Profeta

XV Settimana T.O. –

Ad introdurci nella lettura liturgica del libro dell’Esodo è una parola forte del Signore Gesù: <Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto> (Mt 10, 41). Il dramma dell’esodo con tutte le sofferenze e il sangue che saranno necessari nel processo di liberazione del popolo sembrano scatenarsi proprio dall’incapacità del nuovo Faraone di accogliere la profezia di una presenza come quella del popolo di Israele che cresce in mezzo agli Egiziani, ma non necessariamente li minaccia. Il testo comincia con una nota che non va mai dimenticata lungo la lettura dell’esodo: <sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe> (Es 1, 8). La figura e la storia di Giuseppe sono memoria continua di come nessuno è autosufficiente né le persone né i popoli! Il figlio di Giacobbe è accolto in Egitto e, in un certo senso, viene salvato dall’accoglienza del sovrintendente del Faraone e dal Faraone stesso, ma è lui che subito dopo salverà il popolo dell’Egitto dalla carestia.

La parola del Signore Gesù che getta le basi e dà le regole di una sana e fruttuosa evangelizzazione diventa la chiave di lettura per ogni reale cammino di integrazione e di vicendevole solidarietà: <Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa> (Mt 10, 42). Eppure, questo non è affatto possibile se si perde la memoria tanto da trasformare il bicchiere d’acqua da offrire in una minaccia di morte tanto che <Il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: “Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere ogni femmina”> (Es 1, 22). La violenza, che faraone usa contro i piccoli di un popolo già oppresso dalla schiavitù e dall’eccesso di fatica, diventa nelle parole del Signore Gesù una <spada> (Mt 10, 34) che non deve mai essere usata contro alcuno se non contro se stessi per discernere in modo così autentico da saper anche rinunciare: <Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia la troverà> (10, 39).

Essere <degno di me> (10, 37) non ha niente a che vedere con una purità di ordine puritano, ma è il segno di una disposizione profonda e fattiva ad agire nella stessa linea e nella stessa logica del Vangelo in una capacità piuttosto a dare che non a prendere la vita. Quando, prima della comunione, ripetiamo le commosse parole del centurione: <… io non sono degno…>, dobbiamo sempre ricordarci che questo ci riporta più che all’impedimento dei nostri peccati e delle nostre fragilità, alla grande fatica quotidiana di conformare la nostra vita alle esigenze di donazione che ci vengono dal Vangelo. Quando si entra in questa obbedienza evangelica nulla può rimanere come prima ed è del tutto naturale sperimentare il prezzo salato di una <pace> (Mt 10, 34) che germoglia nello stesso solco della <croce> (10, 38). Come spiega padre Carré bisogna ricordare che <la parola croce non indicava prima di tutto il supplizio degli schiavi ma, con l’utilizzazione di una lettera ebraica a forma di croce – il tau francescano che conosciamo noi! – rappresentava una nota, una sorta di sigillo. Come quando si mette una croce per segnare un oggetto e riempire le caselle di un questionario. Ogni volta che ci segniamo o segniamo con il segno della croce ricordiamo di doverla portare sulle nostre spalle, ma questo segno indica la liberazione, il perdono, la salvezza ed è un invito a rendere grazie nella gioia>1.


1. A.-M. CARRÉ, Tout m’est buisson ardent, Cerf, Paris 1997, p. 126.

Quarta presenza

XIV Domenica T.O.

La domanda del Signore Gesù risuona anche per noi: <Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?> (Lc 10, 36). Si potrebbe dire che, in verità, è il “quarto uomo” il vero protagonista della parabola ed è esattamente quel “quarto” personaggio (Dn 3, 92) intravisto dal re Nabucodonosor mentre passeggiava con i tre fanciulli portando una presenza rinfrescante all’interno della fornace bruciante. Questa quarta presenza è quella di Cristo! Come spiega Severo di Antiochia: <Cristo non ha detto “uno scendeva”, bensì “un uomo scendeva”, perché il brano concerne tutta l’umanità. Questa, in seguito alla colpa di Adamo, ha lasciato il soggiorno elevato, calmo, senza sofferenza e meraviglioso del paradiso, a buon diritto chiamato Gerusalemme – nome che significa «La Pace di Dio» – ed è disceso verso Gèrico, regione bassa e cava, dove il caldo è soffocante. Gèrico, è il ritmo febbrile della vita di questo mondo, vita che allontana da Dio. Una volta che l’umanità ha imboccato quella vita, lasciando la via retta, il branco dei demoni selvaggi viene ad attaccarla come una banda di briganti>1. Chi mai ci può liberare dalle mani dei briganti che dilaniano la nostra speranza, se non quel <Samaritano> (Lc 10, 33) che si piega sulle nostre piaghe e le fascia con la sua misericordia e il suo amore?

La parola del Deuteronomio ci aiuta a comprendere come, l’osservanza dei comandamenti di Dio, esige la maturazione di uno sguardo capace di riconoscerne la presenza in chi ha bisogno di essere accolto e soccorso. È proprio vero che la parola e la volontà di Dio non sono <lontano> (Dt 30, 11) nella misura in cui impariamo a farci prossimo. Anche noi siamo chiamati a diventare, attraverso un amore sempre più autentico, nientemeno che <immagine del Dio invisibile> (Col 1, 15), il quale si rende visibile ogni volta che sappiamo uscire allo scoperto senza passare oltre, facendo finta di non vedere e dimenticando, così, di sottrarsi alla possibilità di essere visti, incontrati e salvati. Rileggendo ancora una volta la parabola del buon samaritano, riceviamo la consolazione e la rassicurazione di non percorrere da soli le nostre strade. Il Signore si è messo in cammino sulle rotte tanto insicure della nostra umanità e non ci lascia soli; la sua premura è tale da fermarsi e caricarci <sulla sua cavalcatura> (Lc 10, 34). 

Lungi da noi pensare a noi stessi nelle vesti di quel quarto uomo che <era in viaggio> come tutti e tre gli altri uomini, ma a differenza di questi, guidato da una così profonda <compassione> (10, 33) da interrompere il cammino per riprenderlo più tardi e… solo dopo aver raggiunto la mèta della vita che è la capacità di amare. La parola e i gesti del Signore Gesù non hanno altro scopo se non quello di aprire per noi la possibilità di vivere in modo simile e somigliante al Cristo che non passa mai dall’<altra parte>, ma si fa veramente <vicino>. Impariamo a fare, del viaggio della nostra vita, un vero sacramento di compassione e un reale ambito di salvezza, nel quale ci lasciamo interpellare da ogni ferita e da ogni trauma umano come se fossero i nostri, come se fossimo coinvolti noi stessi. Del resto, siamo un solo <corpo> (Col 1, 18).


1. SEVERO DI ANTIOCHIA, Discorsi, 89.

La quatrième présence

XV Dimanche T.O. –

La question du Seigneur Jésus s’adresse aussi à nous : «  Lequel de ces trois te semble avoir été proche de celui qui est tombé entre les mains des brigands ? » ( Lc 10, 36 ). L’on pourrait dire, en vérité, c’est « le quatrième homme », le vrai protagoniste de la parabole et, c’est exactement ce «  quatrième » personnage ( Dn 3, 92 ) entrevu par le roi Nabuchodonosor alors qu’il se promenait avec les trois jeunes portant une présence rafraîchissante à l’intérieur de la fournaise brûlante.  Cette quatrième présence est celle du Christ ! Comme l’explique Sévère d’Antioche : «  Christ n’a pas dit ‘ l’un descendait’, car le passage concerne toute l’humanité. Cela, à la suite de la faute d’Adam, qui a délaissé le séjour magnifique, calme, sans souffrance et merveilleux du paradis, appelé avec justesse Jérusalem – nom signifiant «  la Paix de Dieu » – et il est descendu vers Jéricho, région basse et creuse, où la chaleur est suffocante. Jéricho, est le rythme fébrile de la vie de ce monde, vie qui éloigne de Dieu. Une fois que l’humanité a emprunté cette vie, abandonnant la voie étroite, la meute des démons sauvages vient attaquer comme une bande de brigands »1. Qui désormais pourra nous libérer de la main des brigands qui dilapident notre espérance, si ce n’est ce «  Samaritain » ( Lc 10, 33 ) qui se penche sur nos plaies et les soigne par sa miséricorde et son amour ?

La parole du Deutéronome nous aide à comprendre comment l’observance des commandements de Dieu exige la maturité d’un regard capable de reconnaître la présence de celui qui a besoin d’être accueilli et secouru. C’est indéniable que la parole et la volonté de Dieu ne sont pas «  loin » ( Dt 30, 11) dans la mesure où nous apprenons à nous faire proches. Nous aussi nous sommes appelés à devenir, à travers un amour toujours plus authentique, rien de moins que « des images du Dieu invisible » ( Col 1, 15 ) lequel se rend visible chaque fois que nous savons sortir à l’extérieur, sans ignorer, en faisant semblant de ne rien voir et d’oublier en se soustrayant à la possibilité d’être vus, rencontrés et sauvés. En relisant encore une fois la parabole du bon samaritain, nous recevons la consolation et l’apaisement de ne pas parcourir seul nos chemins. Le Seigneur est en chemin sur les routes si dangereuses de notre humanité et il ne nous laisse pas seuls ; sa sollicitude est telle qu’il s’arrête et nous charge «  sur sa monture » ( Lc 10, 34 ).

Loin de nous de penser à nous-mêmes en nous mettant dans les vêtements de ce quatrième homme qui «  était en voyage » comme tous et comme ces trois autres hommes, mais à la différence de ceux-ci, guidés d’une si profonde «  compassion » ( 10, 33 ) qu’ils interrompent leur chemin pour le reprendre plus tard et…seulement après avoir rejoint le but de leur vie qui est la capacité d’aimer. Les paroles et les gestes du Seigneur Jésus n’ont pas d’autre but que celui d’ouvrir pour nous la possibilité de vivre de façon semblable et ressemblante au Christ qui ne passe jamais «  de l’autre côté », mais se fait vraiment «  proche ». Apprenons à faire du voyage de notre vie un vrai sacrement de compassion et un réel espace de salut où nous nous laissons interpeler par chaque blessure et chaque traumatisme humain comme si c’étaient les nôtres, comme si nous étions concernés personnellement. D’ailleurs, nous sommes un seul «  corps » ( Col 1, 18 ).


1. SEVERE D’ANTIOCHE, Discours, 89.

Visitare

XIV Settimana T.O. –

Professare apertamente e coraggiosamente la propria fede non significa certo, nella logica e nello stile del Vangelo, esibirsi temerariamente agli occhi del mondo, ma affermare che Cristo, il crocifisso-risorto, è signore della nostra vita. Così, solo così, saremo portatori e annunciatori di una luce e di una benedizione capaci di illuminare e riscaldare gli angoli più oscuri e freddi della realtà umana. L’invito del Signore Gesù a proclamare dalle <terrazze> (Mt 10, 27), non è uno sprone a imporsi e, tantomeno, a fare dell’annuncio del Vangelo una sorta di show. Quella del Signore Gesù è l’esortazione a mettersi in gioco interamente e con tutta la propria vita fino al rischio di osare una parola che ci coinvolgerà, in modo forte, nella relazione con gli altri. Le <terrazze> di cui parla il Vangelo non sono certo i “tetti” delle case del nord dove la presenza di qualcuno sarebbe recepita come strana, pericolosa e comunque originale. Esse sono i luoghi dove la gente vive e si incontra all’aperto e dove i bambini giocano rincorrendosi da una terrazza all’altra. Letta così l’esortazione del Signore non è quella di “esibire” il Vangelo in modo strano, ma di lasciare che il messaggio penetri nel tessuto della quotidianità perché esso ne possa, semplicemente ed efficacemente, animare la speranza. 

La conclusione della lettura del primo libro delle Scritture – che ci fa sostare sull’esperienza di Giuseppe – è una sorta di professione di fede condivisa: <Dio verrà certo a visitarvi…> (Gn 50, 25). Questa certezza nel futuro nasce da una consapevolezza profonda e sofferta del fatto che Dio ha visitato la sua esistenza e ne ha accompagnato i passi in modo non sempre facile da comprendere e da vivere, eppure così sicuro e certo da poter confidare che non potrà che essere così anche per gli altri. Ciò che il Signore chiede ai suoi discepoli è di vivere non con atteggiamento di “sufficienza”, ma nella profonda consapevolezza che è <sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro> (Mt 10, 25). Se facciamo memoria ogni giorno del mistero pasquale, in particolare quando celebriamo l’Eucaristia, non possiamo che costatare come non ci sarà nulla che possa turbare il nostro cuore.

In pochi versetti, più volte, il Signore raccomanda di non cedere alla <paura> (10, 26) che è l’origine di ogni male e di ogni peccato e non solo in relazione a Dio (cfr. Gn 3, 10), ma pure in relazione ai nostri fratelli e sorelle in umanità. La storia di Giuseppe ci rammenta, in modo chiaro, che l’origine di tanto dolore – nella difficile fraternità tra i figli di Giacobbe – nasce e si nutre di <paura> (Gn 50, 15), una paura dalla cui morsa purtroppo sembra non riuscire ad uscire e neppure leggere la realtà se non in modo distorto e negativo. La risposta di Giuseppe è in tutto simile all’esortazione del Signore Gesù: <Non temete…> (50, 19). Essere discepoli di Cristo e figli dei nostri padri nella fede, comporta il non lasciarsi ottenebrare il cuore dalla paura,  per poter, così, essere persino traditi e uccisi senza perdere non solo la fede, ma conservando intatta la fiducia. Questa invincibile serenità di sguardo, non può che nascere dalla certezza di essere stati visitati dal passaggio di Dio nella nostra esistenza, un passaggio che fa, della nostra vita, un continuo tentativo di visitare, con la medesima pace, la vita degli altri per liberarla dal timore e dal sospetto.

Intelligenza

San Benedetto –

La festa di san Benedetto ci riporta alla consapevolezza di una storia – quella della nostra Europa – che radica anche nell’esperienza di ciò che il monaco di Subiaco prima e l’abate di Montecassino dopo è stato capace di vivere personalmente in modo così intenso da comunicarlo non solo ai fratelli raccolti attorno a lui, ma anche al mondo da cui aveva preso le distanze in modo così radicale. L’esperienza di Benedetto da Norcia, da Subiaco, da Montecassino diventa una fonte di speranza per tutti e, in particolare, per noi che viviamo un nuovo tempo di crisi, di passaggio, per molti aspetti di fine non facile da accettare e da vivere. In un momento altrettanto difficile e segnato da cambiamenti così profondi, Benedetto ci rassicura del fatto che, se siamo in grado di tornare al Vangelo potremo sempre inventare cammini di umanità e di solidarietà fraterna. Nella preghiera e nella solitudine sembra che Benedetto sia stato capace di maturare non solo come monaco, ma pure come uomo in una capacità di leggere la storia e farne il solco in cui far cadere nuovamente il seme del Vangelo attraverso una sequela generosa e creativa.

La domanda di Pietro certo non solo non ci sorprende, ma forse pure ci esprime: <Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne avremo?> (Mt 19, 27). Per gli apostoli la predicazione del Signore e, soprattutto, l’orizzonte della croce non è facile né da accogliere né da gestire. Anche per ciascuno di noi il rischio è quello di cedere alla domanda su quale guadagno ci apporti la nostra fedeltà a Cristo. La risposta del Signore sposta l’attenzione dei discepoli dal presente al futuro: <riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna> (19, 29). Non si tratta di un modo gentile per eludere la domanda e circumnavigare il problema. Al contrario, il Signore ci ricorda che il valore della nostra vita non è legato al guadagno, ma alla capacità di fare della nostra esistenza un anello per la trasmissione e l’incremento della vita non solo per noi, ma anche e soprattutto per gli altri.

Ciò che la tradizione benedettina, nonostante tutte le ambiguità e contraddizioni, è riuscita a custodire è questo sguardo ampio e assolutamente inclusivo. Ampio perché capace di sognare e di pensare in grande e con lungimiranza, inclusivo perché ha sempre armonizzato le varie componenti della vita tenendo insieme tutti gli elementi dell’esistenza in quanto ad età, estrazione sociale, doti tecniche ed intellettuali. Tutto ciò è stato possibile ed è ancora possibile in obbedienza all’esortazione dei Proverbi: <se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti… se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza…> (Pr 2, 1-3). Benedetto ci rassicura e ci incoraggia per portare avanti un lavoro di intelligenza cha dall’interiorità forma e trasforma il mondo esteriore. Siamo di fronte al miracolo del genio personale messo a servizio della forza di una comunità che non si impone come una tribù che teme il dono personale, ma come luogo in cui ciascuno si scopre non per imporsi, ma per donarsi sempre più pienamente, sempre più umanamente.

Stile

XIV Settimana T.O. –

Lo stile fa la differenza! Questo vale in tutte le realtà della vita e, in particolare, in quelle che sono le relazioni tra persone. Il Signore Gesù affida ai suoi discepoli, finalmente costituiti come <apostoli>, le linee portanti del loro ministero assicurandosi di trasmettere un messaggio fondamentale che si fa fondante di ogni annuncio che sia non solo oggettivamente riconoscibile, ma anche conforme alle intenzioni profonde del Vangelo: forma e contenuto si illuminano e si autenticano reciprocamente. Lo stile evangelico di cui un teologo contemporaneo – Christophe Théobald – ha avuto il coraggio di parlare in modo chiaro si può ricondurre a due elementi fondamentali: il <gratuitamente> (Mt 10, 8) e una certa distanza e distacco. Se la gratuità è abbastanza scontata, non sempre è chiaro l’intento sotteso a quella prescrizione secondo cui: <entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non è degna, la vostra pace ritorni a voi> (10, 12-13).

In questo modo il Signore rammenta ai suoi discepoli di annunciare il Vangelo senza presumere di poter sapere se e come esso sarà accolto da coloro cui viene donato non solo gratuitamente, ma pure con quel distacco misterioso di cui è icona il seminatore che affida alla terra la semente senza poter e volere seguirne il processo di macerazione e di crescita oppure di perdita. La conclusione della prima lettura non può non commuoverci. Giuseppe dopo un lungo tira e molla con i suoi fratelli non solo si rivela loro, ma è capace di rileggere serenamente e veramente tutta la sua vicenda dolorosa: <Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita> (Gn 45, 4-5). Giuseppe si rivela come un uomo che ha saputo imparare dal suo dolore senza lasciarsene indurire e rimanendo capace di una gratuità impossibile e impensabile senza un certo distacco. 

L’esperienza di Giuseppe può essere per noi di grande conforto poiché se le parole del Signore Gesù forse ci impressionano per la loro esigenza, il figlio di Giacobbe ci rassicura del fatto che alla gratuità e al distacco non si arriva tutto d’un colpo, ma attraverso un lungo cammino di spoliazione che, normalmente, più che da vivere attivamente è da accogliere come poveri. Solo così si può vivere nella coscienza di una provvidenza che è tanto più autentica quanto più non si può e non si vuole confondere con la previdenza calcolata. Le prime parole del Signore sul ministero apostolico possono essere assunte come una vera parabola della vita in quanto tale: <Strada facendo…> (Mt 10, 7). Sì, si tratta di rimanere in strada e di rimettersi continuamente in cammino per ricomprendere continuamente il mistero della propria vita e per essere testimoni di un annuncio che guarisce e conforta.

Lacrime

XIV Settimana T.O. –

La raccomandazione del Signore <strada facendo> può diventare un invito che sta al cuore di ogni missione e di ogni annuncio del Vangelo: “facendo strada” che è un modo per dire “facendo vita”. Si tratta così di camminare lasciando cadere nel solco di ogni esistenza, nella sua realtà e nella sua contraddittorietà, l’annuncio che è capace di rimetterci in piedi e di ridare vigore al cammino: <il regno dei cieli è vicino> (Mt 10, 7). Simbolo magnifico dell’attitudine profonda del Signore Gesù che deve diventare quella di tutti i suoi discepoli è Giuseppe che davanti ai suoi fratelli ancora così induriti dalla paura: <andò in disparte e pianse> (Gen 41, 24). I dodici figli di Giacobbe sono come la profezia dei dodici discepoli del Signore ed è subito chiara la fatica ad essere fratelli. Chissà come avranno reagito i dodici discepoli nel sentire non solo il nome, ma quello degli altri la cui vita sarebbe diventata un compito e una quotidiana purificazione.

Il cammino della Chiesa comincia con uno sguardo del Signore Gesù sulla nostra umanità, uno sguardo pieno di compassione e capace di trovare la soluzione più adeguata perché tutti, a partire dalla propria realtà e dal proprio bisogno, possano sentirsi accolti e si sentano confermati in una speranza nuova. Per questo <Gesù diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e infermità> (Mt 10, 1). Se la missione della Chiesa, a servizio della speranza dell’umanità, comincia come servizio di compassione e di guarigione, il cammino del popolo di Israele continua con un salto nella lettura dei testi della Genesi, un salto che sottolinea quanto, nessuna storia, possa essere pensata e concepita come rettilinea. Infatti, ogni relazione tra persone – e persino con Dio – non può essere esente da difficoltà e da momenti anche difficili. Dopo aver contemplato la lotta solitaria di Giacobbe nella notte in cui si ritrova finalmente ad affrontare e ad assumere le sue paure, la liturgia pone sotto i nostri occhi la figura di Giuseppe, il figlio dei sogni, il figlio circondato da un amore di predilezione che diventa fonte di tribolazione.

Forse l’icona di Giuseppe è, per Israele, un modo di comprendere il mistero della propria elezione cui spesso, nella storia, si congiunge l’amara esperienza dell’umiliazione e della persecuzione. La conclusione della prima lettura ci offre un primo piano di Giuseppe assai significativo ed evocativo che può rappresentare una chiave per cogliere, profondamente e veramente, l’attitudine del cuore di Cristo davanti alla nostra umanità spesso tormentata e tormentante. Il pianto di Giuseppe rimanda alla decisione del Signore Gesù di inviare in missione i suoi discepoli proprio con l’intento di saper consolare ogni pianto e lenire ogni ferita. Molte di queste ferite nascono e crescono nella fatica di gestire le inevitabili differenze, unitamente alla fatica di assumere serenamente e umilmente il carattere unico e irripetibile – perciò spesso alquanto incomprensibile – della propria realtà personale e della propria storia. Quando il Vangelo elenca accuratamente <I nomi dei dodici apostoli> (Mt 10, 2) non fa altro che metterci di fronte al mistero della Chiesa come continuazione dello stesso mistero di Israele e dell’umanità intera ove è necessario credere che la salvezza può essere sperimentata solo nella differenza.

Pregate dunque

XIV Settimana T.O. –

Sembra che al Signore Gesù non resti da dire altro che: <Pregate dunque…> (Mt 9, 38). È l’unica risposta adeguata davanti all’estremo e sempre più grande bisogno di <compassione> (9, 36) da cui il Signore si sente sempre più sollecitato fino a sentirsene quasi accerchiato. Non si tratta solo della compassione nei confronti delle <folle> che erano <stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore> ma anche – forse soprattutto – per i farisei che non riescono a lasciarsi toccare dalla compassione perché li ferirebbe troppo e li destabilizzerebbe radicalmente. Con una insistenza malevola sembra che i farisei accerchiano il Signore in modo ben più pesante di quanto faccia la folla: <Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni> (9, 34). Pregare è il primo e il fondamentale modo per purificare il cuore e aprire gli occhi sul mondo in un modo diverso, in un modo radicalmente rinnovato e capace di lasciarsi toccare dalla sofferenza degli altri per imparare a lasciarsi trasformare in meglio dalla propria sofferenza.

L’icona di Giacobbe rimasto <solo> (Gen 32, 25) è stata assunta dalla tradizione come un esempio magnifico e inquietante di ciò che può capitare all’uomo quando incontra Dio al guado della propria esperienza di fallimento e nella calda memoria di una fraternità in qualche modo tradita. Solo allora l’Altissimo può essere incontrato come <un uomo> con cui si può e si deve lottare “da uomo a uomo” per poi scoprire che, in realtà, si tratta di ben altro <ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva> (32, 31). Salva e allo stesso tempo profondamente segnata: <Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca> (32, 32). Pregare è sempre un’esperienza notturna che cambia radicalmente la stessa vita che possiamo vivere nel giorno che non sarà mai come il giorno prima ed è capace di preparare sempre un futuro la cui condizione stessa di esistenza è la capacità di mettere in conto non solo di vincere, ma pure di perdere.

Marie-Dominique Molinié si chiede: <Perché la notte?> e risponde <perché in effetti il faccia-a-faccia di Giacobbe non è quello del cielo; la notte lo proteggeva dalla gloria intollerabile di Dio, come la mano di Dio proteggeva Mosè durante l’esodo. Per questo la lotta di Giacobbe è immagine di tutta la nostra vita che è come una lunga notte che prepara l’aurora della vita eterna>1. Non bisogna certo pensare semplicemente alla vita oltre la morte, ma a tutto ciò che dà alla nostra vita una qualità di eternità a partire dalla capacità di vivere relazioni radicate e per questo durevoli. Il luogo in cui Giacobbe sogna e lotta ha un nome: <Penuel>! La radice rimanda al termine che indica il volto di Dio <panim> che è un termine rigorosamente al plurale. Questo ricorda che non potremo mai vedere il volto di Dio se non avremo occhi per i volti in cui Dio si nasconde e attraverso cui si rivela per permettere a ciascuno di noi di manifestare il grado di compatibilità con i tratti dell’Altissimo che possiamo e dobbiamo saper ritrovare nei nostri fratelli e sorelle in umanità.


1. MARIE-DOMINIQUE MOLINIÉ, Le Combat de Jacob, Cerf, Paris, 2011, pp. 126-127.

Sognare

XIV Settimana T.O. –

Vi è il sonno di Giacobbe e vi è il sonno della ragazza appena morta, vi è pure il sonno di ciascuno di noi quando non siamo più in grado di sperare e di combattere per un di più di vita che sia promessa di un’esistenza più piena, più bella, più vera. La parola di Dio ci ricorda che persino il sonno non è poi lo stesso! C’è un sonno vuoto di sogni e invece c’è un modo di dormire che ritempra le forze del corpo e illumina, in un modo diverso – ma non meno importante ed incisivo – le energie dell’anima. In un momento assai difficile e particolarmente delicato, Giacobbe si abbandono al sonno del corpo e <Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa> (Gen 28, 12). Nel cuore di quel padre che ha appena visto morire sua figlia, la presenza del Signore Gesù è l’incarnazione e la speranza della possibilità di sperare ancora che la scala della vita, che congiunge continuamente la nostra vita alla sua origine divina, possa ancora permettere uno scambio di vita e di speranza. Così pure <una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello> (Mt 9, 20).

Le fatiche e le difficoltà della vita possono isolarci fino a farci percepire la vita come un’impresa fallita, oppure possono rimettere in piedi una comunicazione con la vita divina capace di ridare senso attraverso la restituzione di una speranza. Il fondamento della speranza, come intuisce Giacobbe, nel primo sogno della storia della salvezza, almeno così come è testimoniata dalle Scritture ebraico-cristiane, si basa su una speranza precisa che è quella di una comunione che si fa compagnia. Quando Giacobbe si risveglia dal suo sogno fece questo voto che è una sorta di programma di vita e una griglia di discernimento per comprendere il proprio stato di salute totale: <Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio> (Gen 28, 20-21). A queste parole di Giacobbe fanno eco quelle altrettanto intime e segrete della donna: <Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata> (Mt 9, 21).

Potremmo chiederci lungo questa giornata che cosa nutre e dà consistenza alla nostra speranza di vita. Il gesto che viene compiuto nell’intimità segreta della casa dove giace morta una fanciulla ci ricorda che il segreto della speranza è il tocco del Signore Gesù che può rianimare la nostra sensibilità facendo del nostro sonno un sogno che diventa segno: <egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò> (9, 25). L’evangelista aggiunge che <questa notizia si diffuse in tutta quella regione> (9, 26). Il sogno di uno di noi diventa segno per tutti e forse in quella <regione> che indica ogni situazione in cui gli uomini e le donne riprendono a combattere per la loro speranza, si ricominciò a sognare.

Sodoma

XIV Domenica T.O.

Siamo e saremo sempre pochi di fronte all’abbondanza della messe che è il frutto della divina abbondanza nei cuori. Come i discepoli siamo chiamati a vigilare sul nostro modo di compiacerci dei nostri “successi” a scapito della consapevolezza del fatto che, nei cuori, ogni annuncio è preceduto dalla presenza e dall’amore di Dio che fonda remotamente- e in modo segreto – ogni possibile risposta all’annuncio del Vangelo: <Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!> (Lc 10, 2). Il modo con cui il Signore Gesù ci chiede di annunciare – in forma testimoniale e non monumentale – il Vangelo, è quello  di farlo con passione e distacco. Si tratta di essere agili e liberi, profondamente coinvolti senza essere ossessionati e preoccupati. Al discepolo è chiesto di non giudicare la reazione all’annuncio di cui è umile e sereno portatore: <Se vi sarà un flgio della pace, la vostra pace scenderà su di lui> (10, 6). Al discepolo è chiesto di rimanere discreto e di non presumere troppo nel valutare e nel giudicare.

La croce di cui ci parla Paolo nella seconda lettura è l’unica cattedra che la Chiesa può conoscere ed è quella di una madre che allatta ogni creatura come un figlio, piuttosto che la predella da cui giudicare tutto e tutti. La parola di Paolo <quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo> (Gal 6, 14), si sposa con quella del profeta Isaia: <Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria> (Is 66, 11). A queste due immagini, dominate dalla logica del servizio e del dono, si oppone il riferimento a <Sodoma> (Lc 10, 12), la città evocata dal Signore Gesù per caratterizzare chiaramente ciò che si oppone alla logica del Regno e al mistero della sua crescita nel cuore della nostra umanità. Sodoma può ben indicare una civiltà che si chiude su se stessa. Sodoma è una città bella e sicura, oggi diremmo: moderna e funzionalissima. Lot vi si trasferisce con la sua famiglia nella speranza che le sue figlie possano accasarsi assicurandosi un futuro migliore. Abramo resta invece sotto le tende ed è qui che riceve la visita di Dio e l’annuncio della prossima distruzione delle città.

A Sodoma, come a Gomorra, tutto sembra funzionare bene, ma la ricchezza e il progresso non sono considerati un dono bensì una conquista, per cui è chiaro che il diritto viene negato a chi è straniero, pellegrino e ospite…: tre categorie di persone che possono essere indifferentemente rispettate o abusate. Questo è contrario alla logica del Vangelo che invece chiede al discepolo di farsi accogliere, di lasciarsi benevolmente ospitare senza presumere di avere nessun diritto e senza premunirsi in alcun modo, ma accettando, al contrario, che la sua vita sia interamente esposta: <Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali> (10, 3-4). Tutta l’attenzione e la cura sta nel rivelare come il Signore è più <vicino> (10, 9) di quanto riusciamo ad immaginare, perché egli ci <consola> (Is 66, 13) come una madre fa con un figlio… e noi siamo tutti fratelli, solo fratelli!