Accogliere… la luce

EPIFANIA del SIGNORE

La parola dell’apostolo Paolo ci permette di entrare direttamente e gioiosamente nel clima di questa solennità che celebra la pienezza del mistero dell’Incarnazione dopo le dodici notti che sono passate dal Natale del Signore: <Le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo> (Ef 3, 6). La Pasqua raggiunge la sua pienezza al mattino di Pentecoste quando gli apostoli sono in grado, per il dono e la forza dello Spirito, di uscire allo scoperto e annunciare a tutti che Cristo è Risorto e Vivente. Così pure il Natale del Signore si ammanta di luce ancora più fulgida nell’Epifania. Si compie oggi il sogno e la visione del profeta Isaia: <Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere> (Is 60, 3). L’evangelista Matteo ci racconta come alcuni <Magi vennero da Oriente a Gerusalemme> portando con sé una straordinaria scoperta: <Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo> (Mt 2, 1-2). La nascita della Chiesa, quale sacramento di salvezza per l’umanità tutta, si manifesta sin dal mattino di Pentecoste come una realtà costitutivamente ibrida e inclusiva di tutti i popoli e di ogni cultura. Questo perché il suo mistero radica nella rivelazione di Dio che, nella carne del Verbo, viene accolto dai più lontani, dai più estranei, dai meno facilitati. Sono i Magi che, nel vangelo secondo Matteo, tengono il posto degli angeli di cui parla Luca e sono loro che vengono ad annunciare ad Israele il compimento delle promesse. Tutto questo non può che turbare <tutta Gerusalemme> (Mt 2, 3). ma non turba affatto gli stessi Magi. Costoro sono uomini che cercano sinceramente la verità con purezza di cuore. Per questo i Magi sanno sempre rimettersi in strada e persino rettificare la direzione fino a cambiare totalmente programma: <per un’altra strada fecero ritorno al loro paese> (Mt 2, 12). Da questi uomini sapienti che hanno conservato la semplicità di un bambino che permette loro di non scandalizzarsi, ma di rallegrarsi quando <videro il bambino con Maria sua madre< (2, 11), molto dobbiamo imparare come discepoli e come Chiesa. Si tratta di una profonda conversione a ciò che Lévinas spiegherebbe così: <L’idea di una verità la cui manifestazione non è gloriosa né clamorosa, l’idea di una verità che si mostra nella sua umiltà come la voce di fine silenzio>. Lasciamoci condurre dal <sogno> (Mt 2, 12) di una verità fatta <bambino> e accogliamo la sua guida (Is 11, 6) accettando di cambiare sempre strada senza mai desiderare una méta diversa.

Accogliere… passare!

4 Gennaio

L’apostolo Giovanni, nella prima lettura di quest’oggi ricorda non solo a ciascun credente ma ad ogni uomo e donna che vivono, soffrono e sperano sulla terra che <un germe divino rimane in lui> (1Gv 3, 9). Ora questo <germe divino> che abita nelle più alte profondità della nostra umanità, in Gesù si fa sguardo e si fa gesto capaci di risvegliare nei cuori uno slancio e un desiderio capace di aprire nuovi cammini e nuove speranze fino a farsi domanda ferma e amorevolissima: <Rabbì, – che, tradotto, significa maestro – dove dimori?> (Gv 1, 38). Conosciamo tutti la risposta che il Maestro, che viene dalla Galilea dà ai discepoli del Battista che diventano così la primizia della comunità che si stringe attorno a lui. Tuttavia, alla luce di quanto viene detto nella prima lettura la risposta va interpretata in modo più ampio e più profondo anche perché non ci è detto molto per capire meglio <dove egli dimorava> (Gv 1, 39). In ogni modo il luogo in cui il Signore Gesù si lascia incontrare non è che un simbolo dell’unico luogo in cui lo si può veramente conoscere e amare: questo luogo è il cuore profondo dell’uomo in cui la presenza di Dio si inabissa come <germe> di vita che dà vita.

Il modo in cui il Signore Gesù <passava> (Gv 1, 36) sulle strade della Palestina è la rivelazione del modo in cui da sempre e per sempre Dio ama passare e passeggiare nei corridoi – talora bui e senza uscita apparente – della nostra umanità: <Il venire di Gesù così determinato all’incontro, non è un’irruzione violenta, ma può essere notato. Giovanni vede venire Gesù, il quale non giunge di soppiatto, non balza improvviso sulle persone, ma consente loro un acclimatamento. […] Non si dice più di Gesù che viene verso Giovanni, ma di Gesù che cammina. Gesù non è più, come in prima battuta, colui che viene: ora egli è colui che passa. In tal modo egli suscita l’attenzione dell’altro, gli concede di attivarsi>1. Segno ne è che la presenza discreta, ma interrogante di Gesù crea in modo del tutto naturale un vortice, un passaparola che imprime ai cuori un dinamismo completamente nuovo capace di rimettere in cammino non solo i piedi, ma soprattutto i cuori che si aprono, in modo del tutto naturale, ad un passo nuovo che implica l’abbandono di ciò che già si conosce e si è sperimentato per affacciarsi serenamente e appassionatamente verso un futuro inedito: <Venite e vedrete> (1, 39).

Il dinamismo di ricerca e di condivisione sempre più allargata di una ricerca che rinnova la vita e ne scalda il desiderio non può che essere un dinamismo ermeneutico che continuamente si interroga e si lascia interrogare per tradurre al fine di capire e di permettere all’altro di comprendere sempre meglio che cosa sta succedendo e che cosa potrebbe ancora succedere. Se il criterio di discernimento è che <chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama suo fratello> (1Gv 3, 10). Possiamo così cogliere come e quanto il passaggio di Gesù permette alla fraternità e all’amicizia di rimettersi in moto.


1. A. FUMAGALLI, Come lui ha amato. L’eros di Gesù, San Paolo 2010, p. 21.

Accogliere… presentare

3 Gennaio

In questi giorni la Liturgia con la lettura dei primi tratti e dei primi passi del Signore Gesù presentati dal quarto vangelo ci fa accogliere <l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!> (Gv 1, 29). Sotto la figura dell’agnello, l’evangelista ci fa subito percepire quelli che sono i tratti inconfondibili e fondamentali del Signore Gesù: egli viene <verso> di noi senza avere paura e senza fare paura. Sono questi i tratti e i modi che permettono al Battista di testimoniare con pacato e ardente entusiasmo che questi è <il Figlio di Dio> (1, 34). L’identità di Gesù e la sua relazione unica con il Padre dei cieli non è la rivelazione di una differenza escludente. Al contrario, essa genera e dona a noi di prendere coscienza di <quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!> (1Gv 3, 1). Questa coscienza crea e continuamente ricrea tra noi e Gesù un legame profondissimo che dà alla nostra vita tutto il suo valore e la sua bellezza che ci permette di dare il meglio di noi stessi e di assumere gli stessi tratti di Gesù.

Questo significa imparare e ogni giorno re-imparare ad amare secondo l’inconfondibile stile del Signore Gesù per farci incontro ai nostri fratelli e sorelle in umanità con grande mansuetudine e con una dolcezza capace di distruggere ogni timore e ogni ritrosia. Come spiega con il suo acume spirituale Giovanni Cristostomo: <”Ecco l’Agnello di Dio” disse Giovanni, non parla Gesù Cristo; è Giovanni Battista a dire tutto. Lo Sposo è solito agire in questo modo; non dice ancora nulla alla Sposa, ma sta alla sua presenza in silenzio. Altri lo annunziano e gli presentano la Sposa. Quando lei compare, lo Sposo non la prende, bensì la riceve dalle mani di un altro. Ma dopo averla ricevuta, si lega tanto strettamente a lei, che lei non ricorda più coloro che ha dovuto lasciare per seguirlo>1.

Con queste note il Patriarca di Costantinopoli ci fa percepire tutta la tenerezza e la discrezione con cui il Verbo di Dio si fa incontro alla nostra umanità permettendoci di ritornare alla nostra origine e originalità divina. Proprio come il pastore in cerca della pecorella smarrita, Gesù si spinge ad incontrare Giovanni sino a <Betania al di là del Giordano>, fuori dunque dalla terra promessa: <Il desiderio amoroso di Gesù prende ancor più slancio laddove maggiore è la lontananza dall’uomo. La maggior distanza che l’uomo interpone all’incontro consente anzi di scorgere ancor più vividamente l’intensità del desiderio che muove Gesù verso il prossimo>2. L’intensità così discreta dell’amore e del desiderio di Cristo Signore non può che interpellare fino a risuscitare dalle profondità del nostro cuore il nostro desiderio e la nostra decisione di riconoscere in lui il <Figlio di Dio> (Gv 1, 34), l’archetipo e il modello del nostre essere chiamati a diventare ciò già siamo: figli di Dio! Così tutta la vita non sarebbe altro che una lenta preparazione al giorno in cui sarà l’Agnello di Dio a presentare ciascuno di noi al Padre come suoi fratelli, come suoi figli.


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento sul vangelo di Giovanni, 18.

2. A. FUMAGALLI, Come lui ha amato. L’eros di Gesù, San Paolo 2010, p. 20.

Accogliere… l’altro

2 Gennaio

L’umiltà di Giovanni, che rifulge in tutto il suo splendore nel Vangelo, è per noi una sorta di mappa dei sentimenti interiori con cui vivere questo tempo di preparazione alla solennità dell’Epifania. Ai Giudei che vengono espressamente da Gerusalemme, non necessariamente con intenzioni malevoli e forse nella segreta speranza di dare finalmente un volto e una voce alla loro attesa messianica, il Battista risponde con grande e ardita semplicità: <Io non sono il Cristo> (Gv 1, 20). L’umiltà di Giovanni è indice di verità come passione per l’altro, senza la quale nessuna identità – che sia autentica – è possibile. Due figure si contrappongono nella lettura che la Liturgia ci offre quest’oggi e mentre riprendiamo la quasi-ferialità della vita ordinaria di un nuovo anno che ci viene donato di vivere: da una parte <l’anticristo> che <nega il Padre e il Figlio> (1Gv 2, 22), e il Battista il quale, obbedendo ad una logica completamente diversa, nega se stesso in modo chiaro, solenne e, soprattutto, pieno di passione per l’altro di cui vuole essere solo <voce> (Gv 1, 23).

Giovanni Battista, che ci ha accompagnato nella nostra marcia di avvicinamento al mistero del Natale durante l’Avvento, si fa ancora una volta maestro e modello dell’accoglienza del Verbo fatto carne. Come discepoli dell’unico Maestro, che è l’unico Cristo e Signore rivelatosi nell’uomo Gesù di Nazaret, siamo chiamati ad agire con lo stesso suo cuore illuminato da una limpida consapevolezza che fa della relazione all’altro il centro prezioso e irrinunciabile della vita: <In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete> (1, 26). Proprio questa ignoranza di Cristo così discretamente presente da risultare apparentemente assente e financo inesistente può rendere la nostra vita così priva di senso o, talora, così supponente da rendere il nostro cuore bugiardo.

Siamo noi l’anticristo ogni volta che facciamo troppo caso a noi stessi e riserviamo un’attenzione inadeguata a <coloro che cercano di ingannarvi> (1Gv 2, 26). Ogni mattina siamo chiamati a ritrovare, invece, quell’umiltà appassionata e liberante che ci permette di negare noi stessi per affermare chi vogliamo essere in verità e semplicità: uomini e donne che danno spazio all’altro che riconoscersi allo specchio della vita quali persone autentiche. Nella nostra esperienza di fede siamo chiamati gradualmente a divenire capaci di negare a noi stessi di essere il <principio> e il centro della nostra stessa vita per dare sempre più spazio alla presenza di Cristo nella nostra vita: il suo abitare dentro di noi e camminare con noi è capace di conferire alla nostra esistenza le luci più belle e il senso più profondo. L’apostolo ci annuncia una grande gioia: <Se rimane in voi quel che avete udito fin da principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre. E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna> (2, 25). 

Accogliere… l’estasi

Madre di Dio

Nell’ottava del Natale del Signore risuona, quasi per ravvivare la contemplazione del mistero dell’incarnazione, la parola di Paolo: <Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna> (Gal 4, 4). La Madre di Dio – Maria di Nazareth – ha accompagnato, in modo singolare, tutto il nostro cammino di Avvento e fa tutt’uno con <Giuseppe e il bambino> (Lc 2, 16). Nella scena che si presenta ai pastori non è comunque facile abituarsi, fino in fondo, a questa idea: Dio nato da donna! I primi secoli della vita della Chiesa furono attraversati da molti turbamenti proprio a ragione di questo legame inscindibile tra la Madre e il Figlio di Dio. Non era certo facile da metabolizzare nella cultura ellenistica che una donna sia <veramente Madre di Dio> come si canta continuamente nella liturgia bizantina. Per gli antichi intuire e dire questo mistero richiedeva una grande fatica intellettuale. Per noi, supportati da secoli di riflessione teologica, la sfida è forse più esistenziale per far lavorare in noi il mistero della divina maternità di Maria dando il frutto da sempre atteso e sperato: <riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli> (Gal 4, 5). Contemplare Maria, quale Madre di Dio, significa rientrare a nostra volta in noi stessi per imitare il tratto più umano-divino di questa donna come noi. In Maria risplende quel modello di umanità possibile e altamente desiderabile riassunta con un primo piano dall’evangelista Luca: <Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore> (Lc 2, 19). Forse tra le cose che la Madre di Dio medita nel suo cuore è proprio l’esperienza di benedizione che è poter vedere così da vicino <il suo volto> (Nm 6, 25). La benedizione riservata ai sacerdoti che invocavano la divina protezione con le parole: <Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia> (6, 24) è ora offerta a tutti da una donna. Maria, madre del Signore, ci offre di accogliere la benevolenza divina in un bambino <adagiato nella mangiatoia> (Lc 2, 16). Questo bambino può essere non solo <visto> (2, 17), ma anche toccato e abbracciato. Tutto questo cambia il corso della storia facendola ripartire dalle donne e dai bambini… dai più poveri e i più piccoli. Sejourner Truth così si interrogava lottando per i diritti delle donne: <Quel piccolo uomo in nero laggiù dice che una donna non può avere gli stessi diritti di un uomo perché Cristo non era una donna. Ma da dove è venuto il vostro Cristo?>. La solennità con cui iniziamo il nuovo anno ci obbliga a non dimenticare di ripartire col piede giusto. Dobbiamo ripartire sempre da ciò che non si può imporre da sé come un <bambino>, ma chiede di essere accolto con amore. Siamo chiamati a stupirci di nuovo del prodigio di ogni maternità che si invera in ogni uomo e donna che si prende cura di chi è più debole e fragile.

Accogliere… l’estasi

Ottava di Natale

La differenza del modo di essere umano di Dio e del nostro modo di essere umani ad immagine di Dio è grande e questo è legato ad una questione di essenza: <Dio è amore> (1Gv 4, 8)! L’incarnazione del Verbo di cui l’evangelista Giovanni ci parla in modo magnifico nel suo prologo, non è altro che un’estasi amorosa che rende Dio così vicino a noi da farlo uno di noi, uno dei nostri, più reale e più vero nel suo modo di essere presente nella e accanto alla nostra vita di quanto noi stessi non riusciamo a fare. La Parola di cui ci viene manifestata la carne è il modo per indicare ciò che sta all’origine e alla fonte stessa della vita. Potremmo anche dire che <in principio era l’amore> e l’amore non si incarta, ma si incarna mettendosi a camminare sulle nostre strade di uomini.

Potremmo chiederci, mentre un anno si conclude, qual è la parola che fonda la nostra vita e su cui ogni giorno possiamo ricominciare a sperare e quindi ad amare. Se siamo sinceri dovremo riconoscere che è una domanda che sta al cuore del nostro vivere e del nostro soffrire: <Mi vuoi bene?>  e ancora <Quanto mi vuoi bene?>. Accogliendo questa domanda siamo obbligati a ritrovarla non solo nel nostro cuore, ma anche nel cuore degli altri e a cercare di dare una risposta facendo della nostra esistenza una incarnazione dell’abbraccio stesso di Dio per noi che si fa abbraccio di Dio per tutti. L’apostolo non ha timore a manifestare la sua preoccupazione a motivo di una possibile chiusura all’accoglienza del dono della presenza di Dio tra noi e dentro di noi, tanto da dire con tono severo: <di fatto molti anticristi sono già venuti> (1Gv 2, 18). Ciò non toglie che, nonostante tutto e anche in momenti di maggiore umbratilità, <la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta> (Gv 1, 5).

Nella sua lettera l’apostolo ci conforta e ci aiuta a concludere un nuovo anno sotto il segno di una speranza che non ha niente a che vedere con i soliti auguri, ma che tocca l’essenziale della nostra vita riaccolta come mistero di relazione a Dio che si realizza nel tempo, ma non si identifica con il tempo: <Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità> (1Gv 2, 20). Se l’apostolo evoca <l’ultima ora> (2, 18) non certo per spaventarci, ma per incoraggiarci ad un bilancio della nostra vita che non sia retrospettivo, ma prospettico: che cosa ci attendiamo dal tempo che viviamo e che ci è dato di vivere come un dono rinnovato? Se siamo un po’ turbati a motivo di quanto avviene dentro di noi e attorno a noi, la Parola ci conferma con non siamo soli poiché abbiamo <ricevuto l’unzione del Santo> (2, 20). Sotto questa immagine si indica la parola di Dio ricevuta attraverso Cristo Signore (cfr. Gv 6, 69) come pure lo Spirito Santo consolatore che accompagna, guida e conforta il cammino verso il compimento della storia. 

Accogliere… da poveri

Ottava di Natale

Anna è icona di tutti quei poveri che hanno non solo saputo attendere, ma che sono anche capaci di riconoscere e accogliere la realizzazione della loro attesa nei segni poveri e reali delle concrete visite del Signore. Nel Tempio dove accanto alla normalissima e umilissima famiglia di Nazaret forse alucni invocavano la venuta del Messia e fantasticavano sui modi e sui tempi della sua rivelazione ad Israele, Anna, invece, sa riconoscerlo fino ad accoglierlo tra le sue braccia e indicarlo ai vicini… chissà in quanti avranno ritenuto Anna non certo una <profetessa> (…), ma una vecchia visionaria e un po’ fuori di sé. Tutto il cammino del Signore Gesù nel Vangelo secondo Luca che va da Gerusalemme a Gerusalemme è incastonato da due figure di donne vedove capaci di indicare tutta la portata della novità del Vangelo.

Il digiuno e la preghiera sono stati capaci di scavare nel cuore della vedova Anna un posto comodo e spazioso per accogliere il Verbo fatto carne e non uno sguardo sospettoso su tutto ciò che non viene da se stessi e non corrisponde ai propri criteri e alla propria sensibilità.

Anna i cui sensi si sono affinati attraverso una lunga attesa fatta di digiuno e preghiera a sostegno di una continua attenzione e una profonda vigilanza, sa cogliere in questo bambino la parola più autorevole e più possente di Dio: una parola-evento che diventa lo spartiacque imprescindibile della storia e il riferimento irrinunciabile di ogni storia. Cosa cambia nella nostra vita la presenza di Cristo Signore venuto nella carne per poterci incontrare e per poterci amare? È questa una domanda che può e forse deve lavorare il nostro cuore in questo tempo natalizio in cui siamo chiamati a misurarci con l’essenziale della nostra vita poiché <il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno> (1Gv 2, 17). Tutto sembra quasi contraddittorio: l’apostolo denuncia l’amore per il mondo come in contrasto con la volontà di Dio, mentre l’evangelista Luca ci mostra il Verbo che non solo si fa carne, ma pure accetta di nascondersi nella terra della storia come un seme che si lascia cadere con infinita fiducia e si lascia abbracciare con sorridente abbandono.

Proprio la figura di Anna è scelta da Luca per chiudere i racconti dell’accoglienza del Verbo fatto bambino nell’abbraccio di un’umanità ritornata alla propria innocenza <con digiuni e preghiere> (Lc 2, 37) che sono il segno di una crescita interiore nella consapevolezza che apre alla relazione con Dio. Ed è l’umile uscire di scena di questa donna che sembra venire dal nulla e nel nulla scomparire che apre il lettore alla contemplazione di quel lungo tempo che sarà necessario anche a Gesù per divenire se stesso ed essere piena rivelazione dell’amore e del disegno del Padre: <fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui> (2, 39-40).

Accogliere… i perché!

Santa Famiglia

La contemplazione del mistero della famiglia di Gesù è un vero annuncio di gioia e di salvezza. La famiglia di Nazaret è, infatti, così particolare ed è segnata da una solitudine che sta alla base della vita in una comunione in cui i sentimenti più forti sono come levigati dal rispetto assoluto per il cammino dell’altro in cui le parole, in realtà, sono rare. Di Giuseppe non ci viene tramandata nemmeno una parola, nemmeno nel momento del ritrovamento di Gesù nel Tempio quando Maria riesce a confessare al figlio quanto erano stati <angosciati> (Lc 2, 48). La risposta non è certo un balsamo, anzi sembra quasi un pizzico di sale che trasforma quello che poteva sembrare un incidente in uno stile: <Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?> (2, 49). Le prime parole di Gesù sono una domanda e non una risposta. Sembra che siano i suoi genitori a dover dare una risposta e non il contrario. E la prima risposta sembra essere quella contro ogni angoscia che esprime la paura di perdere e di smarrire l’amore così come viene espressa dal cuore della madre: <Figlio, perché ci hai fatto questo?> (2, 48).

Se è vero che la conclusione del testo suona come un primo piano dell’attitudine proprio del Signore Gesù il quale <Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso> (2, 51), nondimeno questo sembra non possa avvenire senza una chiara presa di distanza di Gesù dai suoi genitori quando <rimase a Gerusalemme> (2, 45). La famiglia che accoglie il Verbo è un luogo in cui si sanno accogliere le inevitabili separazioni che sono il necessario preludio alle necessarie identificazioni con la propria missione che fa tutt’uno con il mistero della propria persona. Sembra che Giuseppe, Maria e Gesù abbiano appreso l’uno accanto agli altri l’arte della vera comunione che è custodia assoluta del mistero della propria solitudine in cui i sentimenti non vengono temperati, ma sono temprati con la disponibilità a dare all’altro tutto lo spazio per essere fedele a se stesso. La parola di Giovanni sembra aver potuto guidare le scelte profonde della famiglia di Nazaret: <se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio> (1Gv 3, 21).

Questa parola dell’apostolo che la tradizione riconosce come particolare esperto nell’amore, ci offre una luce per comprendere e per discernere. Cosa dovrebbe essere una famiglia e soprattutto a cosa serve una comunione di vita? La risposta sembra essere di fare spazio <al cuore> e di far maturare per quanto dolorosamente un senso di <fiducia in Dio> senza la quale persino la fede potrebbe degenerare in un’autocertificazione che rischia di accecare e di precludere le vie di un’obbedienza nelle fede che è sempre un’obbedienza nell’amore. Anna si fa profezia della logica ineluttabile della vita: <Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore> (1Sam 1, 28). Anna riprende il suo cammino di solitudine e lascia che Samuele faccia il suo cammino davanti a Dio per diventare se stesso fino ad essere costituito profeta. L’apostolo Giovanni ci rammenta con forza l’essenziale: <vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente> (1Gv 3, 1). La sfida della vita credente è rinunciare ad ogni forma di paternità e maternità come auto-eternazione per entrare nella comune avventura di figliolanza che ci rende fratelli e sorelle più che madri e padri. Lo stesso apostolo ci dà pure un criterio di discernimento: <In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato> (3, 24). Lo Spirito che ha adombrato Maria rendendo possibile l’impossibile, lo Spirito che ha reso capace Giuseppe di decidere liberamente di mettere al primo posto l’amore invece di difendere il suo onore, lo Spirito che ha sospinto Gesù sulle nostre strade e lo ha reso raffinato compagno dei nostri sogni e dei nostri smarrimenti.

Accueillir… les pourquoi !

Sainte Famille

La Sainte Famille – La contemplation du mystère de la famille de Jésus est une véritable annonce de joie et de salut. La famille de Nazareth est, en effet, si particulière et marquée par une solitude qui se trouve à la base de la vie dans une communion où les sentiments les plus forts sont comme lissés par le respect absolu pour le chemin de l’autre et dont les paroles, en réalité, sont rares. De Joseph il ne nous est rapporté pas même une parole, même pas au moment des retrouvailles de Jésus au Temple lorsque Marie réussit à confesser au fils combien ils avaient été «  angoissés » ( Lc 2, 48 ). La réponse n’est certes pas un baume, mais ressemble presque à une pincée de sel qui transforme ce que l’on pouvait qualifier d’incident en une expression : «  Pourquoi me cherchiez-vous ? Ne saviez-vous pas que je devais m’occuper des affaires de mon Père ? » ( 2, 49 ). Les premières paroles de Jésus sont une question et non une réponse. Il semble que ce sont les parents qui doivent donner une réponse et non le contraire. Et la première réponse semble être celle contre toute angoisse qui exprime la peur de perdre et de voir disparaître l’amour comme cela est exprimé par le coeur de la mère : «  Fils, pourquoi nous as-tu fait cela ? » ( 2, 48 ).

S’il est vrai que la conclusion du texte résonne comme un premier pas de l’attitude du Seigneur Jésus lequel «  Descendit donc avec eux et vint à Nazareth leur restant soumis » ( 2, 51 ), il semble pourtant que cela ne puisse advenir sans une claire prise de distance de Jésus par rapport à ses parents lorsqu’il «  était à Jérusalem » ( 2, 45 ). La famille qui accueille le Verbe est un lieu où l’on sait accueillir les inévitables séparations qui sont le prélude nécessaire aux indispensables identifications avec sa propre mission qui ne fait qu’un avec le propre mystère de la personne. Il semble que Joseph, Marie et Jésus ont appris les uns des autres l’art de la vraie communion qui est la protection absolue du mystère de la propre solitude où les sentiments ne sont pas tempérés, mais ils se tempèrent par la disponibilité à donner à l’autre tout l’espace pour être fidèle à soi-même. La parole de Jean semble avoir pu guider les choix profonds de la famille de Nazareth : «  Si notre coeur ne nous reproche rien, ayons confiance en Dieu » ( 1 Jn 3, 21 ).

Cette parole de l’apôtre que la tradition reconnaît comme particulièrement importante en amour, nous offre une lumière pour comprendre et discerner. Que devrait être une famille et surtout à quoi sert une communion de vie ? La réponse semble être de faire de la place  au «  au coeur »  et de faire mûrir, même si c’est douloureux un sens de «  confiance en Dieu » sans laquelle, même la foi pourrait dégénérer en une auto-certification qui risque d’aveugler et d’empêcher une obéissance à la foi qui, est toujours une obéissance à l’amour. Anne devient la prophétie de la logique inéluctable de la vie : «  Moi aussi, je le donne au Seigneur pour tous les jours de sa vie » ( 1 Sam 1, 28 ). Anne reprend son chemin de solitude et laisse Samuel faire son chemin devant Dieu pour devenir lui-même jusqu’à être constitué prophète. L’apôtre Jean nous rappelle avec force l’essentiel : «  Voyez quel grand amour nous a donné le Père en nous appelant fils de Dieu, et nous le sommes réellement » ( 2Jn 3, 1 ). Le défi de la vie du croyant est de renoncer à toute forme de paternité et de maternité comme auto- continuation pour entrer dans l’aventure commune de la filiation qui nous rend frères et sœurs plus que mères et pères. Le même apôtre nous donne aussi un critère de discernement «  Voici en quoi nous reconnaîtrons qu’Il demeure en nous : par l’Esprit qu’il nous a donné » ( 3, 24 ). L’Esprit qui a recouvert Marie de son ombre, rendant possible l’impossible, l’Esprit qui a rendu Joseph capable de décider librement de mettre l’amour au premier plan au lieu de défendre son honneur, l’Esprit qui a transporté Jésus sur nos routes et l’a rendu compagnon exquis  de nos rêves et de nos désarrois.

Accogliere… l’incubo

Santi Innocenti

I versetti omessi nella festa della Santa Famiglia, vengono ripresi dalla liturgia odierna per celebrare il ricordo dei santi Innocenti, tutti quei <bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù> (Mt 2,16) nel tempo in cui il Figlio di Dio è venuto al mondo. Sebbene il numero di queste vittime innocenti vada immaginato certamente esiguo rispetto a molti altri massacri di cui la storia ci ha resi non sempre innocui spettatori, ciò nondimeno solleva in noi un grave turbamento pensare che tale eccidio rappresenti una delle prime conseguenze del Natale del Signore. Addirittura inquietante è il fatto che la chiesa lo celebri come una festa, affermando che <nei santi Innocenti> Dio è <stato glorificato non a parole, ma con il sangue> (Colletta). Certo, nella vita spezzata di questi bambini, che non sanno di morire a causa di Cristo, possiamo vedere rappresentato, e in certo modo, riscattato, il sangue di tutti i giusti da Abele a Zaccaria (cf. Lc 11,51), dal più noto fino al più sconosciuto innocente di ogni sterminio perpetrato lungo i secoli. Possiamo persino cogliervi la più limpida prefigurazione del sacrificio di Cristo, il Figlio innocente che è morto <una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti> (1Pt 3,18), per ricondurre a Dio l’umanità intera. 

La chiave di accesso più adeguata alla festa di oggi è offerta proprio dalla riflessione dell’apostolo Giovanni, che trasforma il <grido> (Mt 2,18) del nostro disappunto in uno sguardo sincero dentro il mistero del nostro cuore: <Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi> (1Gv 8,8-10). Nell’atmosfera drammatica di questa festa liturgica, siamo invitati a percorrere quella distanza, mai breve, che separa ciò che noi diciamo di essere da ciò che in realtà siamo, fino a scorgere e accettare la presenza di una forte ambiguità in noi, che si manifesta soprattutto quando veniamo spodestati dalla poltrona delle nostre sicurezze e dei nostri poteri. Il furore di Erode, che non tollera che ci si prenda <gioco di lui> (Mt 2,16) e avverte come un incubo la venuta di un messia, non ha alcuna giustificazione. Tuttavia nemmeno le <tenebre> (1Gv 1,5) che abitano in noi e nelle quali spesso camminiamo possono essere facilmente giustificate o comprese. 

Sappiamo soltanto che <Dio è luce e in lui non ci sono tenebre> (1,5) e che <abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto> (2,1). Questa coscienza attenua l’orrore suscitato dal ricordo del sangue innocente, diventa speranza <per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo> (2,2). Una speranza che certo consola, ma che pure deve rafforzare in noi il cammino di conversione che riparte sempre da una presa di coscienza: l’innocenza è davanti a noi e si conquista con il sangue di una vita accolta e di una vita interamente donata. Non c’è altra via per sottrarsi all’incubo di Erode che ci può trasformare in un incubo per i nostri fratelli, soprattutto per i più piccoli.