Sfida

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Pregare per i defunti e commemorare la loro vita ci permette di fare memoria della loro presenza tra di noi proprio quando essi non possono più imporsi alla nostra attenzione. Questa pratica, che prima di essere “ecclesiale” è un modo distintivo di ogni umana civiltà che si sia emancipata da un livello più animale, non è semplicemente una pratica tradizionale della Chiesa e di tutta l’umanità, ma è una sfida ed una provocazione. Fare memoria dei defunti significa, infatti, sfidare la morte attraverso una fiducia nella vita che si fa fede nella risurrezione come possibilità inattesa di una possibile insurrezione dell’amore. Il grido di Giobbe diventa una sorta di manifesto della nostra coscienza di uomini e donne creati per l’immortalità intesa come pienezza di vita in una relazione che non può morire: <Sì io lo vedrò…> (Gvb 19, 26-27). Questo faccia a faccia sperato e quasi protestato da Giobbe non sarà come quello di Adamo ed Eva nel momento della loro paura e della loro cacciata dal giardino di Eden, ma come quello del figlio minore che torna a casa a testa bassa e viene invece accolto con tutti gli onori dell’amore fino ad essere motivo di <festa>. Laddove la morte viene avvertita come fine, la nostra fede la trasforma invece in un tempo intermedio di preparazione come ci ricorda il profeta Isaia quando dice che <preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande> (Is 25, 6>. 

Se il Signore sta preparando una pienezza di vita per ciascuno dei suoi figli, possiamo chiederci in che misura e soprattutto in che modo noi ci stiamo preparando alla morte non come interruzione della vita, ma come necessario passaggio della vita. Non si tratta certo, come si vede in alcune raffigurazioni antiche, di tenere in bella mostra sulla scrivania un teschio per meditare sulla fallacia della vita e di tanti suoi aspetti che riteniamo essenziali e, molto spesso, persino piacevoli. La sfida è di vivere in pienezza perché la morte ci trovi vivi e non già morti, perché la morte ci trovi pieni di desiderio di vita e non giù sazi o stufi o tutt’è due insieme. Sostare nella memoria dei nostri cari che ci hanno preceduto nel segno della fede e di una vita autentica significa fare la tara di quel <pungiglione> (1Cor 15, 56) che rischia di avvelenarci fino ad ucciderci: si tratta del pungiglione dell’ingratitudine e della superficialità.

La memoria del nostro modo di reagire alla presenza dei fratelli <più piccoli> (Mt 25, 40) accanto a noi e dentro di noi diventa così il criterio prima che della morte, della nostra vita che si fa preparazione e attesa operosa di un compimento che esige il necessario passaggio attraverso il mistero della morte. La preghiera per i defunti e il sostare sulle tombe dei nostri cari diventa così una piccola scuola di umanità per non cedere all’ingratitudine e alla superficialità. Dovremmo essere fedeli in prima persona a questa pratica, ma pure non dimenticare di trasmettere questa sapienza alle generazioni più giovani che rischiano di vivere in una tale oblio del mistero della morte, da cadere nella trappola dell’illusione.

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