Tetragramma

Cristo Re dell’Universo

Alla nostra sensibilità rischia di risuonare come eccessiva e un po’ pedante l’insistenza dei nostri fratelli ebrei sull’impronunciabilità del nome di Dio rivelato a Mosè. Questo nome è formato da quattro consonanti che venivano vocalizzate dal sommo sacerdote, una sola volta l’anno nel Giorno dell’Espiazione, in mezzo ad una coltre impenetrabile di profumi e di incensi. Quattro lettere fanno la memoria di Israele come popolo di Dio – e segno in mezzo ai popoli – dell’immenso amore che l’Altissimo nutre per tutta l’umanità. Eppure, più o meno inconsciamente, nella nostra tradizione cristiana, abbiamo recuperato queste quattro lettere ponendole come cartiglio sulla croce, segno che riprende ciò che troviamo nel Vangelo: <Sopra di lui c’era anche una scritta: “Costui è il re dei Giudei”> (Lc 23, 38), enunciato su cui l’evangelista Giovanni indugia facendone l’ultimo motivo di tensione tra i Giudei e Pilato. Questa scritta è stata tradizionalmente abbreviata nella nostra tradizione latina così: <INRI>. Quattro lettere non più impronunciabili, ma ben più gravemente impensabili e persino temibili. Dire infatti che il nostro re sia quello che pende dalla croce è qualcosa che esige una presa di posizione non solo davanti al mistero della stessa, ma anche davanti al mistero dell’amore che è capace di arrivare <fino alla fine> (Gv 13, 1) e ben oltre ogni immaginabile fine. Giovanni Crisostomo commenta: <Il paradiso chiuso da migliaia di anni è stato aperto per noi “oggi” dalla croce. Infatti, oggi, Dio vi ha introdotto il ladrone. Compie, in questo, due meraviglie: apre il paradiso e vi fa entrare un ladro. Sicuramente, nessun re permetterebbe a un ladro o a un altro suo soggetto di sedersi con lui mentre fa il suo ingresso in una città. Questo, invece, Cristo l’ha fatto: quando entra nella sua santa patria, vi introduce un ladro insieme con lui>1.

Con la liturgia odierna portiamo a compimento non solo questo anno liturgico, ma pure il triennale ciclo liturgico che ci fa leggere, nel susseguirsi delle domeniche e delle feste, l’intero Vangelo. Così l’ultima parola è una verità, l’ultima e il fondamento di ogni percezione della verità che non è un’autorivelazione di Gesù, bensì l’adesione ad una relazione: <In verità io ti dico: oggi con me sarai in paradiso> (Lc 23, 43). Le parole che il Signore Gesù morente rivolge al ladrone sono come il riassunto di tutta la sua vita e la ricapitolazione di tutti i suoi gesti di accoglienza e di perdono su cui l’evangelista Luca insiste in un modo unico con le sue indimenticabili parabole – pensiamo a quelle del figliol prodigo – e i suoi magnifici gesti – pensiamo alla donna peccatrice e a Zaccheo-. Sotto la croce, o meglio sopra la croce, si consuma l’ultima tentazione di Cristo in cui possiamo riconoscere la tentazione sottile che attraversa sempre la nostra vita: la dimostrazione. Proprio a conclusione delle tentazioni nel deserto si dice che il <diavolo si allontanò dal lui fino al momento fissato> (Lc 4,13). Ed ecco il grande appuntamento in cui ciò che il Signore Gesù ha intuito nel suo tempo di deserto deve essere come assunto nelle sue estreme conseguenze. Ancora una volta e per ben tre volte – esattamente come nel deserto – ritorna il terribile <Se…> che accompagna la storia e il dramma della nostra libertà fin dal primo dialogo con il serpente (Gn 3).

Il Signore Gesù, come un vero re, dà udienza a tutti e dall’umilissimo trono della croce si mette in una posizione di così assoluta vulnerabilità da permettere a tutti e a ciascuno di esprimersi senza timore alcuni: tutti parlano e tutti si esprimono, <i capi>, <i soldati>, <uno dei malfattori> e anche <L’altro>. Nel mistero di questa festa ora tocca a noi di dire la nostra al Signore Gesù crocifisso…! La cosa più bella che potremmo dirgli è <Ecco noi siamo tue ossa e tua carne> (2Sam 5, 1). Così, in un amore riconosciuto e abbracciato, la croce si trasforma da patibolo in roveto ardente e la sua logica diventa il nostro tetragramma sacro, il nostro modo di concepire Dio e di concepire noi stessi: incapaci di fare nulla per gli altri, ma sempre disposti a vivere ogni cosa <con> (Lc 23, 43) chiunque incrocia il nostro cammino di uomini e donne. Se, infatti, accettiamo di condividere con tutti la <pena> (23, 40) di vivere ci ritroveremo, quasi per incanto, <nel paradiso> (23, 43) ormai <liberati dal potere delle tenebre> (Col 1, 13).


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, Discorsi sulla Croce e il ladrone, 1, 2.

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