Figlio mio

XXIV settimana T.O.  –

L’inizio della prima lettura nella redazione liturgica ci immette direttamente nell’atmosfera propria della Liturgia della Parola di oggi. Quando leggiamo qualche brano delle lettere di san Paolo durante la Liturgia siamo abituati a sentire come inizio: <Fratelli…>! Oggi invece l’inizio della prima lettura suona così: <Figlio mio…>! Si potrebbe dire che la discepolanza crea un atteggiamento sempre più umanizzato che, gradualmente, nella vita fa recuperare, nel grado più alto, tutti gli aspetti dell’esistenza e i registri più profondi e autentici dei sentimenti migliori del nostro cuore di uomini e donne segnati dall’energia rinnovatrice del Vangelo. L’apostolo Paolo, parlando con accenti di tenerezza e con fare profondamente paterno, dà una serie di consigli al suo discepolo Timoteo chiamato a prendersi, a sua volta, cura della comunità cristiana non omettendo di metterlo in guardia da ogni deriva che allontani dallo spirito evangelico che prima di segnare il ministero deve essere capace di trasformare la vita personale: <perché, se uno non sa guidare bene la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?> (1Tm 3, 5).

Nel testo evangelico, l’evangelista Luca, sembra parlarci di quella che il Signore Gesù sembra considerare la <propria famiglia>. Infatti ci troviamo di fronte ad uno dei versetti più commoventi che ci fanno sentire il palpito del Signore Gesù davanti al mistero della morte e, ancora di più, dello strazio che il dolore della perdita di un figlio può rappresentare per il cuore di una madre: <Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei> (Lc 7, 13). Dopo aver cercato di consolare il cuore di questa donna cui sembra non restare niente altro al mondo che l’esperienza del dolore lancinante dovuto ad una serie di perdite poiché era già <rimasta vedova> (7, 12), lo sguardo e il cuore di Cristo si volgono al figlio cui si rivolge con il modo proprio del padre: <Ragazzo, dico a te, àlzati> (Lc 7, 14).

Potremmo leggere questa parola del Signore non solo come il segno della potenza del taumaturgo capaci di richiamare perfino dalla morte, ma, in modo più ampio, come la capacità del Signore di rimettere in piedi la volontà di vivere. Come un vero padre, il Signore Gesù, sembra prendere il posto dell’uomo mancante in questa famiglia. Se alla vedova dice con immenso e delicatissimo amore: <Non piangere!> (7, 13). All’orfano sembra rivolgersi con il tono performante che è proprio di ogni padre: <alzati>! Il seguito del racconto è come se ci mettesse di fronte al ritorno della comunicazione in una famiglia che sembra ormai ammutolita da troppo dolore: <Il morto si mise seduto e cominciò a parlare> (7, 15). Nessun segno di soggezione né di dovuta gratitudine servile, ma il ritorno alla bellezza e all’ordinarietà delle comunicazioni proprie della vita di una famiglia normale, di cui il Signore Gesù sembra essere il punto di riferimento. La folla reagisce con un’acclamazione che si fa esclamazione: <Un grande profeta è sorto tra noi> (7, 16). La presenza del Signore Gesù è capace di restituirci gli uni agli altri permettendo a ciascuno di dare il meglio di sé nella <cura> (1Tm 3, 5). Il <nobile lavoro> (3, 1) che ciascuno di noi è chiamato a desiderare è quello du essere capace di dare più vita e più gioia. Il primo passo e il primo segno è di avere un cuore veramente capace di <grande compassione> che ci renda rispettabili persino agli occhi dei pagani dei nostri giorni.

3 commenti
  1. cristina
    cristina dice:

    In questa famiglia ritorna la comunicazione grazie alla presenza e all’opera del Signore che passa.
    “Non piangere” dice alla donna e “Alzati” dice al ragazzo, che si mette a parlare.
    La vita riprende a circolare !

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