Attendere… nell’estrema povertà

I settimana T.A. –

Ancora una volta ci lasciamo introdurre nella meditazione delle letture dalle parole della preghiera della Liturgia di quest’oggi. Mentre si preparano e presentano i doni così prega il presidente <all’estrema povertà dei nostri meriti supplisca l’aiuto della tua misericordia>. E possiamo ben immaginare quale esperienza di <estrema povertà> sperimentano quei due ciechi che si accostano al Signore Gesù <gridando> (Mt 9, 27). Si compie così la promessa del profeta: <liberati dall’oscurità e dalle tenebre gli occhi dei ciechi vedranno> (Is 29, 18). Vivere questo tempo di Avvento come ambito di rinnovata speranza significa attraversarne i giorni come una presa di coscienza di tutto ciò che, nella nostra vita, rischia di imprigionare la vita che il Signore ha posto in noi come seme. Il nostro cuore è – o almeno è chiamato ad essere – un piccolo <Libano> che, secondo la parola di Isaia, <si cambierà in un frutteto e il frutteto sarà considerato una selva> (29, 17).

Un testo di Henri Huvelin, il padre spirituale di fr Charles de Foucauld, ci rammenta che questo tempo<è una preparazione per accogliere colui che deve venire e in cui l’anima – conscia della sua miseria – si volge al suo Signore per ricevere una parte di Misericordia. Così si vive nell’attesa di vedere sempre di più e meglio>1. Per questo non possiamo che fare nostro il grido accorato di questi due ciechi: <Figlio di Davide, abbi pietà di noi> (Mt 9, 27). Come non sottolineare che la reazione del Signore a questa richiesta non riguarda la sua potenza e meno ancora la sua onnipotenza ma ci richiede un attento esame della nostra fede che sola rende possibile al Signore di agire nella nostra vita. Senza questo varco è come se la Misericordia rimanesse <alla porta> (Is 29, 21) senza mai poter entrare nella casa della nostra vita. Il Signore vuole che i nostri occhi vedano, ma questo è legato alla nostra volontà di non chiudere le orecchie diventando così <sordi> (29, 18): se così fosse a nulla varrebbe il suo desiderio di amarci e di salvarci. Di fatto non c’è niente di più semplice come il guardare, ma è ancora più semplice l’ascoltare perché se gli occhi hanno le palpebre gli orecchi sono sempre e solo aperti. 

Eppure, se è così facile guardare talora è molto difficile vedere e tutta la vita è come un lento apprendistato della visione fino a poter contemplare Dio gli occhi negli occhi. Ciò sarà possibile solo come frutto della preghiera e dell’incontro con il Signore Gesù da cui possiamo sperare di avere un poco del suo sguardo su Dio, sul mondo, su noi stessi… un modo di guardare capace di vedere persino attraverso e oltre la nostra – e non solo nostra – <estrema povertà>. In questa nostra povertà riconosciuta e offerta può germinare la fede. L’ingiunzione finale di Gesù: <Badate che nessuno lo sappia> (Mt 9, 30) ci ricorda che la guarigione non è una “notizia” da diffondere bensì un’esperienza da vivere e da vivere in prima persona. Sapere e far sapere è cosa assai semplice, credere e far credere è ben altra cosa. La domanda posta da Gesù ai due ciechi rimane alla base di ogni esperienza di guarigione: <Credete che io possa fare questo?> (9, 28). Prima di andare in giro a dire ai quattro venti che Gesù è capace di questo o di quello, è necessario rispondere personalmente e appassionatamente a questa domanda… che è per noi.


1. H. HUVELIN, Le regard du Christ, Fayard, Paris 1960, p. 115.

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