Tranquillo

XV settimana T.O.

Il profeta Isaia viene mandato dal Signore Dio incontro al re Acaz e ancora una volta si fa messaggero di un invito alla calma: <Fa’ attenzione e sta tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta> (Is 7, 4). L’invito alla serenità e alla fiducia è imprescindibilmente legato alla fede. Per questo il testo della prima lettura si conclude con un’esortazione che ha tutto il tono della sfida ad una relazione con Dio assolutamente coinvolgente e decisiva: <Ma se non crederete, non resterete saldi> (7, 9b). In questo modo il profeta crea una relazione fortissima tra la tranquillità e la fede! Come amava ripetere Bernardo di Chiaravalle ai suoi monaci: <Ubi tranquillitas ibi Tranquillus est> (dove c’è la tranquillità là si trova il Tranquillo>. Tutta la tradizione monastica si è espressa e riconosciuta in modo particolarissimo nella ricerca esicasta (esychìa significa la pace interiore). In tal modo i maestri hanno riconosciuto nella conquista della serenità dell’anima il vertice e il fine della ricerca spirituale che permette di vivere già qui e già ora la gioia che sarà perfetta e continua nella vita eterna.

Il Signore Gesù, con parole certamente dure ed esigenti, non fa che confermare la parola del profeta e l’anelito di tutti coloro che si sono impegnati in una seria ricerca di vita spirituale: <si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite> (Mt 11, 20). Quella di Gesù non è una presa di posizione moralistica e mortificante. Al contrario è l’espressione di un profondo dolore per l’incapacità di città come Corazin, Betsaida e Cafarnao a cui è stata data una possibilità di crescita che forse più che rifiutata non è stata neppure avvertita. Davanti a questa chiusura che sa tanto di ingratitudine, il Signore non può che esaltare città come Tiro e Sidone che sono il simbolo, nella tradizione biblica, dell’idolatria e dell’orgoglio (Cfr. Is 23; Ez 26-28).

La domanda che viene da porsi in modo del tutto naturale è chiedersi la ragione per cui le città che hanno avuto il privilegio di essere visitate dal Signore Gesù non si sono aperte alla sua parola. La domanda, naturalmente, si fa ancora più esigente nel momento in cui non si tratta più di queste città, bensì del nostro cuore! Nella logica di cui si fa testimone il profeta Isaia potremmo dire che forse è la difficoltà a intuire come la conversione e la fede possono regalarci una serenità e tranquillità che non sono semplicemente il frutto dell’assenza di tensioni esterne e di quella <guerra> (Is 7, 1) che continuamente rischia di squassarci l’anima. Tensioni esterne e battaglie interiori fanno parte della vita. Ciò che fa la differenza è, in realtà, la capacità di credere che dentro la fatica normale della vita vi sia una relazione privilegiata con il Signore che può assicurare una tranquillità di fondo che niente e nessuno potranno toglierci. Certo se questo non è che un dono, esige pure la nostra adesione e la nostra volontà di ripartire ogni mattina non da noi stessi, bensì dalla nostra relazione con il Tranquillo che può ritessere continuamente i fili della nostra tranquillità nella misura in cui lo lasciamo entrare nella nostra vita. Altrimenti <la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te> (Mt 11, 24). E Sodoma fu condannata proprio per l’incapacità dei suoi abitanti ad accogliere e rispettare l’altro tanto da pensare di poter abusare di gente di passaggio.

Prendere posizione

XV settimana T.O.

La parola del profeta Isaia non lascia scampo: la fedeltà a Dio è sempre proporzionale all’attenzione profondamente coinvolta verso la condizione dell’<orfano> e della <vedova> (Is 1, 17). Le parole che il Signore Gesù rivolge ai suoi discepoli non sono certo da meno e se segnano il passaggio ad una nuova sezione del Vangelo che segue quelle del discorso della montagna e dei dieci segni di guarigione, non fanno altro che sottolineare come e quanto dopo le parole e i gesti del Signore Gesù è ora il turno dei discepoli, il nostro turno: <Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada> (Mt 10, 34). Prima di illustrare le reazioni di Giovanni Battista, dei galilei e dei farisei, Matteo sente l’urgenza di mettere in chiaro quello che il Signore Gesù si aspetta dai suoi discepoli costituiti apostoli per generare ancora dei discepoli. La regola della generazione nella fede, che crea quella che potremmo definire la genealogia ecclesiale, si concentra in poche parole: <Chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà> (10, 39).

In tal modo viene messo in chiaro, senza nessuna ambiguità, che la fedeltà alla parola e allo stile di Gesù non può che sconvolgere tutti i parametri, persino e forse prima di tutto quelli affettivi. Così la <pace> diventa una <spada> perché la parola da annunciare e da testimoniare è prima di tutto una parola che chiede la propria conversione spinta fino all’attraversamento delle dogane interiori che ci tengono chiusi nei nostri recinti di egoismo e di autoreferenzialità. Il segno dell’accoglienza del Vangelo nella propria vita – prima di farsi annunciatori del Vangelo per la vita degli altri – comporta che il discepolo accetti di ritrovarsi personalmente nel numero di quei <piccoli> (10, 42) che sono il parametro della storia in senso inverso alla mondanità. Per troppo tempo abbiamo rischiato di identificare la “mondanità” con una certa capacità di godere e gioire della vita, dimenticando che, dal punto di vista del Vangelo, essa è legata all’incapacità di avere occhi e cuore per gli altri. 

Non è possibile che il Vangelo segni profondamente ed efficacemente la nostra vita senza una frattura instauratrice attraverso cui ogni aspetto dell’esistenza – prime fra tutte le relazioni – possa essere vissuto più profondamente passando dalla servitù a se stessi al servizio verso gli altri, cominciando da quanti – poveri e piccoli – non solo non potranno ricambiarci, ma forse non osano neppure chiedere attenzione e cura. Prendere posizione per Cristo e il suo Vangelo significa accettare di scendere fino a condividere la propria ricerca di felicità con coloro che rischiano di esserne esclusi. Ancora di più e ancora oltre… ogni discepolo è chiamato a ritrovarsi, infine, nel numero di quei piccoli che il Vangelo pone come il criterio di discernimento della storia non solo del mondo, ma anche e prima di tutto della Chiesa.

L’olio della grazia

XV Domenica T.O.

Prima del contenuto vi è una modalità di porgersi e di presentarsi da parte degli annunciatori del Vangelo che permette alla grazia di espandersi come una macchia d’olio e di penetrare fino a risanare e rinvigorire come un balsamo. Il Signore Gesù invia i suoi discepoli direttamente contro gli <spiriti impuri>, ma senza progetti e senza strategie: il segreto della missione è non avere segreti, né armi seduttrici se non la nudità della croce di Cristo. Nessuna tunica – se non la nudità del vangelo – niente sandali se non i piedi del <vangelo> (Ef 6, 15) e solo <un bastone> (Mc 6, 8): la croce di Cristo con cui si potrà liberare la strada da tutti quegli inutili impedimenti e fastidi che rischiano di rallentare la corsa. Per ogni annunciatore del Vangelo della grazia, perché la grazia del Vangelo possa essere serenamente e gioiosamente accolta vale, quanto ha sperimentato il profeta-pastore che si presenta come un profeta senza qualità, ma semplicemente chiamato ad essere tale malgrado se stesso. Per questo Amos può rispondere con franchezza al sacerdote Amasìa e senza nessun ritegno: <Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro. Il Signore mi prese, mi chiamò, mentre seguivo il gregge> (Am 7, 14, 15). Amos sembra protestare la propria innocenza di essere profeta e – proprio dicendo questo – afferma la sua libertà nel fare il profeta proprio perché non lo è per discendenza – come nel caso dei sacerdoti di Israele – né per interesse personale – come nel caso di quanti sono sensibili alle cose dello spirito. Il segreto della profezia che dovrebbe essere il carattere originario di ogni apostolato sta nella semplice evidenza che <il Signore mi prese, mi chiamò>. Infatti, ogni “presa” da parte di Dio, ogni chiamata, si inserisce nel grande disegno d’amore della sua volontà> (Ef 1, 6) che i profeti di ogni tempo hanno cercato di presentare agli uomini. Questo disegno che è un progetto d’amore non lo si può che annunciare gratuitamente come lo si è ricevuto. Non c’è posto per il danaro <nella cintura> (Mc 6, 8), non c’è da comprare né da vendere nulla poiché egli <tutto opera efficacemente> (Ef 1, 11). Una sola strategia sembra essere compatibile con il mandato apostolico: rinunciare a se stessi e portare la croce del Signore come un bastone con cui si libera la strada per se stessi e per quanti vengono dopo di noi. Solo così potremo accogliere il <sigillo dello Spirito Santo> che non solo è <caparra della nostra eredità> (Ef 1, 13-14), ma è l’olio che ci permette di camminare e funzionare <a due a due>. Sempre e solo <in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria>. Perché il vangelo della grazia possa essere annunciato, non può che essere annunciato con grazia. Perché il vangelo possa penetrare la vita degli uomini, non può che essere cosparso sulle ferite che ognuno porta nel proprio cuore come un olio balsamico capace di lenire e di tonificare.

L’huile de la grace

XV Dimanche du T.O. 

Avant d’aborder le  contenu, il y a une façon de s’adresser et de se présenter de la part de ceux qui annoncent l’Evangile qui permet à la grâce de se répandre comme une tache d’huile et de pénétrer jusqu’à assainir et revigorer comme un baume. Le Seigneur Jésus invite directement ses disciples contre les ” esprits impurs “, mais sans projet et sans stratégie : le secret de la mission n’est pas d’avoir des secrets, ni des armes de séduction, si ce n’est la nudité de la croix du Christ. Aucune tunique – sinon la nudité de l’évangile – pas de sandales, sinon les pieds de ” l’évangile ” ( Eph 6, 15 ) et seulement ” un bâton ” ( Mc 6, 8 ) : la croix du Christ avec laquelle l’on pourra libérer la route de tous les empêchements et difficultés qui risquent de ralentir la course. Pour chaque annonciateur de l’Evangile de la grâce, pour que la grâce de l’Evangile expérimentée puisse être accueillie sereinement et joyeusement, il est nécessaire que le prophète-pasteur se présente comme un prophète sans qualité, mais simplement appelé à être ainsi malgré lui. Pour cela Amos peut répondre avec franchise au prêtre Amasia et sans  aucune retenue : ” Je n’étais pas prophète, ni fils de prophète ; j’étais un berger et je cultivais des plantes de sycomore. Le Seigneur me prit, m’appela, alors que je suivais le troupeau ” ( Am 7, 14-15 ). Amos semble protester de son innocence d’être prophète et – en disant cela – il affirme sa liberté d’être prophète car, justement il ne l’est pas par descendance – comme c’est le cas des prêtres d’Israël -, ni par intérêt personnel – comme dans le cas de ceux qui sont sensibles aux choses de l’esprit. Le secret de la prophétie qui devrait être le caractère original de chaque apostolat réside dans la simple évidence que ” le Seigneur me prit, m’appela”. En fait, chaque ” prise ” de la part de Dieu, chaque appel, s’inscrit dans le grand dessein d’amour de sa volonté ” ( Eph 1, 6 ) que les prophètes de tous temps ont cherché de présenter aux hommes. Ce dessein qui est un projet d’amour ne peut qu’être annoncé gratuitement comme on l’a reçu. Il n’y a pas de place pour de l’argent ” dans la ceinture” ( Mc 6, 8 ), il n’y a rien à acheter ni à vendre pour que ” tout se fasse efficacement ” ( Ph 1, 11 ). Une seule stratégie semble être compatible avec le mandat apostolique : renoncer à soi-même et porter la croix du Seigneur comme un bâton avec lequel libérer la route pour soi et pour tous ceux qui viennent après nous. C’est ainsi que nous pourrons accueillir ” le sceau de l’Esprit Saint ” qui, non seulement est ” le dépôt de notre hérédité ” ( Eph 1, 13-14 ), mais il est l’huile qui nous permet de marcher et travailler ” deux par deux “. Toujours et seulement ” en attente de la complète rédemption de ceux que Dieu s’est acquis pour la louange de sa gloire “. Pour que l’Evangile de la grâce puisse être annoncé, il ne peut qu’être répandu sur les blessures que chacun porte dans son coeur comme une huile balsamique capable d’apaiser et de tonifier. 

Ohimè

XIV settimana T.O.

La grande visione che il profeta Isaia contempla nel Tempio e segna l’inizio del suo ministero si fa parola rivolta ai discepoli da parte del Signore Gesù: <Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore> (Mt 10, 24-25). Davanti a questa parola la reazione più adeguata è la stessa che sgorga in modo spontaneo dal cuore di Isaia: <Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure, i miei occhi hanno visto il Signore degli eserciti> (Is 6, 5). Il profeta si sente inadeguato a farsi annunciatore di una gloria che sembra non solo superarlo, ma da cui si sente schiacciato. Ogni discepolo non può che sentire tutto il peso di vivere cercando di essere in tutto simile al suo Maestro e Signore quando questo significa niente altro che condividerne il rifiuto e la sofferenza: <Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia> (Mt 10, 25).

A questo punto una domanda si pone ed è assolutamente doverosa e legittima: <Per quale motivo si dovrebbe abbracciare il cammino di sequela del Cristo, quando è chiaro sin da subito che questo comporta una condivisione non della gloria, ma del peso di una vita che si fa annuncio di verità scomode?>. Questa domanda rimane presente nel cuore e ad essa certo non possiamo pretendere di rispondere una volta per tutte. La risposta viene data ogni giorno e, per molti aspetti, non può che essere quella di un solo giorno. Certo il punto che fa la differenza è nel nostro rapporto con la paura. Il Signore Gesù ne parla con franchezza ai suoi discepoli e, già col fatto di parlarne, accetta che essa faccia parte della nostra vita e sia una delle emozioni più potenti capaci di deviare radicalmente il nostro cammino.

Il Signore lo dice una volta: <Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto> (10, 26). Lo ripete per la seconda volta: <E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima> (10, 28). E non ha timore di ripeterlo per la terza volta: <Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!> (10, 31). In pochi versetti il Signore Gesù è capace di mettere in chiaro le fonti della nostra paura: il timore di sbagliarsi, l’avversione davanti alla possibilità di soffrire, la mancanza di autostima. Allo stesso tempo, il Maestro ci offre gli antidoti alla multiforme paura che abita il nostro cuore: la certezza di essere conosciuti intimamente da Dio, la consapevolezza di non essere solo corpo ma anche anima, intesa come la somma di tutto ciò che dà al corpo la sua essenza e consistenza, il sentimento sicuro di valere non solo davanti a Dio ma di essere preziosi per lui. Se abbiamo questa consapevolezza, allora potremo infine acconsentire alla nostra vocazione di discepoli con la stessa decisione di Isaia: <Eccomi, manda me!> (Is 6, 8). 

Intelligenza

XIV settimana T.O.

La parola che il Signore Gesù rivolge ai suoi apostoli e, attraverso di loro a ciascuno di noi, non solo può sorprenderci ma potrebbe persino inquietarci. La gioia di essere inviati come testimoni del Vangelo sembra essere subito impoverita dall’invito ad una difficile e certamente incomoda consapevolezza che raggiunge il suo vertice quando il Cristo ci assicura il peggio: <Sarete odiati da tutti a causa del mio nome> (Mt 10, 22). Questo porta come conseguenza un atteggiamento che sembra avere così poco in comune con il Vangelo della fraternità e della reciproca accoglienza: <Guardatevi dagli uomini> (10, 17). L’ascolto del discorso della montagna e il lento dipanarsi dei gesti di compassione di Gesù verso i più provati e segnati dalla vita di certo sembrerebbe esigere da parte nostra un atteggiamento ben diverso che si potrebbe definire come assolutamente fiducioso.

In realtà è così e, allo stesso tempo, sembra che il Maestro non voglia creare un malinteso che porta a confondere la fiducia con l’ingenuità. Il profeta Osea sembra completare la parola del Signore Gesù: <Chi è saggio comprenda queste cose, chi ha intelligenza le comprenda> e aggiunge <poiché rette sono le vie del Signore, i giusti camminano in esse, mentre i malvagi v’inciampano> (Os 14, 10). Nel cammino di fede come pure in quello di testimonianza e di annuncio è necessario coltivare un’intelligenza del reale che permetta di valutare le realtà della vita dall’interno fino a leggere dentro le situazioni e, per quanto si possa, dei cuori delle persone. Questo si rende necessario per evitare di cadere nella trappola di un inutile buonismo o di un eccessivo sospetto che rischia di paralizzare e di intristire. Non ci sono ricette né tantomeno si può pianificare il proprio modo di muoversi nella vita una volta per tutte, ma è una vera arte che il Maestro riassume in un consegna: <siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe> (Mt 10, 16).

La prudenza come virtù cardinale che si basa sulla capacità di prendere coscienza e di affrontare gli opposti viene evocata prima della semplicità perché quest’ultima non abbia niente a che fare con la faciloneria e la superficialità. La semplicità dei discepoli di Cristo non è un dono della natura, ma è la lenta e faticosa conquista di una vita profondamente e consapevolmente vissuta la cui legge fondamentale non è il semplicismo dei pusillanimi ma la prudenza dei forti. Il Signore Gesù non ci inganna, ma ci mette di fronte alla realtà: <chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato> (10, 22). La perseveranza non è semplice resistenza o, peggio ancora, passiva rassegnazione. Essa è il frutto maturo di un’intelligenza di se stessi e del mondo che ci circonda per saper interagire in modo adeguato che non può che essere al contempo sempre complesso. Le ultima parola del Vangelo di quest’oggi ci danno l’impressione che i discepoli siano continuamente in fuga… in realtà siamo in cammino e ogni passo vuole essere un passo di intelligenza.

Orecchio

S. Benedetto

Da novizi benedettini si impara a memoria almeno qualche parte della Regola e, di certo, uno dei passaggi obbligati è quello che suona così: <inclina l’orecchio del tuo cuore>. Molto probabilmente questo passaggio così significativo della Regola avrà ispirato coloro che hanno scelto come prima lettura un testo in cui troviamo l’esortazione: <Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, tendendo il tuo orecchio alla sapienza, inclinando il tuo cuore alla prudenza> (Pr 2, 1-2). Del resto, basta passare in un qualunque monastero benedettino del mondo per leggere da qualche parte l’inizio assoluto della Regola: <Ascolta, o figlio…>! Eppure, non bisogna dimenticare che san Benedetto non è solo un maestro e una guida per tanti monaci e monache di ieri e di oggi, ma è anche stato riconosciuto da Paolo VI patrono d’Europa. Benedetto, dopo tanti secoli, si trova ad essere di fatto custode del vecchio continente ed è così chiamato a ispirare il meglio nei rapporti internazionali e interculturali che nel bacino del Mediterraneo hanno tante radici più o meno luminose, più o meno amare.

Per i monaci e per gli uomini tutti, la vita monastica diventa un monito a non dimenticare l’orecchio. In una cultura della “visione” in cui l’occhio sembra avere il ruolo maggiore e il più preponderante, Benedetto e tutte le sapienze autentiche ci ricordano che l’organo più importante è l’orecchio, che l’esercizio in cui dobbiamo continuamente cimentarci è quello di un ascolto attento e umile accettando talora persino di fare uso di quelle palpebre che ci permettono di chiudere gli occhi per aprire ancora di più le orecchie che di palpebre non sono provviste. Così e per tutti ascoltare diventa il primo luogo e il primo esercizio di <intelligenza> (1, 2). Nel Vangelo, il Signore Gesù chiede questo lavoro ai suoi discepoli per non lasciarli nell’illusione di cui si fa un po’ portavoce l’apostolo Pietro: <Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; cosa ne avremo?> (Mt 19, 27).

Il contesto di questa domanda è durissimo perché segue il tremendo incontro mancato tra il Maestro e quel tale che aveva troppe ricchezze per permettersi il lusso di farsi discepolo. Pertanto, il problema riguarda anche gli apostoli, anche noi… non avremo mai lasciato abbastanza se non sapremo cogliere il <cento volte> (19, 29) che è già incluso nel dono di potersi dare totalmente affidandosi ad una relazione che porta a pienezza la nostra vita non nella logica della ricompensa o del guadagno, ma del dono di sé in un amore che è ricompensa a se stesso. A Benedetto possiamo chiedere di intercedere per i popoli dell’Europa e di intercedere per ciascuno di noi affinché sappiamo ogni mattina ricominciare non con l’aprire gli occhi, ma nel rendere attento e sensibile l’orecchio del cuore per essere capaci di attenzione, di cura, di lode, di compassione e, prima di tutto, di adorazione.

TERZO PARADISO

E’ tempo

XIV settimana T.O.

Si potrebbe dire, riprendendo il profeta Osea e accogliendo la parola del Signore Gesù, che <è tempo> (Os 10, 12) di <guarire ogni malattia e infermità> (Mt 10, 1). Proprio l’evangelista Matteo, comunemente e giustamente ritenuto come il più attento al mistero della Chiesa, attende più a lungo di tutti gli altri evangelisti prima di farci conoscere in modo solenne e circostanziato <i nomi dei dodici apostoli> (10, 2) e parlarci in modo assai preciso della loro missione per l’umanità. Prima di questo passo così importante, Matteo ha come bisogno di premettere il lungo discorso della Montagna e il racconto dei dieci miracoli di Gesù. Queste parole – non altre – e questi gesti – non altri – sono lo specchio della vita della Chiesa e il continuo luogo di verifica della sua missione. La Chiesa nasce come missione di rendere presente al cuore dell’umanità la <compassione> (9, 36) di Dio che si esprime con la parola che orienta la vita e i gesti che la guariscono profondamente ed efficacemente.

Perché si possa essere fedeli alla missione affidata dal Signore alla sua Chiesa, non solo nei contenuti, ma pure e soprattutto nei metodi, la parola del profeta Osea è assai illuminante. Da una parte bisogna vigilare su ogni tentazione di attaccamento vigilando sui pericoli della ricchezza: <più ricca era la terra, più belle faceva le sue stele> (Os 10, 1). Dall’altra è necessario coltivare questa povertà e semplicità e solo allora sarà possibile che si realizzi la parola: <Seminate per voi secondo giustizia e mieterete secondo bontà> (10, 12). La <bontà>, che rimanda alle viscere di misericordia del Signore che freme per il suo popolo, è il segno distintivo della fedeltà apostolica al mandato del Signore: <diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità> (Mt 10, 1). Quale lungo cammino è stato necessario – e non ancora compiuto – per gli apostoli prima di poter cominciare non solo a seguire, ma pure ad imitare il loro Maestro e Signore. Non possiamo ingannarci né illuderci sulle fantasie che questo <potere> può creare!

Il monito del Signore <rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele> (Mt 10, 6) potrebbe essere oggi ricompreso in questo modo: “rivolgetevi alle pecore perdute della Chiesa”. Prima di preoccuparci di evangelizzare il mondo che definiamo neopagano e secolarizzato, siamo chiamati ad evangelizzare profondamente noi stessi perché, guariti interiormente, possiamo essere testimoni credibili. Il cammino della Chiesa nel tempo e nei luoghi in cui l’umanità attende l’annuncio del vangelo non può che essere in tutto conforme alle intenzioni e alle consegne dell’unico Maestro. Il Signore Gesù ha conferito e continua a conferire un ministero di guarigione, di compassione, di discernimento. Non solo, il Maestro non si accontenta di affidare ai suoi discepoli di ogni tempo e di ogni luogo un ministero, ma raccomanda anche un metodo preciso che potremmo definire come delicato, attento, sereno.

Artigianato

XIV settimana T.O.

Il lamento che il Signore Dio esprime al suo popolo attraverso il profeta potrebbe, a prima vista, sembrare estraneo ai nostri cammini, eppure forse non è proprio così: <Viene da Israele il vitello di Samaria, è opera di artigiano, non è un dio: sarà ridotto in frantumi> (Os 8, 6). Certamente questa parola di Osea si riferisce ad una questione storicamente circoscrivibile dell’invenzione da parte del re Geroboamo di un altro polo cultuale per tenere lontano il popolo da Gerusalemme. Di questo dramma di separazione prima che di idolatria troviamo eco nel dialogo tra il Signore Gesù e la Samaritana al pozzo di Giacobbe vicino a Sicar. Ma questa parola rimanda alla tendenza spirituale che abita pure il nostro cuore e che ci inclina ad improvvisarci artigiani di un dio fatto a nostra misura e, spesso e volentieri, connivente con le nostre povere misure nelle scelte di vita e di fede. Troviamo nella liturgia una delle citazioni bibliche che è riuscita a diventare patrimonio del modo di dire popolare: <E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta> (8, 7). Per riprendere questa parola del profeta potremmo dire che ogni volta che ci improvvisiamo e ci lanciamo in una sorta di artigianato spirituale attraverso cui ci creiamo un’immagine di Dio che ci sia comoda, rischiamo di trovarci maggiormente soli e sempre più disorientati.

Non così avviene quando, invece, ci apriamo ad una relazione con Dio che è capace di ricreare radicalmente il nostro modo di essere e di sentire tanto che, come quell’uomo che viene condotto a Gesù, e che <cominciò a parlare> (9, 33), anche noi possiamo prendere la parola sulla e nella nostra vita. Attraverso un lungo cammino ritmato da dieci gesti di guarigione, l’evangelista Matteo ci aiuta a cogliere lo spessore della <compassione> (9, 36) di Cristo per la nostra umanità. Quella del Signore Gesù non è una compassione che lascia l’altro in una situazione di inferiorità e di continuo bisogno che crea, inevitabilmente, un senso di dipendenza, ma è una compassione che ricrea e ridona pienamente la possibilità di stare in piedi e di avere una parola da dire. Non è certo un caso che se il primo segno di guarigione è per un lebbroso, l’ultimo, che corona quello che potremmo definire il decalogo della terapia evangelica, è la restituzione della parola come riconoscimento e di restaurazione di una dignità smarrita.

Solo a questo punto sembra che il Signore Gesù sente di poter cominciare a rendere collaboratori del suo ministero i suoi discepoli. Non prima di aver ascoltato con attenzione il discorso pronunciato sul monte (Mt 5-7) e non prima di averlo visto concretamente risollevare quanti ha incontrato sulla sua strada restituendoli alla vita e alla speranza. Solo ora – sarebbe meglio dire solo a questa condizione – può risuonare la parola che, da sempre e per sempre, impegna la Chiesa: <Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!> (Mt 9, 38). Nella parola di Gesù possiamo cogliere una sorta di sfida ad una “professionalità” nell’”artigianato” dell’annuncio che non ha niente a che fare con il dilettantismo superficiale ed episodico.