Morire

XXIII settimana T.O. –

La parola dell’apostolo arriva direttamente al cuore delle nostre scelte ed è una sorta di spada capace di tagliare così in profondità il nostro essere da rivelare l’orientamento profondo della nostra vita: <Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra…> (Col 3, 5). Paolo si rifà agli elenchi di vizi e di virtù assai diffusi negli ambienti filosofico-religiosi della sua epoca, ma è la parola di Gesù ad essere il punto di riferimento imprescindibile del nostro discernimento di discepoli. Luca ci dice che Gesù <alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva…> (Lc 6, 20). L’imperfetto usato dall’evangelista ci ricorda che il discorso cominciato dal Signore in questo misterioso luogo pianeggiante, che indica la nostra vita e il nostro combattimento quotidiani, è ancora in corso e lo sarà fino alla fine dei tempi quando, la logica del suo Regno, rinnoverà e informerà interamente la storia attraverso il profondo rinnovamento dei cuori.

Troppo facilmente rischiamo di dare all’esortazione di Paolo un senso morale anche a motivo del suo stesso argomentare, una modalità – questa – debitrice della mentalità e delle urgenze del suo tempo e delle situazioni concrete delle comunità cui scrive. In realtà ciò che siamo chiamati a far morire è tutto ciò che entra in contrasto, sia nella nostra vita personale che in quella sociale, con la logica delle beatitudini. Nella versione lucana, il testo delle beatitudini risuona in modo più duro agli orecchi del nostro cuore, a motivo dell’evocazione non solo di ciò che può rendere beata la nostra vita, ma anche di ciò che può essere fonte di <guai> (6, 24). In tal modo siamo messi di fronte a ciò che, secondo la parola del Vangelo, rischia di far morire in noi il germe del Regno di Dio che attende di fiorire e di dare frutto, ovvero: l’appiattimento sul presente che non ha niente a che fare con il vivere generosamente e consapevolmente il momento presente.

Come discepoli siamo chiamati a far morire – sarebbe meglio dire che siamo invitati ad uccidere con una santa violenza, dentro di noi – tutto ciò che, sia in situazioni positive che difficili, toglie alla vita un orizzonte ulteriore che ci permetta di vivere ogni situazione, senza per questo identificare la parte con il tutto. La parola del Signore Gesù è una sorta di continuo invito a dilatare l’orizzonte della nostra attenzione, cosicché, la ricerca, sia quella di una completezza che esige la fatica dell’assumere le realtà nella loro complementarità e – non raramente – nella loro ambiguità. Il Signore Gesù sembra dirci che la cosa più importante, quella che non possiamo assolutamente smarrire, è il lasciare che la nostra vita sia talmente posta sotto lo sguardo e il giudizio del Vangelo da essere sempre più dinamizzata e aperta verso un oltre. In tal modo persino le realtà più dure possono aprire a respiri insperati, mentre le realtà più allettanti e accomodanti possono rivelarsi le più velenose. Paolo stigmatizza energicamente: <e quella cupidigia che è idolatria> (Col 3, 5). Lasciamo morire l’idolatria di noi stessi per cominciare a gustare, sin d’ora,  le piccole e tenaci gioie del Regno che viene e mai muore nel cuore dei poveri e dei piccoli, spesso così pieni di guai da non temere che risuoni per loro quel terribile:   <Guai a voi!>.

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