Misericordia

VIII settimana

Il Siracide sembra voler sostenere la nostra speranza senza in alcun modo dare adito all’illusione o alla superficialità: <Quanto è grande la misericordia del Signore, il suo perdono per quanti si convertono a lui!> (Sir 17, 29). In una sola e densa frase, siamo messi di fronte all’abisso infinito della misericordia di Dio in cui possiamo quasi annullare il piccolo abisso del nostro peccato normalmente frutto di dimenticanza o di sovra estimazione di noi stessi. Se, infatti, il Siracide ci conforta con la rassicurazione che la misericordia del Signore è così grande, al contempo ci ricorda che tutta la vita ci è donata come una possibilità e una sfida di continua conversione: <Non perseverare nell’errore…> (17, 26). Alla luce delle calde esortazioni della prima lettura possiamo, forse, comprendere meglio quale sia l’errore di questo tale che si avvicina a Gesù con così nobili intenzioni e si allontana da Lui <scuro in volto> e profondamente <rattristato> (Mc 10, 22). Se leggiamo con attenzione il testo ed entriamo nel dialogo tra il Maestro e questo potenziale,  ma mancato discepolo, possiamo dire che a questo tale mancò il coraggio della misericordia verso se stesso che gli impedì di chiedere misericordia piuttosto che esibire la sua rettitudine praticata con zelo fin dalla <giovinezza> (10, 20).

Clemente d’Alessandria si interroga sulla situazione interiore di questo tale cercando di andare un po’ oltre la sua pretesa: <Perché quel giovane che compiva i comandamenti della Legge così fedelmente fin dalla giovinezza si sarebbe gettato ai piedi di un altro uomo per chiedere l’immortalità? Quell’uomo osservava tutta la Legge e l’aveva praticata fin da piccolo. Ma avverte che, se non manca nulla alla sua virtù, manca ancora qualcosa alla sua vita. Ecco perché viene a domandarla a colui che solo può dargliela; è sicuro di essere a posto con la Legge, tuttavia implora il Figlio di Dio. Gli ormeggi della Legge non lo difendono dal rullio; insicuro, lascia l’ancoraggio pericoloso e viene a gettare l’ancora nel porto del Salvatore. Gesù non gli rimprovera di aver mancato alla Legge, ma si mette ad amarlo, commosso dall’impegno del buon discepolo. Tuttavia, lo definisce ancora imperfetto: è buon operaio della Legge, ma senza lo slancio per la vita eterna. La santa Legge è come un pedagogo che conduce verso i perfetti comandamenti di Gesù e verso la sua grazia>1.

Potremmo analizzare il nostro desiderio di essere discepoli specchiandoci, riga dopo riga, nella riflessione di Clemente d’Alessandria cercando di capire onestamente quale sia la nostra situazione reale e che cosa veramente ci manca come pure che cosa veramente desideriamo. Le parole del salmo responsoriale sono capaci di farci fare un passo in più rivelandoci come la beatitudine e la pace del cuore non potranno mai essere il frutto essenziale dei nostri sforzi –pur necessari – ma l’esperienza ardente di una grazia ricevuta e accolta a piene mani e a pieno cuore: <Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e perdonato il peccato> (Sal 31, 1). E il più grave peccato è di presumere di non avere bisogno che di misericordia. I cinque verbi con cui il Signore Gesù concretizza la proposta di risposta al suo amore rivelano in questo tale la paura di amare e di lasciarsi amare. Al piccolo pentateuco della sequela: <va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri… e vieni! Seguimi!> (10, 21) corrisponde una triste fuga al posto di un ardente e appassionato abbraccio. E l’amore non insegue mai, ma sa trasformarsi in misericordia e assoluto rispetto senza risentimento alcuno: <Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio> (10, 27).


1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Quale ricco potrà salvarsi?

Una parola che dica

VIII Domenica T.O. 

Possiamo cogliere e accogliere l’invito dell’apostolo: <fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore> (1Cor 15, 58). Certamente anche a ciascuno di noi piacerebbe poter dire con Giobbe: <Io ero gli occhi per il cieco> (Gb 29, 15). Ma la Parola di Dio subito ci mette in guardia da parole o gesti più grandi di noi o, più precisamente, non corrispondenti alle nostre vere possibilità e capacità: <Può forse un cieco guidare un altro cieco?> (Lc 6, 39). Il Signore Gesù ci allerta riguardo a certe frasi pronunciate con la tipica untuosità sotto cui, di solito, si cela una <buca> (Lc 6, 39): il tranello di un buco vuoto al posto di un cuore sovrabbondante.

La frase untuosa suona così: <Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio> (Lc 6, 42). Frase innocua – persino cortese! – ma che rischia di compromettere radicalmente la carità e la misericordia in quanto non ci si pone accanto all’altro ma si assume l’atteggiamento di chi vede di più, sa di più, pensa di poter fare e offrire di meglio. E il Signore Gesù ci ammonisce: <Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: “Noi vediamo!” Il vostro peccato rimane> (Gv 9, 41).

La Parola di Dio ci invita alla sapienza che, secondo quanto ci viene indicato nella prima lettura, esige una distanza e un certo tempo: il tempo necessario a filtrare attraverso il vaglio e la necessaria distanza per provare attraverso il fuoco; la calma attenzione indispensabile per verificare – attraverso il dispiegarsi della conversazione – la verità e la consistenza di un uomo attraverso la qualità e la densità della sua parola.

L’immagine dell’albero e dei suoi frutti, che pure ritorna nel Vangelo, rafforza ancora di più questo invito alla pazienza del discernimento che non si fida di quello che vede – le tante foglie che rendono un albero attraente – ma che sa sedersi in attesa che il frutto – bello e buono – ne indichi non solo l’attrattiva, ma la capacità di <dare frutto a suo tempo> (Mt 21, 41). In tal modo si rivelerà la vera natura dell’albero permettendo così finalmente di comprendere il mistero della radice, il mistero di un cuore che custodisce qualcosa di più grande di noi – il tesoro della presenza di Dio – oppure una collezione di pagliuzze raccattate qua e là e gelosamente custodite per consolarci e lasciarci immobili come una <trave> che fu albero ma non lo è più!

Quale l’opera che il Signore si attende da noi? Quale frutto il Signore viene a cercare sotto l’albero che siamo chiamati a diventare nonostante forse sembriamo più un rovo ingarbugliato che un albero in crescita? Sembra darci una risposta Ben Sirach: <il frutto mostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il mistero dell’uomo> (Sir 27, 6): una parola che non punga come le spine ma sia dolce come il fico; una parola che non laceri come il rovo ma fortifichi come il frutto di una buona vendemmia.

Une parole qui dit

VIII Dimanche T.O. –

Nous pouvons recueillir et accueillir l’invitation de l’apôtre : «  Ainsi donc, mes frères bien-aimés, montrez-vous fermes, inébranlables, toujours en progrès dans l’œuvre du Seigneur » ( 1 Co 15, 58 ). Cela plairait certainement à chacun d’entre nous de pouvoir dire avec Job : « j’étais les yeux de l’aveugle » ( Jb 9, 15 ). Mais, rapidement, la Parole de Dieu nous met en garde des paroles et des gestes plus grands que nous, ou, plus précisément, qui ne correspondent pas à nos véritables possibilités et capacités : «  Un aveugle peut-il guider un autre aveugle ? « ( Lc 6, 39 ). Le Seigneur Jésus nous alerte par rapport à certaines phrases prononcées avec cette onctuosité typique sous laquelle se cache souvent un « trou » ( Lc 6, 39 ) : le piège d’un trou vide à la place d’un coeur surabondant.

La phrase onctueuse résonne ainsi : « Permets-moi d’enlever la paille qui est dans ton oeil » ( Lc 6, 42 ). Phrase inoffensive – voire courtoise ! – mais qui risque de compromettre radicalement la charité et la miséricorde  dans le sens où elle ne se positionne pas du côté de l’autre, mais elle assume l’attachement de celui qui voit mieux et qui pense pouvoir faire et offrir  davantage. Et le Seigneur Jésus nous prévient : « Si vous étiez des aveugles, vous seriez sans pécher ; mais vous dites : Nous voyons ! Votre péché demeure » ( Jn 9, 41 ).

La Parole de Dieu nous invite à la sagesse, et, d’après ce qui nous est indiqué dans la première lecture, elle exige une distance et un certain temps : le temps nécessaire pour être filtrée à travers la projection et la distance du test par le feu ; une paisible attention indispensable pour vérifier – à travers le déroulement de la conversation – la vérité et la consistance d’un homme par sa qualité et la densité de sa parole.

L’image de l’arbre et de ses fruits, qui revient aussi dans l’Evangile, renforce encore d’avantage cette invitation à la patience du discernement qui ne se fie pas à ce que l’on voit – les nombreuses feuilles qui rendent un arbre attrayant – mais qui sait s’asseoir en attendant que le fruit – beau et bon – indique, non seulement l’attraction, mais la capacité de «  donner du fruit en son temps » ( Mt 21, 41 ). C’est ainsi que se révélera la vraie nature de l’arbre, permettant ainsi de comprendre, finalement, le mystère de la racine, le mystère d’un coeur qui protège quelque chose de plus grand que nous – le trésor de la présence de Dieu – ou une collection de fétus de paille récoltée ça et là et gardé jalousement pour nous consoler et rester immobile comme une «  poutre » qui fut un arbre, mais qui ne l’est plus !

Quelle est l’oeuvre que le Seigneur attend de nous ? Quel fruit le Seigneur cherche-t-il sous l’arbre que nous sommes appelés à devenir alors que nous ressemblons plus à un buisson entremêlé qu’à un arbre en croissance ? Ben Sira le Sage semble nous donner une réponse : «  le fruit montre comment est cultivé l’arbre, ainsi la parole révèle le mystère de l’homme » ( Si 27, 6 ) : une parole qui ne pique pas comme les épines, mais qui est douce comme le figuier, une parole qui ne lacère pas comme le buisson, mais qui fortifie comme le fruit d’une bonne vendange.

Come

VII settimana

<Diventare come dei bambini significa accettare di perdere terreno. Non si entra nella luce di Dio senza fare naufragio. Bisogna accostarsi al mistero del Regno di Dio con una mente completamente liberata di chi non ha idee preconcette e nessun programma prestabilito>1. Tutto ciò non può che essere insopportabile per i “saggi” di questo mondo e, ancor meno pensabile, per gli emancipati. Per un bambino, invece, e per chi ha un cuore ritornato alla semplicità, non c’è niente di più bello che lasciarsi andare verso ciò che non è conosciuto, a motivo, di una interiore disposizione alla meraviglia per ciò che sfugge alla comprensione immediata: inedito che apre, invece, ad orizzonti sempre inattesi. Ogni volta che ci troviamo dinanzi ad un piccolo è come se il nostro cuore tornasse, in mode del tutto naturale, all’esultanza delle origini quando <Il Signore creò l’uomo dalla terra> (Sap 17, 1) e ci <rivestì di una forza pari alla sua> tanto da farci <a sua immagine> (17, 3).

Nondimeno, la memoria dei doni della creazione è sempre congiunta al dovere irrinunciabile dell’attenzione e della cura soprattutto verso coloro che non possono prendersi cura di se stessi. La prima lettura è come se traesse le conseguenze della contemplazione meravigliata del dono della creazione da questa amorevole attenzione sorgiva, tanto da sentire il bisogno di passare all’esortazione: <Guardatevi da ogni ingiustizia!>; un’esortazione che diventa, fattivamente, un invito chiaro a <prendersi cura del prossimo> (17, 14). Nel Vangelo troviamo come, il Signore Gesù, non esita ad entrare in conflitto aperto persino con i suoi discepoli quando c’è in gioco proprio questa disponibilità e lasciarsi meravigliare e interrogare dal mistero della vita nel momento in cui essa si presenta nella sua forma più originale e fragile, proprio come nella realtà di quei <bambini> (Mc 10, 13) che gli vengono presentati perché possano entrare in contatto con la sua persona e sentire il beneficio del tocco della sua persona.

Se i discepoli si sentono infastiditi dalla presenza di questi piccoli e dal desiderio delle loro madri di farli entrare in contatto con il Maestro, il Signore Gesù, al contrario, si schiera completamente dalla loro parte tanto che <s’indignò> e non lesinò di opporsi: <Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio> (10, 14). Il messaggio non è solo quello di un’accoglienza dei piccoli, ma è soprattutto un segnale voluto per i discepoli, chiamati a misurarsi proprio con questi bambini per discernere l’autenticità della loro sequela. Il <come> evocato dal Signore Gesù si staglia come una sorta di necessario banco di prova per ogni discepolo chiamato a verificare le motivazioni autentiche che lo mettono alla sequela di Cristo. Come ricordava Giovanni Crisostomo un bambino preferirà sempre la sua mamma persino ad una regina vestita magnificamente e ricoperta di gioielli dalla testa ai piedi. La domanda è per noi: <e noi cosa preferiamo, il semplice contatto con Gesù e la familiarità con Lui o ciò che questo può assicurarci in termini di privilegi?>. Così pure possiamo risentire le parole di Teresa di Lisieux: <Ah, mai parole più tenere, più armoniose hanno allietato l’anima mia, l’ascensore che deve innalzarmi fino al Cielo sono le vostre braccia, Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, al contrario bisogna che resti piccola, che lo divenga sempre più. Dio mio, avete superato la mia speranza, ed io voglio cantare le vostre misericordie>2.


1. M. D. MOLINIÉ, Le combat de Jacob, Cerf, Paris 1967, pp. 116

1. TERESA DI LISIEUX, Scritto autobiografico, C.

Vita

VII settimana

Il riferimento all’amicizia che troviamo nella prima lettura ci può ben aiutare ad orientare e a cogliere, in tutta la sua verità, la parola del Signore Gesù che nel Vangelo dice: <Un amico fedele è rifugio sicuro> (Sir 6, 14). Se di un amico si possono dire cose così belle e grandi, si spera si possa fare altrettanto per ogni legame e, in modo particolare, per quelle relazioni che sono state sancite con una solenne promessa di alleanza per sostenersi nel cammino della vita. La parola del Signore con la quale Gesù intende reagire alla provocazione dei farisei che cercano, ancora una volta, di screditarlo e di <metterlo alla prova> (Mc 10, 2), riguarda anche noi: <Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma> (10, 5). Le letture della liturgia sembrano respirare un’aria assai diversa. Mentre nella prima lettura, il Siracide ci fa sentire, in tutta la sua fragranza il profumo dell’amicizia, tanto da definirla non solo come un <tesoro> (Sir 6, 14), ma persino come una vera e propria <medicina> (6, 16), i farisei sembrano animati da un sospetto continuo su tutto ciò che riguarda le relazioni e le alleanze tra persone che cercano – nei limiti delle loro possibilità – di sostenersi nel cammino della vita.

La preoccupazione ossessiva di definire accuratamente e continuamente i limiti della giustizia e della legalità, rischia di far perdere la capacità di guardare alle reali situazioni della vita e di cercare, umilmente e in modo compassionevole, non solo le ragioni e i torti, ma le vie per ricreare continuamente le condizioni e rilanciare così la fiducia ricreando, prima della giustizia, la “giustezza” in tutte le relazioni di cui è costellata, necessariamente, la vita di tutti: <Una bocca amabile moltiplica gli amici, una lingua affabile le buone relazioni> (Sir 6, 5). Siamo chiamati, dunque, ad andare ancora più nel profondo fino a comprendere che la “giustezza” nella relazione con Dio è ciò che crea la giusta relazione con gli altri e soprattutto con quanti, non solo condividono il nostro cammino di vita, ma con i quali abbiamo stretto un’alleanza per la vita.

La parola di oggi ci chiede di gettare uno sguardo su quelle che sono le nostre relazioni più significative – l’amicizia e gli impegni presi – per cercare di comprendere quanto esse siano continuamente ravvivate e illuminate dalla nostra relazione con Dio, soprattutto nel mistero vivificante e rafforzante della preghiera. Sta a noi scegliere, ogni giorno, se metterci nella linea dei farisei che si pongono come guardiani della legalità, cercando e trovando sempre il modo per garantire i propri interessi e i propri privilegi, oppure ricreare, ogni giorno, le condizioni necessarie non solo per mantenere ma anche per far crescere e maturare le nostre relazioni a tutti i livelli. Il Siracide ci ricorda che <Chi teme il Signore sa scegliere gli amici: come è lui, tali saranno i suoi amici> (6, 17). Questa medesima logica può essere applicata anche alle relazioni più intime come quella che si vive nell’alleanza di vita tra un uomo e una donna: come è lui, tale sarà chi vive con lui! Questo apre il cuore ad un rispetto assoluto delle diverse e talora così dolorose situazioni che si creano nella vita, e al contempo ci riporta al dovere, assolutamente personale, di prenderci cura della nostra crescita e maturazione per essere, al massimo delle nostre reali possibilità, soggetti di relazioni sane che danno <vita> (Sir 6, 16) fino a dare la vita!

Quanto basta

VII settimana

L’immagine del <sale> con cui si conclude il vangelo di quest’oggi è posta in relazione, attraverso uno dei detti più belli del Signore Gesù, con il fatto di essere <in pace gli uni con gli altri> (Mc 9, 50). Potremmo così dire che il sale della pace è necessario alla vita come il condimento è indispensabile per assicurare un buon gusto agli alimenti. Chiunque faccia anche un minimo di cucina, sa che non esiste una misura quantificabile in modo preciso, netto e uguale del sale da aggiungere alle varie pietanze. Normalmente, nell’aggiunta del sale, vi è sempre una dose di giusta arbitrarietà e di necessaria intuitività. Così pure è per la pace che deve regnare e, quotidianamente, essere costruita e ricostruita nelle nostre relazioni fraterne per le quali non ci sono misure e modalità predefinite e scontate, ma è necessario un continuo lavoro di intelligenza e di rischio. Se il desiderio e l’anelito è chiaro, se l’orientamento è netto, non è così facile discernere i modi e gli strumenti per costruire e assicurare la pace gli uni con gli altri… eppure questa pace non si può mai smettere né di desiderarla né, tantomeno, di cercarla, continuamente, con creatività, immaginazione e rischio.

Il libro del Siracide ci offre comunque una sorta di indizio che può diventare una luce per il cammino, indizio che si concretizza in un’esortazione: <Non confidare nelle tue ricchezze e non dire: “Basto a me stesso”> (Sir 5, 1). Il salmo responsoriale rafforza il proverbio con un’immagine: l’<albero piantato lungo corsi d’acqua> (Sal 1, 3). Per quanto rigoglioso, un albero non può in nessuno modo dire <basto a me stesso>! La sua bellezza e fecondità, infatti, dipendono dalla terra, dall’acqua, dal sole. Esso è il frutto di questa continua sinergia che sarebbe impossibile senza una reale apertura e accoglienza di ciò che si deve ricevere e che comporta, a sua volta, una disponibilità a dare. In tal modo il segreto della pace sembra essere la coscienza della propria povertà e della necessaria interdipendenza.

A questo fa riferimento il Signore Gesù quando caratterizza il discepolo proprio a partire dal suo bisogno di ricevere. prima che considerare la sua missione a dare: <Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa> (Mc 9, 41). Nessuno può né deve bastare a se stesso, se non nella misura di una crescente capacità di dare se stesso, senza mai rinchiudersi nei propri piccoli interessi. Questo è evidente, eppure bisogna riconoscere che il Signore Gesù ci porta un po’ più lontano e, come sempre, un po’ più in profondità; infatti, il Signore ci ricorda che la nostra resistenza nel dare è, fondamentalmente, il segno e il frutto di una intrinseca paura dell’uomo a dover riconoscere di avere bisogno degli altri. Il costruire la pace comincia sempre con il grande passo del mettere il primo mattone della consapevolezza, ovvero, il riconoscimento saggio, prima che umile, di non bastare a se stessi e di avere bisogno gli uni degli altri, offrendoci, reciprocamente, l’occasione di rivelare quanto stiamo diventando più umani. La misura di questo discernimento sembra essere minima e fattibilissima: <un bicchiere d’acqua> (Mc 9, 41) meglio se <fresca> (Mt 10, 42). 

Gioia

VII settimana

Tre soli versetti, per esprimere tutta la fatica di essere discepoli senza mai diventare – più o meno consapevolmente – dei “portaborse” interessati a servire il proprio padrone per trarne qualche vantaggio per la propria posizione. Giovanni si fa interprete, non solo del disagio che serpeggia nel gruppo dei discepoli, ma pure – suo malgrado – di quel sentimento di superiorità che deve essere rivelato perché rischia di ammalare il cuore di quanti, pur essendo piccoli d’animo, hanno la fortuna di vivere accanto a persone dal cuore grande: <Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva> (Mc 9, 38). Giovanni, candidamente, rivela la malattia che già ha attentato il suo cuore, un cuore di discepolo che, in realtà, si mette al posto del Maestro benché il titolo sia riservato, apparentemente, solo a Gesù: <non ci seguiva>! Da parte sua il Signore Gesù non esita ad agire con la sapienza del medico e, ben prima che accada, cerca di ribaltare il modo di leggere la realtà con un’espressione di rara efficacia – <chi non è contro di noi è per noi> (9, 40) – premurandosi così di distinguere accuratamente la sua persona da quella del gruppo dei discepoli: <non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me> (9, 39).

Ciò che tradisce il discepolo Giovanni – e ciò che spesso tradisce anche noi come discepoli – è quel sottile senso di amarezza nei confronti degli altri quando non sono riconducibili ai nostri schemi e ai nostri parametri. Ciò che illumina ancora una volta il volto di Cristo è questa sua capacità di non sentire mai la concorrenza del bene che ci può essere negli altri, ma di essere in grado di riconoscerlo, di ammirarlo, di additarlo con quella serenità e quella gioia che rendono la vita più semplice e più bella. La prima lettura ci offre un criterio di discernimento per misurare e rettificare il nostro modo di entrare in contatto con la realtà che sta dentro di noi e che si muove attorno a noi: <Chi ama la sapienza ama la vita, chi la cerca di buon mattino sarà ricolmo di gioia> (Sir 4, 12). La gioia è sempre il segno distintivo di una libertà interiore che ci permette di guardare agli altri con un senso di meraviglia, e con un rispetto tale che arriva persino a lasciare che l’altro sia, non solo diverso da noi, ma persino che ci sia contro: <Se egli invece batte una falsa strada, lo lascerà andare e lo consegnerà alla sua rovina> (Sir 4, 19).

Il salmista non fa che confermare quest’atmosfera di serenità. Essa ha bisogno di una buona dose di distacco: <Grande pace per chi ama la tua legge: nel suo cammino non trova inciampo> (Sal 118, 165). La parola e i gesti del Signore Gesù ci chiedono di essere discepoli sereni e gioiosi, per nulla preoccupati di garantirci una sorta di controllo totale sui doni che ci vengono dal nostro Maestro e che non sono nostri, ma che appartengono veramente a tutti, persino quando noi rischiamo di pensare o di augurarci il contrario. Sentiamo e accogliamo l’invito del Signore a resistere alla tentazione del sospetto per vivere nella gioia di chi abita all’altezza del proprio cuore, credendo che gli altri facciano altrettanto.

Il tempo della prova

VII settimana

Senza troppi preamboli e senza eccessiva delicatezza il Siracide dichiara nettamente: <Figlio, se ti presenti per servire il Signore, resta saldo nella giustizia e nel timore, preparati alla tentazione> (Sir 2, 1). Ed è solo dopo questo preambolo che il testo – quasi accertatosi di aver posto il fondamento sicuro su cui costruire senza pericolo alcuno – il suo discorso continua aprendo il cuore del lettore perché si renda sensibile e conscio di quella <misericordia> (2, 7) su cui si può confidare senza nessun timore di rimanere <deluso> (Sir 2, 10). Eppure, il superamento del pericolo di cadere nella delusione è direttamente proporzionale alla capacità di attraversare la prova e di resistere alla tentazione di fare di testa propria: <non ti smarrire nel tempo della prova> (Sir 2, 2). Troppo facilmente, a questo termine <prova> affianchiamo le cosiddette tentazioni carnali – che pure ci sono – ma che tuttavia, stando al vangelo di quest’oggi, dobbiamo sempre ricordare che, per il Signore Gesù, la vera seduzione e la vera prova sono legate alla grande tentazione che non è quella “della carne”, bensì quella del potere.

La domanda che il Signore Gesù rivolge ai suoi discepoli – <Di che cosa stavate discutendo lungo la via?> (Mc 9, 33) – indica molto bene quanto il Signore avesse colto, non solo la loro incomprensione della Pasqua – <viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno…> (Mc 9, 31) – ma pure la loro grande tentazione, che è quella di approfittare della sequela del Messia per coronare qualche segreto sogno altrimenti impossibile: <Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande> (Mc 9, 34). Dobbiamo riconoscere che in seno alla comunità dei discepoli – tra di noi! – questa discussione non è ancora terminata, ma cova sempre sotto la cenere. Il segno che il nostro cuore, i nostri pensieri e le nostre energie, siano assorbiti da questo terribile interesse, sta nel fatto che ce ne vergogniamo profondamente, come i discepoli che, appunto per la vergogna, <tacevano> (Mc 9, 34). Per lo stesso motivo pure noi continuiamo a tacere o facciamo finta di parlare di altro.

Il Signore Gesù invece non tace, ma s-maschera, per guarire i suoi discepoli da questo demonio che, a differenza dei tanti scacciati da Gesù, si aggira ancora nel loro cuore, nella barca della Chiesa, nelle comunità e nelle famiglie: “Chi è il più grande?”. Ecco la grande prova che è tanto più forte e terribile quanto più rimane celata e innominata. Per questo il Signore Gesù <preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e abbracciandolo disse loro…> (Mc 9, 36). Se si chiede ad un bambino: “Chi è il bambino più bello del mondo?”. Candidamente risponderà “Io!”. Se poi gli si chiederà: “Chi è l’uomo più forte del mondo?”. Non avrà nessun dubbio: “Il mio papà”. Per superare la grande prova dobbiamo essere in grado prima di tutto di non dissimulare, ma confessare il nostro desiderio e bisogno di potere… per poter alfine guarire accogliendo l’invito del Siracide: <Stai unito a lui senza separartene> (Sir 2, 3), proprio come fa un bambino con il suo papà che è “il più forte”. Sarebbe già un piccolo passo verso la libertà da noi stessi, la quale comincia sempre con il passo della libertà di essere se stessi.

Credere oltre

VII settimana

In Vaticano si può ammirare – con una certa commozione – la bellissima tela di Raffaello raffigurante la Trasfigurazione del Signore. È da notare, in questo capolavoro, la differenza dalla tipologia iconica della tradizione orientale. Infatti, l’artista pone il monte Tabor – su cui il Signore Gesù quasi vola nella sua luminosa bianchezza attorniato dai tre discepoli – sullo sfondo della pianura. Qui, in primissimo piano, troviamo un ragazzo accompagnato da suo padre con gli occhi stralunati e, chiaramente, s-figurato da una malattia terribile come l’epilessia. Raffaello sembra aver colto il mistero della Trasfigurazione in tutta la sua completezza e potremmo trascrivere così la sua intuizione: tra-S-figurazione. Del resto, la luce del Tabor, non è forse la chiave di lettura che il Signore dà ai suoi discepoli per poter sopportare e comprendere la tenebra del Calvario di cui – Luca ce lo dice chiaramente – Gesù parla con Mosè ed Elia proprio in quell’occasione (Lc 9, 31)? 

La Trasfigurazione del Signore è legata all’esperienza della s-figurazione continua che l’uomo si trova ad affrontare, nella pianura del suo combattimento spirituale, contro quelle forze del male che <Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce> (Mc 9, 18). Questo povero padre non esita a rispondere a Gesù che gli chiede con tono commovente: <Da quanto tempo gli accade questo?> (Mc 9, 21). La risposta è semplice, immediata, circostanziata: <Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci> (Mc 9, 22). Ciò che tocca il cuore del Signore Gesù è questa solidarietà così profonda ed intima tra padre e figlio, da considerarsi inestricabile. Questa partecipazione assoluta ci fa pensare al grido di Gesù sul Calvario (Mc 15, 34). Così questo figlio di cui <molti dicevano: “E’ morto”> (Mc 9, 26) diventa profezia del mistero della croce e speranza di possibile risurrezione. Con una delicatissima forza <Gesù, lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi> (Mc 9, 27).

Come può tutto questo avvenire nella nostra vita così da passare attraverso la s-figurazione del quotidiano e giungere alla tra-s-figurazione dell’amore? La risposta ce la dà il Signore Gesù quando conclude dicendo: <Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera> (Mc 9, 29). Quanto Gesù invita a sperimentare viene confermato da un altro Gesù – il figlio di Sirach – che nella prima lettura dice: <Il Signore stesso ha creato la sapienza: l’ha vista e l’ha misurata… l’ha elargita a quanti lo amano> (Sir 1, 9). Solo la sapienza che viene dal Signore può farci porre davanti al Signore e davanti alla vita in modo sempre più adeguato, ossia, sempre più orante: <Credo, aiuta la mia incredulità> (Mc 9, 24). In queste parole è racchiuso il segreto della preghiera che è coscienza della propria povertà, unita alla percezione della grandezza di Dio che <solo è sapiente> (Sir 1, 8) e ama comunicare la sua vita, la sua luce e la sua gioia. In questa comunicazione trasfigura, lentamente ed efficacemente, tutto il nostro essere a condizione che ci abbandoniamo al calore della sua luce, facendo della nostra intera esistenza una scuola di preghiera e della preghiera una scuola di vita. È in questo dinamismo dialogante che ci sarà permesso di credere oltre e dentro ogni nostra <incredulità>, spesso legata al peso del dolore e all’incomprensibilità della sofferenza.