Conversione
XXVIII settimana T.O. –
La parola un po’ offesa del dottore della Legge sembra irritare il Signore Gesù fino ad indurlo a rendere ancora più dura la sua parola: <Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi> (Lc 11, 45). La risposta non si fa attendere: <Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!> (Lc 11, 46). C’è ben altro che sentirsi offesi, quando c’è di mezzo la vita e la serenità di quanti sono gravati già in modo eccessivo dai pesi della vita. Secondo il modo di sentire di Cristo Signore, la relazione con Dio non dovrebbe mai diventare un ulteriore peso che gravi sulla vita già dura, difficile, esigente. Ciò che non bisogna <trascurare> (11, 42) mai è l’attenzione e la sensibilità alla sofferenza, alla fatica, al dolore. L’apostolo Paolo interroga quasi mettendo alla sbarra il piccolo dottore della Legge che si annida nel nostro cuore ogni volta che dimentichiamo la compassione: <O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione> (Rm 2, 4).
In questo contesto la conversione non è prima di tutto in relazione a Dio, ma riparte continuamente dalla capacità di convertire il proprio modo di porre lo sguardo sul fratello senza cedere alla tentazione di giudicare. Non si tratta di cedere ad un qualunquismo incapace di discernimento e di denuncia del male, ma la sfida è di non disgiungere mai il cammino della conversione dalla compassione che ci tiene al riparo dalla tendenza ad avere troppa attenzione per noi stessi e poco riguardo verso gli altri. Con tono assai forte, Paolo ci ricorda che ogni mancanza di compassione e di attenzione è una forma di bestemmia contro Dio, perché si dimentica l’essenza del modo divino di rapportarsi alle sue creature. E allora il principio si fa criterio di discernimento su se stessi prima che sugli altri: <Chiunque tu sai, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose> (2, 1).
Non si tratta certo di un invito alla complicità, ma di un pressante invito alla fraternità il cui primo passo è sentire e riconoscere di vivere le stesse fatiche, tanto da essere capaci di sostenersi generosamente nella fatica. Ciò da cui bisogna guardarsi è di cedere ad avere un <cuore duro e ostinato> (2, 5). Uno dei primi segni è di non amare né cercare <i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze> (Lc 11, 43) accettando invece di camminare e sedere sempre come e accanto agli altri in una parità che crea le condizioni di una conversione condivisa. Il primo passo è la libertà di essere in verità ciò che siamo senza più doversi continuamente nascondere e mascherarsi. Persino le tombe potranno diventare luoghi di risurrezione a condizioni che siano state luoghi di verità.
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