Provati

XXXII settimana T.O.  –

La prima lettura spinge lo sguardo del nostro cuore fino a quello che viene indicato come <il giorno del loro giudizio> (Sap 3, 7). Da parte sua il Signore Gesù, nel vangelo, ci fa cogliere non solo e non tanto il tempo, ma anche il modo con cui saremo giudicati nel nostro essere meno degni dell’<incorruttibilità> (2, 23) e dell’<immortalità> (3, 4). Sono queste due nozioni non radicate né radicali nella sensibilità di Israele e che tuttavia, a poco a poco, soprattutto al tempo della predicazione del Signore Gesù, diventano un criterio di discernimento della bontà e della verità del proprio rapporto con Dio. Vivere pienamente questo rapporto con l’eterno, non si limita più ad un corretto modo di comportarsi nel tempo, un modo che garantirebbe una vita serena e felice, ma è qui considerato talmente profondo e vero da avere – in modo del tutto naturale – una valenza eterna. Il concetto di eternità così caro agli Egizi e ai Greci diventa sempre di più anche l’orizzonte della fede di Israele: <In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici> (3, 5).

La solenne promessa non è scevra da qualche malinteso e da una certa ambiguità. Non si tratta infatti di un contrappasso tale per cui più si soffre in vita e più si dovrebbe godere nel futuro di Dio. Si tratta invece di un modo di concepire la vita – che comunque rimane un’avventura da vivere fino in fondo – qui e ora – senza rimandi inutili, e pur sempre con una certezza di pienezza.  Ciò che fa la differenza non è una sorta di “fachirismo” spirituale spinto ad oltranza che, pur con le sue punte di originalità e di venerabilità, ha segnato tante esperienze di fedeltà al Vangelo lungo i secoli, ma è il fatto di essere <provati> e <trovati degni di sé> (3, 5). Ed è a questo che ci invita il Signore Gesù, come è su questo che ci esamina: sulla nostra capacità di essere <degni di sé>! Il modo per capirlo sembra essere assai semplice: <Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”> (Lc 17, 10).

Si può intendere questa parola del Signore come l’invito ad una muta e subìta sottomissione, oppure come il modo per manifestare il proprio essere <provati> (Sap 3, 5) nella relazione. Una matura e provata relazione è capace di accettare la sfida di mettere sempre l’altro al primo posto, non facendo troppo caso a sé stessi e, al contempo, giocando interamente se stessi in relazione all’altro, per manifestare la verità della propria identità. L’immagine del padrone che non sente neppure il bisogno di ringraziare perché si arroga il diritto di essere servito – nel linguaggio parabolico – può sembrare un po’ dura: <Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?> (Lc 17, 9). In realtà non è del padrone che il Signore ci vuole parlare, bensì di noi chiamati ad essere a nostro agio in un atteggiamento sereno di servizio che non si interessa dell’intemperanze di chi comanda, ma della dedizione con cui si serve l’altro, manifestando così di non ritenersi in nulla il centro del mondo. La sfida è di accettare il proprio ruolo vivendo fino in fondo il compito che la vita ci ha affidato senza troppe complicazioni. Tutto questo può sembrare duro, talora è anche un po’ ingiusto, eppure è l’unico modo per essere liberi davvero.

1 commento
  1. cristina
    cristina dice:

    Vivere la vita assumendo fino in fondo il compito che ci è stato affidato
    è un impegno per non crearci inutili aspettative e mantenere l’attenzione rivolta al Signore Gesù,
    al servizio da rendere a Lui nei nostri fratelli

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