Timore
XXVIII settimana T.O. –
Qualcuno sostiene di avere contato tutte le volte in cui nelle Scritture ritorna l’invito a non temere e a non avere paura! Secondo questo calcolo sarebbero trecentosessantacinque le volte in cui il Signore invita a non lasciarsi prendere dal panico… una per ogni giorno dell’anno. In questo modo sarebbe chiaro come il segno di una relazione con Dio autentica e reale si dedurrebbe da una capacità ad attraversare le non sempre facile acque della vita, con un senso di fiducia profonda. Il Signore Gesù fonda questa nostra fiducia nella consapevolezza di essere oggetto di una cura e di una benevolenza che ci precede e ci accompagna fino a dire che <Anche i capelli del vostro capo sono contati> e a rassicurarci sul fato che <valete più di molti passeri> (Lc 12, 7). Nondimeno quella cui il Vangelo ci esorta non è una fiducia inconsapevole e ingenua. Nello stesso passo veniamo energicamente esortati anche a maturare e coltivare un timore fatto di consapevolezza e di vigilanza su noi stessi: <Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete costui> (12, 5).
A questo punto bisognerebbe contare tutte le volte in cui le Scritture invitano temere il Signore che, secondo gli Scritti, è il principio stesso della sapienza (Sir 1, 12). Non sarebbe impossibile, che l’invito a temere il Signore sia equivalente, se non numericamente almeno qualitativamente a quelli in cui siamo invitati a non avere paura. La sfida per ogni discepolo è quella di non essere schiavo, ma di essere profondamente libero e questo significa ogni giorno saper superare i condizionamenti che, attraverso la paura, rischiano di farci vivere in modo inadeguato alla nostra umanità e nondimeno saper scegliere quali limiti imporre e quali direzioni proporre alla propria vita.
Questo è stato il cammino, lungo e talora difficile e puntellato di non poche regressioni, del nostro padre Abramo. Riguardo a lui potremmo porci la stessa domanda che si pone l’apostolo: <Che cosa ha ottenuto?> (Rm 4, 1). Se rileggiamo la storia di fede di Abramo ci rendiamo conto che aldilà e al di sopra di tutto – persino della discendenza così a lungo attesa e sperata – il Patriarca è divenuto sempre di più libero nella fede e un uomo di fede sempre più libero e, perciò stesso, sempre più vero con se stesso e con gli altri. Infatti, la lunga attesa cui il Signore lo costringe è un modo per aiutare Abramo a prendere coscienza, sempre più chiaramente, di ciò che veramente abita e desidera il suo cuore. Questo suo cammino è anche il nostro! Siamo infatti chiamati a fare chiarezza nel nostro cuore e mettere sempre più <in piena luce> (Lc 12, 3) ciò che ci abita profondamente e veramente. Se ci nascondiamo saremo necessariamente scovati, se accettiamo di venire allo scoperto saremo sicuramente e dolcemente ricoperti da quel mando di misericordia e di benevolenza che non è mai connivenza con le tenebre della menzogna: <beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato> (Rm 4, 8), ancora più beati siamo quando il Signore si rivolge a noi chiamandoci <amici miei> (Lc 12, 4).
Deo gratias!