Di-vertiti!

XXIX settimana T.O.

Al Signore Gesù non restano molte possibilità e ricorre ancora una volta all’uso di una parabola per aiutare il suo interlocutore ad andare un poco più lontano dalla propria ristretta visione della vita che, in realtà, meriterebbe l’aggettivo di una “povera vita”. Come quando Natan racconta a Davide la parabola di quel tale che ha una sola pecorella che gli viene sottratta dal potente di turno, così il Signore Gesù aiuta questo tale a guardarsi allo specchio, a sentirsi finalmente parlare in verità così da avere finalmente l’occasione di rendersi conto di ciò che veramente gli sta a cuore. Il possidente della parabola arriva a fare un bel discorso non solo dentro di sé, ma persino a se stesso: <Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni, riposati, mangia, bevi e divertiti> (Lc 12, 19). Sembrerebbe il giusto discorso di chi, dopo aver lavorato per tutta una vita, riconosce a se stesso il diritto di potersi finalmente riposare e persino – dopo i tanti sacrifici della vita – potersi anche un po’ divertire.

Non possiamo non riconoscere quanto questo modo di ragionare e di sentire la vita, sia in realtà, assai più vicino ai nostri pensieri di quanto siamo disposti realmente ad accettare. Così pure non possiamo nascondere a noi stessi di sentirci sempre abbastanza in diritto di reclamare la nostra parte di <eredità> (12, 13). Il Signore Gesù non vuole affatto ledere le esigenze e i processi propri della giustizia, come coglie l’occasione di questa domanda per aiutare il suo interlocutore ad andare un po’ oltre e un po’ più in profondità. Prima di tutto il Signore non si sostituisce ai meccanismi e ai processi della giustizia non ritenendo di dover neppure seguire l’esempio di Mosè (Es 2), ma di rispettare i consueti canali con una frase netta: <O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?> (Lc 12, 14). Detto questo il Maestro coglie l’occasione per porre, attraverso il linguaggio della parabola, una domanda che invece di rispondere ad una situazione esterna di potenziale ingiustizia, invita a chiedersi nel profondo del cuore a che cosa mai servirebbe questa ricchezza. Il rischio, infatti, che la giustizia rischi di mascherare il nostro bisogno di “di-vertimento” a scapito di un processo più lungo e laborioso che è quello della “con-versione”.

L’uomo della parabola, in realtà, dimostra alla fine della sua esistenza di non avere compreso che il dono della vita e di tutto ciò che la rende più vivibile e persino più piacevole, non è una realtà che si possa godere da soli, ma che andrebbe condivisa per una gioia che sia degna di questo nome. L’apostolo Paolo esprimerebbe tutto ciò con un’immagina altrettanto eloquente: <eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali viveste, alla maniera di questo mondo> (Ef 2, 1-2). Ciò che mondanizza, secondo la riflessione e la parenesi di Paolo, è esattamente ciò che il Signore Gesù stigmatizza raccontando una parabola. La difficoltà che può divenire una vera e propria cecità di fronte alla realtà del dono che esige sempre la capacità del perdono: <Per grazia infatti siete stati salvati mediante la fede e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio> (2, 8).

Tutto il peso del discorso di Paolo è sul <Ma> che divide la prima lettura in due parti. Quei <tutti> della prima parte che sono segnati dal peccato, diventano i <tutti> della seconda parte toccati e raggiunti dalla grazia.

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