L’amour est l’unique réalité qui peut «  glorifier » Dieu par et dans notre vie. Car, en aimant nous faisons de la place et donnons du poids au destin de Dieu pour notre humanité en faisant de notre chemin humain une étape de sa révélation. En fait, « il n’y a rien de nouveau dans le commandement du Seigneur, mais ce qui le rend complètement nouveau est ce «  comme moi » ( 13, 34 ) qui fait de notre chemin un reflet continu de sa présence au milieu de nous : « Voici la demeure de Dieu parmi les hommes ! Il aura sa demeure avec eux et ils seront son peuple avec Lui » ( Ap 21, 3). Cette présence essuie toute «  larme » et dépasse toute «  mort » à travers le feu de l’amour qui gonfle et  pousse la voile du coeur. 

Il tuo nome è Salvezza, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Gli apostoli devono far fronte alla <gelosia> dei Giudei, i quali si sentono feriti dal fatto che una <moltitudine> (At 13, 45) riceve la parola del Signore attraverso la testimonianza dei discepoli di quel Gesù che essi avevano ucciso. La minaccia, per così dire, dell’amore predicato e patito dal Signore Gesù sembra non dare pace ai Giudei. La presa di posizione da parte degli apostoli è molto forte e al contempo assai semplice: <Era necessario che fosse proclamato prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani> (13, 46). Nessuno viene escluso dall’esperienza e dal dono della salvezza, ma nessuno può essere costretto ad accogliere il dono di una salvezza che non può mai essere né una costrizione né un’evidenza, ma è il frutto di una scelta di consenso libero e gioioso. In questo passaggio epocale testimoniato dal testo degli Atti degli Apostoli non siamo di fronte ad una esclusione dei Giudei dal piano della salvezza, ma si ribadisce che la salvezza è un dono di cui non si può essere gelosi, ma che, per sua natura, esige di essere partecipato e condiviso. Il segno di tutto ciò è che i <discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo> (13, 52). 

Le parole che il Signore rivolge ai suoi discepoli, mentre si prepara il tempo della separazione e dello scandalo pasquale della sua umiliazione, sembrano un vero testamento. Il sigillo di questo testamento non è né la nostalgia né la gelosia, ma la certezza che la vita è più forte di ogni morte; la speranza che la gioia di un amore condiviso non si può spegnere nemmeno nella bufera e nell’uragano dell’odio più tremendo: <Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro credetelo per le opere stesse> (Gv 14, 11). Il Signore Gesù non vive con gelosia la sua relazione con il Padre, ma con un amore la cui intensità e autenticità è direttamente proporzionale alla sua possibilità di partecipazione e di incremento: <In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre> (14, 12). L’esodo pasquale di Cristo non crea un vuoto, ma diventa premessa e possibilità di una crescita, di quella che potremmo definire una vera espansione della grazia il cui segno è l’approfondimento e la dilatazione della gioia senza rimandi e senza diminuzioni: <Chi ha visto me, ha visto il Padre> (14, 9). Non c’è nessuno spazio per nessuna forma di <gelosia>!

Il Signore Gesù non attira a se stesso, ma, attraverso di sé, ci porta verso il Padre con una gioia che diventa uno stile e un sigillo. Laddove Filippo chiede di essere ammesso, per così dire, alla contemplazione e alla fruizione dell’infinito, Gesù gli ricorda e ci ricorda che l’assoluto di Dio si dà a vedere nella finitudine dell’uomo-Gesù, in cui e per cui la nostra finitudine di uomini diventa porta del cielo. Non solo, è come se abituandoci a riconoscere il volto invisibile del Padre in quello ben definito di Cristo Signore, ci si abiliti a scorgere un riflesso della presenza divina in ogni creatura con rinnovato stupore e con accresciuta gratitudine.

Il tuo nome è Casa, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Il tempo pasquale diventa sempre di più un tempo di meditazione e di interiorizzazione del mistero di Cristo Signore. Mentre ci sprofondiamo nella contemplazione di ciò che ci è stato rivelato nella carne del Verbo, ci sentiamo sempre più a casa, ci sentiamo sempre più accolti, percepiamo la verità di noi stessi sempre più in legame ad una relazione di intimità e di familiarità. Ciò che i discepoli di Emmaus hanno sperimentato la sera stessa del giorno di Pasqua non è altro che la realizzazione della promessa fatta dal Signore alla vigilia della sua passione: <Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore> (Gv 14, 1). Proprio a questa parola del Signore possiamo affiancare la parola esultante dell’apostolo Paolo: <E noi vi annunciamo che la promessa fatta ai padri si è realizzata, perché Dio l’ha compiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù> (At 13, 32-33).

Il dono che ci viene dalla risurrezione di Cristo è di aver ritrovato una casa, ciò che il Signore ci ha conquistato con la sua offerta pasquale è di poterci sentire tutti a casa. Uno dei segni distintivi del “sentirsi a casa” è di non avere paura. Il segno che ci garantisce di aver trovato finalmente il nostro <posto> (Gv 14, 3) è di sentirci finalmente “a posto” in una pace del cuore che permette alla nostra vita di avanzare in modo sereno. Il fondamento di questa pace e di questa serenità è una fiducia condivisa che potremmo definire ellittica e va da noi a Cristo fino al Padre e si riversa nelle nostre relazioni umane rendendole sempre più fraterne. La domanda di Tommaso non solo non deve sorprenderci, ma può diventare la nostra stessa domanda: <Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?> (14, 5). La risposta del Signore ci indica la via di casa, ci spiana davanti la strada per tornare a casa: <Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me> (14, 6).

Realizzare le promesse ricevute significa infine trovare casa nel cuore di Cristo che è una casa aperta, accogliente, calda di misericordia e di tenerezza divine. Da questa casa possiamo ripartire ogni mattina per vivere la nostra avventura umana quotidiana, in quella casa possiamo rientrare ogni sera per condividere le gioie e la fatiche della nostra giornata e, infine, trovare il riposo dell’intimità e del riposo. La certezza di avere una casa da cui uscire al mattino in cui rientrare alla sera ci permette di avere il coraggio e la semplicità di assumere la precarietà della vita con le sue incognite senza che questo ci crei turbamento, anzi rinnovando ogni mattina una sorta di curiosità nei confronti della vita e dei suoi percorsi inediti. Non possiamo certo dimenticare che uno dei primi gesti del Risorto è stato proprio quello di restituire al Cenacolo in cui i discepoli si erano asserragliati pieni di paura la sua dimensione di <casa> in cui stare insieme, pregare insieme, attendere insieme e, prima di tutto, perdonarsi reciprocamente. Potremmo dire che la casa che continuamente il Signore edifica per noi si fonda sul perdono.

Il tuo nome è Cenno, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Avvertiamo tutta la solennità del momento che viene vissuto nella sinagoga di Antiochia di Pisidia dove ancora ardono, sotto le ceneri della storia, le braci delle prime grandi scelte evangeliche di quella che poi diventerà la Cristianità: <Si alzò Paolo e, fatto cenno con la mano, disse: “Uomini di Israele e voi timorati di Dio, ascoltate…> (At 13, 16). Siamo di fronte ad un gesto della mano dell’apostolo con cui quest’ultimo non solo chiede attenzione e ascolto all’assemblea, ma si lancia in una rivisitazione della storia della salvezza fatta di cenni a vari momenti essenziali di quello che è il cammino di Dio con il suo popolo. Il cenno che richiede ascolto all’assemblea diventa per Paolo un insieme di cenni alla storia della salvezza con cui si cerca di rivitalizzare e approfondire ulteriormente una certa capacità di apertura e di incremento. Il cenno di Paolo è di certo rivolto primariamente ai suoi ascoltatori nella sinagoga, ma è un cenno che, attraverso la lunga storia della Chiesa, arriva fino a noi: bisogna ricordare per trasmettere, bisogna essere fedeli senza smettere di essere creativi.

Queste parole di Paolo che sono un vero e proprio atteggiamento vengono confermate e persino dilatate all’infinito da quanto il Signore Gesù sembra sussurrare al cuore dei suoi discepoli non prima d’aver compiuto il gesto più grande e il cenno fondamentale del suo insegnamento: <In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato>. Il Signore stesso aggiunge: <Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica> (Gv 13, 16-17). Essere beati significa, secondo un’etimologia possibile di questa parola, essere in cammino. Il cenno che continuamente il Signore Crocifisso e Risorto fa alla sua Chiesa è di mettersi in cammino, come ci ricorda la lettura degli Atti degli Apostoli, non soltanto solcando mari e sostenendo la fatica di lunghi viaggi, ma soprattutto non tirandosi mai indietro da quelle che sono le esigenze di un annuncio testimoniale che non si accontenta solo di sapere se stesso – l’oggetto dell’annuncio – ma pure di conoscere e di amare coloro cui questo annuncio è destinato non come informazione, ma come esperienza possibile e incarnata di salvezza.

Per questo le ultime parole del Signore nel Vangelo ci commuovono per la loro fiducia e la loro passione: <In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato> (13, 20). Si potrebbe dire che ancora ci viene fatto cenno per metterci nella scia odorosa della corsa del Vangelo nei cuori e nella storia. Per fare questo dobbiamo leggere le Scritture per diventare capaci di leggere la nostra stessa vita come un susseguirsi di cenni vitali. Siamo così invitati a cercare noi stessi come ci cerca il Signore e come ci conduce attraverso i flutti della storia in cui scopriamo una coerenza che non ha niente a che fare con l’evidenza, ma che pure, una volta scoperti i nessi invisibili tra cenni, diventa fonte di gioia e di pace… per tutti.

Curriculum

S. Mattia apostolo –

Le memoria dell’elezione di Mattia e della sua associazione <agli undici apostoli> (At 1, 26) è un momento delicato ed emblematico della vita della prima comunità cristiana che diventa paradigmatico per ogni comunità di tutti i tempi e in tutti i luoghi. Non viene presentato un curriculum vitae per essere resi partecipi del gruppo degli apostoli, né, tantomeno, si fa una campagna elettorale cercando di valutare i pregi e i difetti di ciascuno dei candidati cadendo nella trappola di creare e pregi e difetti perché le cose vadano a proprio vantaggio. Il metodo della scelta è quello della proposizione e dell’affidamento attraverso la preghiera: <Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due hai scelto> (1, 24). Non so tratta di scegliere tra uno che è più adatto e un altro che lo sia meno. Sia Giuseppe che Mattia sono degni di stima e fiducia, ma ogni ministero è anche un mistero legato a fattori che talora ci sfuggono e per questo è necessario confidare molto sulla preghiera e sull’abbandono piuttosto che sul calcolo e meno ancora sulle preferenze personali le cui ragioni non sono mai assolutamente pure da convenienze o, semplicemente, bisogno di escludere qualcuno.

Dopo la preghiera e la scelta attraverso la sorte, non ci sono commenti né tantomeno applausi o recriminazione… semplicemente ciascuno prende il suo posto e cerca di fare al meglio la propria parte con serenità. Essere scelti, infatti, esige che poi si divenga capaci di scegliere e di perseverare nell’essere <testimone, insieme a noi, della sua risurrezione> (1, 22). Nella tradizione ebraica il numero è importante tanto da essere necessario perché si possa pregare in sinagoga. È questo un modo per assicurare che la comunità non sia il frutto di un accordo umano, ma il segno dell’accoglienza di una parola che viene da Dio e dirige il cammino di ciascuno secondo il comandamento del Signore: <che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi> (Gv 15, 12). Essere testimoni della risurrezione esige una capacità di condivisione e di amore che sono la vera prova che il Signore è veramente risorto. Non si tratta di un’evidenza da sbattere in faccia a chichessia, ma è un <ministero e apostolato> (At 1, 25) il cui fondamento è in una relazione con Dio vissuta in fraternità e nel legame di una comunione operosa: <Rimanete nel mio amore> (Gv 15, 9).

Come ricorda Gregorio Magno parlando della carità potremmo dire la stessa cosa per parlare della testimonianza: <In effetti, come i molti rami di un albero provengono da una sola radice, così le molteplici virtù sono originate dalla stessa carità. Cosicché il ramo delle opere buone non può che germogliare sulla radice della carità. In effetti i comandamenti del Signore sono molteplici e unico: molteplici per la diversità delle opere, uno per la radice dell’amore>1


1. GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, 27, 1.

Il tuo nome è Cominciare, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Non dobbiamo affatto sottovalutare quanto ci viene ricordato dagli Atti degli Apostoli: <Ma alcuni di loro, gente di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, annunciando che Gesù è il Signore> (At 11, 20). Sembra che l’allargamento dell’annuncio della salvezza in Cristo riservata fino a questo momento solo ai <Giudei> (11, 19) non sia stata una scelta fatta a tavolino né, tantomeno, una decisione calata dall’alto con un crisma di autorità incontestabile. La predicazione rivolta a tutti cui dobbiamo l’identità di Chiesa che ci sembra oramai la più naturale e la più scontata, nasce da un semplice moto dell’animo di alcuni discepoli che interroga gli apostoli e non li allarma. Siamo chiamati a conservare bene la memoria di questo passaggio epocale nella storia della prima comunità cristiana per non temere, a nostra volta, di cominciare nuovi percorsi e di inaugurare nuovi metodi senza aspettare che questi vengano calati dall’alto con rassicurazione previe e sigilli di autenticazione che solo la vita può dare in modo autenticamente evangelico.

Inoltre, questo passaggio epocale deve rimanere per i pastori della Chiesa un punto di riferimento e un modello di discernimento: non sempre sono i pastori ad intuire le vie migliori e quelle necessarie perché la salvezza sia offerta ad un numero crescente di persone. Il testo degli Atti degli apostoli annota con semplicità che <Questa notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, e mandarono Barnaba ad Antiochia> (11, 22). In questo contesto di allargamento dell’orizzonte della predicazione e della missione sembra che si faccia spazio la necessità di un apostolo come Paolo tanto che, proprio in questo frangente, e sempre per un’ispirazione e spinta interiore: <Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo> (11, 25).

Mentre contempliamo il mistero dell’allargamento degli orizzonti della Chiesa di Cristo possiamo sentire tutta la forza e la bellezza della parola del Signore Gesù: <Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono> (Gv 10, 27). Per il Signore non sembra sufficiente fare memoria della nostra sequela, ma ci tiene a sottolineare il suo essere totalmente per noi: <Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano> (10, 28). Eppure, non dobbiamo mai dimenticare che la <mano> del Signore è amplissima ed è capace di racchiudere persino le stelle e le galassie tanto da desiderare che la Chiesa sia sempre più un popolo capace di contenere tutti i popoli, tutte le culture, tutte le sensibilità. La gioia del Vangelo è una letizia che trova il suo segreto della vita nella capacità e quasi nel piacere di ricominciare continuamente lasciandosi interpellare, scuotere e cambiare da quelle che sono le realtà e le necessità che bussano al cuore e chiedono non una semplice tolleranza compassionevole, ma un’accoglienza piena fatta di riconoscimento e di reciproco arricchimento.

Il tuo nome è Cammino, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Questa quarta settimana di Pasqua, quando il cammino verso la Pentecoste è già a metà, è contrassegnata da una particolare compagnia che è quella del pastore, bello, buono e vero. Il bel Pastore si fa guida verso la pienezza non solo della gioia pasquale, ma della stessa nostra esistenza sempre più vissuta vicina a Cristo Signore. Gesù parla di se stesso attraverso una <similitudine> e sembra che coloro che l’ascoltano – stranamente – <non capirono di che cosa parlava loro> (Gv 10, 6). Questa incomprensione induce il Signore a riprendere il discorso e a ribadire la stessa cosa attraverso l’uso di un’altra immagine: <In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore> (10, 7). L’immagine della porta evoca sempre la necessità e la possibilità di passare da fuori a dentro e viceversa e non fa che rafforzare quella caratteristica del pastore appena evocata: <E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce> (10, 4). Come spiega un pastore del popolo di Dio, Gregorio Magno: <La conoscenza precede sempre l’amore della verità. Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche quella dell’amore; non solo del credere, ma anche dell’operare. […] Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S’infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s’infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare>1.

Questa espressione gregoriana <amare sarà già un camminare> è ciò che Pietro, sempre più docile alla grazia della Spirito che anima e guida il cammino della Chiesa, impara a mettere sempre più in pratica assumendolo come un criterio di discernimento pastorale e spirituale la cui importanza è non solo sempre utile, ma anche sempre attuale. Per giustificarsi davanti a quanti lo <rimproveravano> (At 11, 2) per essere entrato nella casa di Cornelio, Pietro dice con tutta semplicità che <Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitazione> (11, 12). Inoltre, l’apostolo condivide non solo la sua esperienza esteriore, ma pure le sue intuizioni più profonde e il suo lavorio interiore per cercare di discernere i nuovi cammini aperti dal Signore alla sua Chiesa: <Mi ricordai allora di quella parola del Signore…> (11, 16). Ciò che forse stentavano a capire quanti ascoltavano la similitudine raccontata dal Signore e facevano fatica ad accettare i primi cristiani provenienti dal giudaismo, era la preoccupazione del pastore ad educare le sue pecore a non temere, anzi a godere, della possibilità di mettersi in cammino alla scoperta di nuovi pascoli e di sempre più chiare e fresche sorgenti. Anche oggi come discepoli e come Chiesa siamo spinti <fuori> (Gv 10, 4) dal chiuso dei nostri recinti poiché <Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano> (10, 9)


1. GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, 14.

Il tuo nome è Figlio, alleluia!

IV Domenica di Pasqua –

Durante la Veglia Pasquale abbiamo ancora una volta – come ogni anno – letto il racconto della prova di Abramo cui il Signore chiede di offrire in olocausto il proprio figlio. Il testo ebraico è costruito su una simpatica quanto drammatica ambiguità poiché lo stesso termine – tal’ja – che indica l’agnello rischia di indicare anche il figlio. Così al cuore del tempo pasquale il mistero del Figlio e dell’Agnello ci vengono riproposti magnificamente dalla Liturgia. Nel breve Vangelo di questa domenica colui che, indirettamente nei versetti che leggiamo quest’anno, si considera pastore in quanto ha delle pecore che ne ascoltano la voce e lo <seguono> (Gv 10, 27). Quando parla di se stesso in realtà lo fa riferendosi in modo forte a quel Padre che in un solo versetto viene evocato per ben tre volte: <Il Padre mio che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola> (Gv 10, 30).

In questa unità di comunione sostanziale sta il fondamento di quel cammino verso l’unità e la condivisione di un medesimo respiro cui è chiamata tutta l’umanità nella misura in cui si lascia guidare come suo <pastore> (Ap 7, 17) da colui che si è fatto amorevolmente <Agnello>. Ancora una volta la Liturgia crea una magnifica corrispondenza: se per tre volte nel Vangelo viene evocato il Padre, per tre volte, nella prima lettura si parla dell’Agnello che è, esattamente, quel Figlio che ci apre ad una comunione e relazione con Dio definitivamente riscattata da ogni ombra di paure e di servitù per aprirci allo spirito della figliolanza in cui ci sentiamo e siamo veramente liberi. La visione del veggente di Patmos diventa così un’iniezione di speranza: <vidi: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello> (7, 9).

Spesso nell’Apocalisse troviamo piuttosto l’attitudine dello stare prostrati in adorazione, qui invece l’attitudine è quella che indica la libertà e la dignità che, proprio in virtù del mistero pasquale di Cristo Signore, ci rende vittorioso su ogni forma di paura e di diminuzione di dignità: <avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani>. A questo punto potremmo riprendere quella che si potrebbe intendere come un’acclamazione nel ritmo narrativo della prima lettura: <si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero> (At 13, 48). Verrebbe da chiedersi in che cosa <credettero>? Dovremmo chiederci in che cosa noi stessi crediamo e forse la risposta è che il senso profondo della nostra fede in Cristo, morto e risorto, è sentirci sempre di più veramente figli del Padre tanto da lasciarci portare nella sua <mano> (Gv 10, 29) con una fiducia e un’allegrezza impareggiabili. È il Signore Gesù che posa ciascuno di noi nella grande mano di Dio dopo averci portato amorevolmente sulle sue spalle di buon pastore e facendoci così ritrovare la strada perduta della fiducia, della gioia, della speranza… in una parola della figliolanza proprio nel turbine della <grande tribolazione> (Ap 7, 14). L’esperienza che siamo chiamata a fare riposando nella grande e dolce mano del Padre è questa: <Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi> (Ap 7, 17).