Compiere
XX settimana T.O. –
Per il Signore Gesù il compimento non è possibile se non a partire da un adempimento personale che impegni le energie migliori di ciascuno per dare carne e corpo a ciò che si sente, si pensa, si crede. L’esperienza di Rut conferma e anticipa profeticamente lo stile e la predicazione del più illustre tra i suoi discendenti che è il Verbo fatto carne e nato a Betlemme. Il compimento non è semplicemente frutto di decisione e di sforzo, ma è il risultato di una profonda ed efficace sinergia tra il dono ricevuto e la capacità di metterlo a frutto. Il primo passo sembra proprio essere quello di rinunciare ad ogni sistema di privilegio: <Ma voi non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli> (Mt 23, 8). Il compimento fedele della Legge esige l’appassionata capacità di ascoltarsi, di accogliersi, di incontrarsi, di accompagnarsi. Si tratta di rinunciare a pensare se stessi e a offrire se stessi come modello, per amare di più di stare accanto accettando di avere pure bisogno che qualcuno ci stia accanto. Ogni volta, infatti, che si pensa a se stessi come un modello da offrire ad altri, il rischio è proprio quello e quasi inavvertitamente di cominciare a coltivare le apparenze a danno della verità di se stessi e dell’autenticità della relazione.
Come possiamo immaginare che qualcuno ci scelga come punto di riferimento senza ricordargli che tutti dipendiamo dal Signore. Il Vangelo ci ricorda di non diventare mai, in nessun modo e per nessuno un peso, ma dei fratelli amorevoli e sempre “alla pari”. È facile salire in cattedra, costoso rimettersi sui banchi della scuola della vita, ambizioso insegnare, laborioso imparare. Non si tratta di rifiutare il servizio di fare da punto di orientamento per la vita degli altri, ma sempre distinguendo accuratamente il servizio dalla propria identità più profonda e più vera. L’esperienza di Rut è una grande lezione di coerenza come capacità di stare accanto a una persona per fedeltà a se stessi e al proprio cuore, prima di tutto e soprattutto. Come dice Aristide per difendere la condotta dei primi cristiani <cio che essi non vogliono che gli altri facciano loro non lo fanno nei riguardi di nessuno>1. Uno dei primi segni di questa capacità, che potremmo ben definire come abilità di coerenza fondata sull’inerenza come fedeltà alla propria coscienza interiore e segreta, consiste nel non far portare ad altri quei pesi che noi stessi non saremmo in grado o comunque non ameremmo di sopportare. Proprio la memora commossa dell’esperienza di Rut, che è indubbiamente una delle storie più belle e toccanti di tutte le Scritture, rende ancora più forte la parola di avvertimento che il Signore Gesù <rivolse alla folla e ai suoi discepoli> (Mt 23, 1).
Sembra quasi una sorta di nemesi o di catarsi! Infatti, la parola del Maestro mette in luce i limiti e le ambiguità di coloro che si sentono in diritto e in dovere di giudicare l’operato degli altri e di mettere in guardia i propri discepoli persino dal frequentare coloro che vengono ritenuti inaffidabili perché non chiaramente integrati. Il sentimento dominante e ricorrente di Rut, che si perpetua nel nome che sarà dato al frutto del suo grembo – Obed/servo –, contrasta luminosamente con ciò che il Signore indica come il difetto o quasi la malattia dominante di scribi e farisei
1. ARISTIDE, Apologia, XV, 4. Cfr.: Fratel MichaelDavide, Rut, donna altra, Meridiana, Molfetta 2007.
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