Perché?
XXIII settimana T.O. –
La domanda che il Signore Gesù lancia come sfida è una questione dolorosamente e perennemente aperta per tutta la vita: <Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?> (Lc 6, 46). Lungi da noi cercare di dare una risposta a questa domanda, ammassando semplicemente meriti e trasformando la nostra vita di discepoli in un’opera di beneficenza. Persino tanta beneficenza può nascondere un vuoto da riempire piuttosto che essere l’espressione autentica di un sentire profondo che diventa l’identità della nostra vita. Essere discepoli significa prima di tutto sprofondarsi letteralmente nell’ascolto e lasciare che le radici della propria vita raggiugano la sorgente che scaturisce dalla roccia e che non dipende dal tempo e dalle stagioni, ma rimane perennemente viva. Allora saremo <albero buono> (Lc 6, 43) e porteremo nel nostro cuore un vero <buon tesoro> (6, 45). Come ci ricorda l’apostolo ciò che fa la differenza è il riferimento della nostra vita: <Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori> (1Tm 1, 15) e lo fa con <misericordia> e <magnanimità> (1, 16).
Questo atteggiamento divino nei confronti di ciascuno di noi ci permette una coerenza altrimenti impossibile tanto che l’albero produce i suoi frutti, la casa dalle salde fondamenta resiste a tutte le intemperie e il Maestro genera dei discepoli che sono l’incarnazione della sua parola profonda e autorevole. Alla luce di questa parola che scuote le fondamenta della nostra vita perché ci interroga possiamo dire che tra il dire e il fare non c’è di mezzo il mare, ma il cuore. Il Signore Gesù apre per ciascuno un cammino di chiarezza interiore impossibile senza un serio impegno di chiarificazione: se siamo puri nel cuore lo saremo anche negli atti che il cuore ci ispirerà; se Dio non solo è di casa sulle nostre labbra, ma è l’ospite interiore più amato e accolto, allora le nostre parole saranno un riflesso della sua presenza.
Tra le prospettive possibili e le molteplici bellezze della parabola che la Liturgia ci offre possiamo sottolineare che una casa non è solo un luogo per se stessi, ma normalmente è un luogo condiviso anche quando non fosse ambito di quotidiana convivenza. Allora è molto bello fare memoria del passo che abbiamo ascoltato ieri circa la spinosa questione della pagliuzza e della trave. Un piccolo raccontino può aiutare a cogliere un nesso non immediato tra queste due parabole. <Due uomini dopo aver ascoltato la parabola della trave e della pagliuzza ne furono molto toccati. Allora uno di loro scardinò dal suo occhio la trave e, subito dopo, aiutò con la più grande delicatezza di questo mondo il suo amico a togliere dal suo una piccola pagliuzza. Finalmente ambedue ci videro bene e chiaramente e si chiesero cosa farne della pagliuzza e della trave. Decisero di costruire insieme una casa: la trave servì da struttura e la pagliuzza da copertura del tetto. Le pietre della muta comprensione furono cementate con la carità e le occasioni mancante nel reciproco amore furono trasformate da buchi in finestre da cui il sole della misericordia e del perdono poteva inondare e rallegrare l’interno della casa. Quando l’uragano si abbatté su quella casa essa non cadde perché era costruita bene>.
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