Convertire… annunciare

I settimana T.Q.

La parola che il Signore rivolge a Giona diventa un monito per ciascuno di noi: <Alzati, va’ a Ninive, la grande città e annuncia loro quanto ti dico…> (Gio 3, 2). Non bisogna dimenticare che il profeta si mette in cammino verso Ninive dopo aver fatto di tutto per andarsene il più lontano possibile dalla missione che gli veniva affidata. Forse dobbiamo sostare un poco sulla resistenza di Giona a farsi latore di un invito alla conversione che da parte dell’Altissimo è sincero: il Signore pensa veramente che gli abitanti di Ninive si potranno convertire. Questo indispettisce, dall’inizio alla fine del suo percorso resistente all’idea della misericordia, il povero Giona che dovrà dapprima essere inghiottito da una balena e poi vedersi avvizzire la <pianta di ricino> che le faceva non solo ombra ma persino compagnia in quel suo altezzoso tenersi in disparte da tutti con un senso di superiorità e di fastidio. È difficile per Giona digerire la misericordia come atteggiamento e come stile divino che, naturalmente, gli richiede una conversione del suo stesso stile di vita alla misericordia.

Se seguiamo con attenzione il percorso personale di Giona ci rendiamo conto che, in realtà, quest’uomo più che annunciare qualcosa diventa egli stesso annuncio di un’esperienza possibile di fuga e di ritorno: è quella che ogni uomo e ogni donna vive nel suo dramma di relazione con Dio. Per questo il Signore Gesù reagisce in modo aspro alla richiesta di un <segno> (Lc 11, 29) e in questo modo richiama l’attenzione su se stesso come <segno> da saper accogliere in qualità di annuncio e opportunità di conversione. La conclusione ci interpella severamente: <Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona> (11, 32).

La domanda si pone: “In che misura e perché Gesù è più grande di Giona?”. Le risposte possono essere molte e diverse ma ci piace pensare che il Signore Gesù, quale Verbo eterno del Padre venuto a vivere in mezzo a noi come noi, abbia fatto molta più strada di Giona per venirci incontro e di questo talora noi rischiamo di non essere consapevoli. Inoltre, siamo noi, non solo gli abitanti della Ninive infedele del nostro cuore, ma siamo pure apostoli mandati ad annunciare alle “Ninive” dei nostri giorni che il Signore non solo chiede, ma crede nella conversione di tutti e di ciascuno. Pertanto, questo annuncio non è efficace se viene mediato da semplici banditori disincantati, ma esige dei testimoni appassionati. Mentre Giona s’imbarca a Tarsis per non essere complice della misericordia di un Dio troppo buono e per questo alquanto scomodo, il Signore Gesù, si dirige decisamente a Gerusalemme e assume il dolore di appassire sulla croce pur di rivelare come l’amore può tutto e spera tutto. Invece di farsi inghiottire e sputare dalla balena, il Cristo sale sulla croce che diventa l’amo cui il serpente antico abbocca fino ad esserne vinto. Ora tocca a noi di scegliere se fuggire dalla misericordia e immergerci nello stile divino dell’amore fino a lasciarci interamente purificare e cambiare dalla speranza del Padre per tutti i suoi figli che dovrebbe diventare la nostra speranza fraterna: si può sempre cambiare… in meglio!

Convertire… lo spreco

I settimana T.Q.

Vogliamo introdurci nella meditazione dei testi che la Liturgia ci propone per questa ulteriore tappa del nostro cammino quaresimale riprendendo un testo di papa Francesco: <Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal mondo che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”>1. Il Signore ci mette in guardia da un rischio sempre in agguato quando ci mettiamo in atteggiamento di preghiera: <non sprecate parole come i pagani> (Mt 6, 7). Eppure, non basta evitare lo spreco delle parole se la preghiera non forma nei discepoli uno stile in cui la sobrietà si accompagna in modo del tutto naturale e necessario alla solidarietà.

Per questo siamo invitati a ritmare la preghiera prima di tutto con l’invocazione: <Padre nostro…> (6, 9) fino a farci voce di ogni fratello e sorella in umanità che si volge verso il suo Creatore sperando e chiedendo ogni giorno quello che viene definito e invocato come <il nostro pane quotidiano> (6, 11). L’attenzione a non sprecare parole diventa preoccupazione di non sprecare nulla per condividerlo con tutti. Questa condivisione deve avvenire non in forma di semplice elemosina, ma come segno di una coscienza di appartenere tutti alla stessa terra e di dover condividere ogni dono con tutti perché è stato creato per tutti e donato per il bene e la felicità di ciascuno. La preghiera del Signore rappresenta per ogni discepolo la sfida quotidiana di una conversione in cui il posto di Dio nella propria vita è continuamente verificato dallo spazio che sappiamo dare agli altri fino a mettere la nostra vita a loro servizio.

Anzi, la preghiera del Signore ci porta ancora più lontano quando ci fa dire: <rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori> (6, 12). Il fatto che questo passaggio della preghiera sia così essenziale è confermato dal fatto che il tema è ripreso come conclusione e quasi come sigillo autenticante di ogni preghiera che sia riconoscibile come propria dei discepoli di Cristo: <Se voi infatti perdonerete agli altri…> (6, 14). Così il perdono diventa la condizione necessaria alla preghiera e la garanzia che essa faccia la stessa strada – al contrario – della Parola di Dio. Solo così la preghiera potrà salire al cielo in modo efficace e fecondo così che <dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia> (Is 55, 10). Di fatto alla <pentola di fagioli> della ripetizione di formule di preghiera si oppone un atteggiamento di umile ascolto che si fa sensibilità verso i nostri bisogni di cui possiamo serenamente parlare a Dio, ma anche dei bisogni degli altri, primo fra tutti quello di essere perdonati… un modo per dire essere accettati per quello che si è in realtà e nonostante tutte le proprie buone intenzioni e i propri sforzi.

Così la preghiera crea un mondo stupendo in cui ci si può parlare e ci si può ascoltare: questo è il miracolo della preghiera che fa tutt’uno con il miracolo dell’amore.


1. PAPA FRANCESCO, Evangelii gaudium, 53.

Convertire… lo sguardo

I settimana T.Q.

Forse non riflettiamo mai abbastanza su quanto sia importante nella nostra vita quotidiana lo sguardo. Per comprendere meglio questo dovremmo dialogare con una persona ipovedente al fine di comprendere quanto sia importante quello che vediamo continuamente non solo durante le nostre ricche giornate, ma persino di notte mentre sogniamo. Il Signore Gesù, con la parabola che leggiamo nella liturgia, ci chiede di mettere sotto esame il nostro modo di guadare verso gli altri chiedendoci non solo di andare oltre le apparenze, ma, ancor più profondamente, di essere in grado di vedere oltre ciò che si vede e ancora più oltre ciò che l’altro ci mostra di se stesso. Naturalmente questo vale anche per noi stessi nei riguardi degli altri. La parola del Levitico è un invito forte a mettere tutta la nostra esistenza in cammino verso la santità: <Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo> (Lv 19, 2). Nella prima lettura troviamo che le conseguenze di questo impegno a farsi imitatori di Dio tocca la vita in tutti i suoi aspetti, ma soprattutto per quanto riguarda il nostro modo di entrare in relazione con gli altri: <né metterai inciampo davanti al cieco> (19, 14).

Il Signore Gesù rende questo atteggiamento di attenzione, di sensibilità nei confronti di chi è più povero e bisognoso ancora più radicale e lo fa assolutizzando – fino alle sue estreme conseguenze – il regime dell’incarnazione che diventa così uno stile esigente e irrinunciabile di relazione: <In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me> (Mt 25, 40). Questa identificazione tra il Cristo e il piccolo che incontriamo sulla nostra strada, rende le cose più difficili, ma anche più belle. L’amore, con le sue esigenze di attenzione e di decisione nella compassione, non è più programmabile o limitabile alle nostre previsioni, ma è una continua sorpresa che esige la capacità di lasciarsi sorprendere fino a farci radicalmente scomodare da tutte quelle abitudini e atteggiamenti con cui abbiamo, giorno dopo giorno, messo al sicuro la nostra vita dalla prova della verità nell’attenzione a ciò che è più debole e più piccolo.

La parola di accoglienza e di riconoscimento da parte del re più che un premio suona come una constatazione soddisfatta del Maestro che riconosce nei suoi discepoli un cammino veramente compiuto proprio quando sono diventati più sensibili al mistero dell’altro, soprattutto quando non può imporsi in nessun modo: <Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo> (25, 34). La parola con cui l’Altissimo dice <Io sono il Signore> diventa la porta e lo stampo perché noi possiamo, in verità, dire davanti a Lui: “Io sono l’uomo” che tu hai creato.

L’ultima parola della prima lettura <ama il prossimo tuo come te stesso> diventa per il Vangelo ancora più radicale tanto da poter risuonare quasi come <amalo più di te stesso>. In ogni modo sembra che l’unico peccato imperdonabile sarà la cecità nei confronti del fratello quando la vita lo rende <piccolo>. Questo è il primo passo per accogliere la totalità di noi stessi quando siamo obbligati ad accogliere ciò che in noi è più povero e più fragile accettando che lo sguardo degli altri si posi su di noi con amore e autentica compassione.

Convertire… in credo

I Domenica T.Q. 

Ancora una volta la Chiesa con il suo ritmo liturgico ci chiede di riprendere la strada del deserto. Come spiega un monaco benedettino contemporaneo: <Il deserto verso cui lo Spirito sospinge Gesù non ha un nome particolare, non corrisponde comunque a un luogo geografico, è il deserto e basta, vale a dire l’interno di noi stessi. Questo luogo interiore che è una parte anatomica dell’uomo spirituale e che molti ignorano per paura, o per mancanza di esercizio. Perché questa parta della nostra umanità ha di speciale il fatto che si atrofizza se non ci si occupa di essa e, invece, diventa immensa nella misura in cui la si abita>1. Il primo modo per tenere in esercizio il contatto con la nostra interiorità e così poter affrontare ogni giorno il nostro esodo interiore è quello di essere capaci di fare memoria. Stranamente e provvidenzialmente, la Quaresima comincia quest’anno non con la pianificazione delle nostre prestazioni ascetiche, bensì con un grande gesto di gratitudine frutto di una sana e viva memoria del dono di salvezza che abbiamo ricevuto: <Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio…> (Dt 26, 4).

Il primo passo del nostro cammino quaresimale è una sorta di raccolta e di concentrazione sulla memoria di ciò che il Signore ha fatto per noi. La nostra risposta di fede nasce da una coscienza che sta a fondamento della nostra fede: Dio <ascoltò…vide… fece> (26, 7). Si tratta non più di credere in una forza oscura né di un’energia luminosa ma in un Dio che si è totalmente investito con tutta la sua persona che si rivela in relazione alla nostra umanità quasi fisicamente: orecchio, occhio, mano: <Ci condusse in un luogo e ci diede questa terra, dove scorre latte e miele> (26, 9). L’apostolo Paolo ci ricorda con forza che non siamo chiamati a vagare, ma siamo chiamati a scendere dentro il nostro cuore poiché <Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore> (Rm 10, 8).

Le citazioni delle Scritture da parte del Signore Gesù non sono un invito a bacchettare il mondo a forza di riferimenti biblici, ma sono il segno di una sensibilità forgiata alla scuola della Parola per ascoltare la realtà e non lasciarsi mai tentare dalle vie e dai modi più facili. Mentre il tentatore cerca di isolare alcuni elementi della vita assolutizzandoli – pane, potere, prestigio – il Signore Gesù non perde mail il contatto con la totalità della vita che va sempre vissuta in relazione a Dio attraverso una docile capacità di leggere la vita più che immaginarla: <Sta scritto…> (Lc 4, 4). Il Signore Gesù si fa modello per noi del modo di abitare il nostro quotidiano deserto interiore con coraggio e una grande dose di semplicità che permette di attraversare la tentazione senza scomporsi e senza troppo impressionarsi. Nella vita di fede il<come> è importante tanto quando il <perché> e il <che cosa>, e questo discernimento di “modalità” siamo chiamati a farlo nelle profondità del nostro cuore. Dunque, come esorta lo stesso monaco citato sopra: <Prendiamo la Quaresima dalla parte migliore, dalla parte dello Spirito Santo>.


1. F. CASSINGENA-TREVEDY, Sermons aux oiseaux, Ad Solem, Genève 2009, pp. 86-87.

Convertir… en credo

I Dimanche T.Q. –

Une fois encore, par son rythme liturgique, l’Église nous demande de reprendre la route du désert. Comme nous l’explique un moine bénédictin contemporain : «  Le désert vers lequel l’Esprit Saint pousse Jésus, n’a pas de nom particulier, il ne correspond pas à un lieu géographique, c’est le désert tout simplement, c’est-à-dire l’intérieur de nous-mêmes. Ce lieu intérieur qui est une partie anatomique de l’homme spirituel et que beaucoup ignorent par peur ou par manque d’exercice. Car, cette part de notre humanité a comme particularité le fait de s’atrophier si elle ne s’occupe pas d’elle-même, et, au contraire, elle devient immense dans la mesure où elle est habitée » 1. La première façon de s’exercer à entrer en contact avec notre intériorité et ainsi de pouvoir affronter chaque jour notre exode intérieur, consiste à être capable de se souvenir. Etrangement, et providentiellement, le Carême commence cette année, non pas, par la planification de nos prestations ascétiques, mais plutôt par un grand geste de gratitude, fruit d’une saine et vive remémoration du don du salut que nous avons reçu : «  Le prêtre prendra le panier de tes mains et le déposera devant l’autel du Seigneur, ton Dieu… » ( Dt 26, 4 ).

Le premier pas de notre chemin quadragésimal est une sorte de recueil et de concentration sur la mémoire de ce que le Seigneur a fait pour nous. Notre réponse de foi naît d’une prise de conscience de ce fondement de notre foi : «  Dieu  « écouta…vit…fit » ( 26, 7 ). Il ne s’agit plus de croire en une force obscure, ni en une énergie lumineuse, mais en un Dieu qui s’est totalement investi par toute sa personne et qui se révèle en relation avec notre humanité, quasi physiquement : par l’oreille, l’œil, la main : «  Il nous conduisit dans un endroit et nous donna cette terre où coule le lait et le miel » ( 26, 9 ). L’apôtre Paul nous rappelle avec force que nous ne sommes pas appelés à vagabonder, mais nous sommes appelés à descendre au fond de notre coeur, car «  Près de Toi est la Parole, sur ta bouche et dans ton coeur » ( Rm 10, 8).

Les citations des Ecritures de la part du Seigneur Jésus ne sont pas une invitation à sermonner le monde à coup de références bibliques, mais elles sont le signe d’une sensibilité forgée à l’école de la Parole, pour écouter la réalité et ne jamais se laisser tenter par les chemins et les moyens les plus faciles. Alors que le tentateur chercher à isoler certains éléments de la vie en les rendant absolus – le pain, le pouvoir, le prestige – le Seigneur Jésus ne perd jamais le contact avec la totalité de la vie qui est toujours vécue en relation à Dieu par une docile capacité de lire la vie, plus que de l’imaginer : «  Il est écrit… » (Lc 4, 4 ). Le Seigneur Jésus devient pour nous le modèle de la façon d’habiter notre désert intérieur quotidien, avec courage et une grande dose de simplicité qui permet de traverser la tentation  sans perdre contenance et sans être trop impressionnés. Dans la vie de foi, le «  comment » est aussi important que le «  pourquoi » et le «  quoi donc », et, nous sommes appelés à  faire ce discernement de modalité dans les profondeurs de notre coeur. Alors, comme l’exhorte le moine cité ci-dessus : «  Prenons le Carême du bon côté, du côté de l’Esprit Saint ».


1. F. CASSINGENA-TREVEDY, semons aux oiseaux, Ad Solem, Genève 2009, pp 86-87

Convertire… il dito e il piede

Sabato dopo le Ceneri

La prima lettura ci offre, tra altre, due piste di conversione. La prima è quella di rinunciare a <puntare il dito> (Is 58, 9) e la seconda è una sorta di condizione necessaria per camminare nelle vie di Dio: <se non tratterrai il piede dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a me sacro> (58, 13). Vengono di nuovo ribadite le due coordinate fondamentali per un autentico cammino di conversione: il rapporto con Dio che genera un modo di guardare verso gli altri che non ha nulla a che vedere con un dito puntato. Nel Vangelo, il Signore Gesù si rivela veramente capace di vivere queste due dimensioni e lo fa in un modo che mette in grande imbarazzo perché mette in crisi, radicalmente, un sistema di devozione così religioso da rischiare di non essere però realmente fedele al cuore dell’Altissimo. Nella pericope evangelica la prima cosa che ci viene fatta sentire è che il Signore invece di avere un dito puntato è capace di uno sguardo: <Gesù vide un pubblicano…> (Lc 5, 27).

Pertanto, la cosa più forte è che questo incontro di sguardi cambia tutto senza cambiare apparentemente nulla. Quando il Signore Gesù invita Levi a seguirlo lo fa accettando di seguirlo a sua volta <nella sua casa> (5, 29). A differenza di quanto si narra nell’accoglienza riservata da Zaccheo a Gesù, Matteo non fa nessuna pubblica ammenda, ma semplicemente fa entrare il Signore nella sua vita, rendendolo amico dei suoi amici. La casa di Levi diventa l’icona della Chiesa chiamata ad essere il luogo di <un grande banchetto> e non una sala di tortura. Ciò che ammiriamo in questo testo è la distensione che Gesù riesce a donare a Levi invitandolo a diventare suo discepolo senza obbligarlo ad un taglio radicale con la sua vita e i suoi amici, ma accompagnandolo in un cammino di guarigione interiore con la soavità propria di un medico che non solo è capace di fare la diagnosi, ma pure di dare tutto il tempo alla terapia di fare il suo effetto con la calma necessaria.

Per i farisei questo è insopportabile! E mentre trattengono il loro piede dal varcare la soglia della casa di un pubblicano e di un peccatore, non esitano a puntare il dito non solo contro il discepolo ancora in erba, ma pure contro il maestro ai loro occhi solo apprendista più che provetto. Eppure, il Signore non si lascia intimidire: <Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati> (5, 31). Se ogni malato può sperare nella guarigione, ogni sano deve mettere in conto la malattia! Le parole del profeta Isaia ben si addicono al Signore Gesù: <Ti chiameranno riparatore di brecce, e restauratore delle strade perché siano popolate> (Is 58, 12). Concludiamo questo primo tratto del cammino quaresimale con un senso di sollievo e un conforto che ci solleva e ci consola: il tempo penitenziale che vogliamo vivere per preparare ancora le gioie e le sfide pasquali non ci punta il dito contro, ma il dito ci indica la via per ritrovare il meglio di noi stessi e apparecchiarlo per gli altri come fosse un banchetto a lungo desiderato. Quando il Signore ci indica con il dito della sua parola in realtà ci apre sempre una via perché il nostro piede possa ritrovare la strada di casa che, pur rimanendo la stessa, non è più come prima.

Convertire… in intimità

Venerdì dopo le Ceneri

Una parola del profeta Isaia ci porta più lontano nella comprensione delle ragioni profonde di quella che potremmo ben definire una diatriba tra Dio e il suo popolo. Per bocca del profeta Isaia, l’Altissimo smaschera il modo di ragionare errato di quanti sembrano fare tutto per il Signore e, invece, agiscono solo per se stessi: <Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci se tu non lo sai?> (Is 58, 3). La risposta a questa domanda la troviamo nella domanda del Signore Gesù con cui sembra essere rifondato radicalmente il senso stesso di una pratica religiosa universalmente attestata: <Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?> (Mt 9, 15). L’orizzonte sponsale in cui il Signore Gesù chiede di vivere il digiuno va aldilà del digiuno, senza per questo negarne la pratica, ma illuminando la mente e il cuore perché attraverso l’ascesi del cuore si compia il miracolo di un incontro sponsale e gioioso tra la nostra umanità e il desiderio più profondo che portiamo nel cuore.

Alla luce della parola e della pratica del Signore Gesù il digiuno, come forma assolutamente fisica della preghiera e apertura all’incontro con l’Altissimo, non può che darsi che in un atteggiamento di intimità. In tal senso possiamo e dobbiamo rispondere all’interrogazione divina che ci giunge attraverso il profeta: il <digiunare> e il <mortificarci> ha più senso proprio perché non lo si <vede>, ma lo si vive in un rapporto di intimità che esige una forma necessaria di segreto. Se così stanno le cose, allora è chiaro che la domanda posta dai <discepoli di Giovanni> ha la sua gravità soprattutto per una sorta di mancanza di pudore e una indebita ingerenza in una questione di intimità degli altri, che parte da un tradimento della propria personale intimità: <Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?> (9, 14).

Per comprendere la gravitas di questa domanda potremmo riproporla in termini più radicali sperando di non scandalizzare nessuno. È come se si chiedesse ad una coppia di sposi o di innamorati: <Perché noi facciamo l’amore molte volte, mentre i tuoi amici non fanno l’amore?>. Sentiamo tutti quanto inadeguata sarebbe una simile domanda che lederebbe l’intimità e non merita risposte per non scadere sullo stesso piano: <Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno> (9, 15). Il digiuno come ogni pratica ascetica ed ogni impegno per la propria crescita spirituale è qualcosa di cui si può sentire il profumo di bellezza, ma nei cui dettagli sarebbe assolutamente inadeguato addentrarsi. Il profeta Isaia ci consegna una sorta di divisa dell’ascesi espressa da una parola: <piuttosto> (Is 58, 6). In questa parola del profeta possiamo cogliere l’invito ad andare sempre più lontano e ad incamminarci non per i sentieri della soddisfazione spirituale, ma per le vie di un desiderio che cresce e si dilata sempre di più. In realtà digiuniamo semplicemente per avere fame e così riuscire a decifrare meglio di che cosa siamo affamati veramente. Se conosceremo la fame di vita che abita il nostro cuore, allora saremo più capaci di intuire e lasciarci toccare e interrogare dalla fame dei nostri simili resistendo ad ogni forma di controllo, per aprirsi ad un di più di complicità e di compassione.

Convertire… non trascinare

Giovedì dopo le Ceneri

Stiamo ancora compiendo i primissimi passi del nostro cammino quaresimale, ma la Parola di Dio – racchiusa nelle Scritture – sembra non darci tregua e ci chiede di prendere subito posizione. Le parole del Deuteronomio sembrano mettere il dito sulla piaga: <Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti ad altri dèi e a servirli, oggi vi dichiaro che certo perirete> (Dt 30, 17-18). Il Signore Gesù non è da meno quanto a chiarezza e perentorietà: <Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua> (Lc 9, 23). La forza e la radicalità della parola con cui siamo obbligati a misurarci ci mette di fronte all’esigenza improrogabile di prendere su di noi la <croce> della nostra libertà, della nostra consapevolezza, della nostra umanità. Non è raro che giochiamo a nascondino con noi stessi facendo finta di desiderare ciò che, in realtà, non ci interessa affatto o, comunque, troppo poco per mettere in movimento il meglio di noi stessi.

Per riprendere la parola del Deuteronomio potremmo dire che la sfida quotidiana è quella di non <trascinare> la croce di <ogni giorno> ma di portarla con dignità. Il primo modo per non farsi come costipare interiormente è di avere uno sguardo semplice e lucido. La nota di quotidianità sottolineata dal Signore Gesù con l’evocazione di <ogni giorno> è, in realtà, ben più di un’esortazione è, invece, uno stile. Se, infatti, non sappiamo abitare il presente in cui la nostra libertà è sfidata ad essere attiva e responsabile, rischiamo di lasciarci appesantire dalle croci del passato e persino paralizzare da quelle che immaginiamo nel nostro futuro. Nella prima lettura possiamo avvertire una certa urgenza che scaturisce da una profonda passione: <Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio> (Dt 30, 19-20).

Il Signore Gesù ci interroga severamente rimandandoci a noi stessi e, per certi aspetti, spingendoci ad un severo esame di intelligenza senza il quale persino l’esame di coscienza rischia di essere una trappola: <Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?> (Lc 9, 25). Se non sappiamo cosa vogliamo veramente, qualunque cammino di conversione sarebbe impensabile e la fatica rischia di essere inutile tanto che la vita rischia di essere trascinata e non vissuta in pienezza persino quando ci tocca sperimentare la morte. I giorni, che si stendono davanti a noi con l’immensità ammaliante e inquietante di un deserto, ci sono dati come un’occasione propizia per dare ad ogni nostra fatica il tocco di una dignità e quasi di una signorilità che fa la differenza.

Scegliere è il più grande onore che abbiamo e il fatto di non tirarci indietro nella capacità di decidere e nella volontà di essere fedeli sarà il segno che non siamo dei servi, ma siamo dei figli capaci di essere sempre più fratelli. Se matureremo interiormente in questa attitudine, allora la <croce> non solo non ci spaventerà più, ma sarà il segno inequivocabile della nostra libertà, il sigillo della nostra discepolanza non solo desiderata e sventolata come fosse una bandiera, ma compiuta amorevolmente nel solco esigente e magnifico della nostra quotidianità sempre più da amare, e non trascinare.

Convertire… senza parole

Mercoledì delle Ceneri

Ogni anno, il cammino quaresimale ci chiede di metterci silenziosamente e serenamente in fila per ricevere sul capo un pugnetto di cenere e sentirci ripetere con austera solennità: <Convertitevi e credete al Vangelo>. La liturgia non ci chiede di rispondere nulla e di non aggiungere neanche un <Amen> rituale a questa parola. Sembra che la nostra risposta debba essere silenziosa e il nostro silenzio sia il modo più promettente per lasciarci interpellare senza fare promesse, ma semplicemente mettendoci in cammino aspettando che la risposta sia data dalla strada che sapremo percorrere in verità. La parola del Signore ci aiuta a radicare il nostro cammino di conversione nelle esigenze proprie del Vangelo che sembrano fare tutt’uno con la nostra vita intima e con la nostra umana compagnia. La preghiera deve essere segreta; l’elemosina non può che essere un segreto tra noi e il fratello più povero; il digiuno e la rinuncia non possono che toccare l’intimità del nostro corpo avvertito come luogo di relazione, di amore, di crescita. Tutto è ritmato da un ritornello: <e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 4). Questo ritornello è come l’intonazione inconfondibile di ogni Quaresima per diventare il ritmo segreto e intimo della nostra stessa vita di discepoli.

Il tempo della Quaresima è un tempo propizio, l’apostolo lo dichiara <un momento favorevole> (2Cor 6, 2). Il cammino di preghiera, di carità, di attenzione è come una possibilità che doniamo a noi stessi per essere in verità ciò che sentiamo di essere profondamente. Il profeta Gioele si fa interprete della passione di Dio per noi che aspetta, da ciascuno di noi, una risposta e ci ricorda come e quanto <Il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo> (Gl 2, 18). Così il <corno> (2, 15) di guerra diventa l’invito a lottare contro tutto ciò che in noi e attorno a noi può oscurare il volto di Dio <misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore> (2, 13) stando attenti a non <suonare la tromba> (Mt 6, 2) della vanagloria. La cenere che profuma il nostro capo non è solo memoria della nostra mortalità e del nostro limite, è anche memoria della passione di Dio per noi che lo rende capace di ridurre a nulla – in cenere! – tutte le nostre colpe e i nostri errori. Come spiega padre Delfieux: <all’inizio della Quaresima non ci viene solo ricordato che siamo vasi fragili, caduchi e mortali>. Se il nostro venire dalla terra e ritornare alla terra è la verità prima non è né l’ultima né, tantomeno la principale, poiché <in questo vaso di argilla il Signore ha posto il tesoro della sua stessa vita>1.

Un passo ci viene chiesto per primo: metterci in fila e accogliere sulla nostra testa il segno di ciò che siamo, da cui veniamo e verso cui andiamo. Eppure, in questo silenzio potremo sentire uno sguardo su di noi ed è uno sguardo di fuoco capace di ridurre in cenere tutte le nostre paure facendoci sentire peccatori… perdonati e amati. Per sentire questo dobbiamo esporci fino a consegnarci al Padre mettendoci alla sequela del Signore Gesù che sale a Gerusalemme senza temere di scendere verso l’umiliazione. Forse nel silenzio assordante del Golgota la frase che ci viene oggi consegnata ha sostenuto la speranza del Crocifisso nel momento del più grande digiuno, il digiuno da se stessi: <ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 18).


1. P. M. DELFIEUX, Évangéliques, Parole et Silence, Les Plans 2013, p. 32.

Già ora

VIII settimana

Il disagio dei discepoli davanti alla fuga di quel tale così amato dal Signore da sentirsi troppo amato da preferire di continuare il suo cammino lontano da Lui raggiunge livelli di guardia significativi: <Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito> (Mc 10, 28). Il Signore Gesù non contraddice Pietro che si fa portavoce non solo degli apostoli, ma dei discepoli di ogni tempo, e nondimeno lo porta oltre la coscienza della rinuncia per coglierne più profondamente il senso. Questo passo viene fatto dal Signore con i sette riferimenti precisi che concretizzano quel generico <tutto> evocato da Pietro e diventa concretamente: <casa, fratelli o sorelle, o madre o padre o figli o campi> (10, 29). Eppure, la rinuncia a tutto che viene confermata dal Signore deve essere continuamente come ulteriormente verificata per non cadere nella stessa disperazione di quel tale e questo può avvenire solo a ripartire dalle motivazioni profonde: <per causa mia e per causa del Vangelo>! Se la rinuncia è una rinuncia cristologica ed evangelica, allora è già una piena ricompensa che non ammette né ritardi, né rimandi: <che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto… insieme a persecuzioni e la vita eterna nel mondo che verrà> (10, 30). Stranamente e significativamente manca all’appello il <padre>!

Come spiega Bernardo di Chiaravalle: <Non ti rimanda all’ultimo giorno, quando tutto ti sarà dato realmente e non più nella speranza; egli parla del presente. Certo, grande sarà la nostra gioia, infinita la nostra esultanza, quando comincerà la vita vera. Ma già la speranza di una tale gioia non può essere senza gioia. Nell’animo di chi ha seminato per la giustizia, questa gioia è prodotta dalla convinzione che i suoi peccati sono perdonati. Chiunque tra voi, dopo gli inizi amari della conversione, ha la fortuna di vedersi alleggerito dalla speranza dei beni che attende, raccoglie fin d’ora il frutto delle sue lacrime. Il Signore Gesù si mostra molto buono verso chi riceve da lui non soltanto la remissione delle sue colpe, ma anche il dono della santità e, meglio ancora, la promessa della vita eterna. Beato chi ha già raccolto una così bella messe>1.

L’esortazione del Siracide assume così tutta la sua forza e la sua straordinaria ricchezza: <Non presentarti a mani vuote davanti al Signore> (Sir 35, 6) e ancora <In ogni offerta mostra lieto il tuo volto, con gioia consacra la tua decima> (35, 11). Tutto ciò nel Vangelo diventa offerta di se stessi in pienezza assumendo quella logica pasquale che non ammette più nessun calcolo se non quello della pienezza che si identifica con l’assoluta perdita: <Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi> (Mc 10, 31) Tutti ciò avviene per un motivo tanto semplice quanto rivoluzionario: <perché il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone> (Sir 35, 14). Come pure non c’è differenza di tempi e già ora è donata la pienezza del Regno se ne assumiamo la logica con cuore e <occhio contento> (Sir 35, 10) e questo <già ora> (Mc 10, 30).


1. BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico dei Cantici, 37.