Attesa

VI settimana

Ci vuole tempo perché il diluvio rientri, ci vuole tempo, ma anche distanza, per vedere bene la realtà e poter riprendere a vivere senza dimenticare quello che la vita ci ha insegnato talora in modo assai doloroso. Si dice nel testo della prima lettura che Noè <attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca> (Gn 9, 8) e ancora <Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba> (9, 12). Le Scritture ci presentano in Noè la figura dell’uomo che ha un rapporto giusto con il tempo e con lo spazio e per questo è capace di attraversare i tempi più duri e di ricominciare in modo nuovo ad abitare lo spazio della creazione. Il diluvio che ha inghiottito la terra si ritira con calma, e l’asciutto riemerge lentamente. Che il diluvio sia durato un anno e dieci giorni, o solo quaranta giorni preceduto da una settimana e seguito da altre tre settimane, non ha molta importanza. Ciò che importa è che Noè ha saputo attendere tutto il tempo necessario e si è lasciato aiutare da quegli stessi animali che aveva salvato introducendoli nell’arca per capire che cosa stava succedendo attorno a sé e trasformarlo in preghiera: <Allora Noè edificò un altare al Signore… il Signore ne odorò il profumo gradito> (8, 20-21). 

È difficile accettare i tempi lunghi necessari alla vita e la Parola ci aiuta ad entrare in questa attitudine facendoci contemplare la pazienza di Noé in cui si riflette la stessa <divina pazienza> (Rm 3, 26; 1Pt 3, 20). Il patriarca seppe portare un lungo tempo di attesa ben più lungo del tempo della stessa preparazione dell’arca e del tempo che durò il diluvio di acque. Non solo ci vuole tempo, ma anche molta calma per vedere e per comprendere <chiaramente> (Mc 8, 25). Da parte sua lo stesso Signore Gesù prende tempo per guarire il cieco. Si comincia con un primo tentativo che permette di vedere ma non così nitidamente. Si tratta, infatti, di vedere e di vedere <da lontano>. Perché uno possa dire di vederci non basta che possa vedere le cose avvicinandole a se stesso o avvicinandosi ad esse – come si fa con un trafiletto di giornale – ma ci si può vantare di una buona vista nella misura in cui si può guardare le cose rimanendo al proprio posto e lasciando che rimangano al loro posto.

Chiediamo al Signore un buon rapporto con il tempo e la pazienza di vedere a distanza senza troppo dover accorciare le distanze e accettando di essere ospiti discreti e gentili del tempo e dello spazio senza i quali la nostra vita mancherebbe delle coordinate per esistere. Continuamente il Signore chiede all’umanità quello che chiese a Noè e con ciascuno di noi si comporta come con il cieco di Betsaida: <lo condusse fuori dal villaggio…> (8, 23). Come Noè fu capace di mantenere la giusta distanza dai suoi contemporanei per rimanere interiormente libero di accogliere la parola di Dio e di farsi strumento di salvezza per i suoi fratelli e per l’intera creazione, così anche noi siamo invitati a seguire docilmente il cenno del Signore accettando di rimanere soli con lui perché egli possa veramente e profondamente guarirci. Ci vuole tempo, ci vuole spazio, ci vuole pazienza e fiducia perché il dono della creazione e della salvezza siano parte integrante e qualificante della nostra esperienza. 

Disperato!

VI settimana

Attraverso le letture di oggi, siamo messi di fronte ad un’immagine di Dio alquanto rara che potremmo definire come la disperazione dell’Altissimo! In ambedue i testi sembra che il motivo di tale sentimento così consueto nella nostra umana esperienza, ma così raro nel nostro modo di pensare a Dio, sono le creature umane che con la loro smemoratezza sembrano imporre all’Altissimo di fare qualcosa di terribilmente contrario al suo cuore e al suo progetto: <Cancellerò dalla faccia della terra terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti> (Gn 6, 7). Da parte sua il Signore Gesù non riesce a capacitarsi davanti alla eccessiva preoccupazione dei discepoli per il pane e questo proprio a ridosso del grande prodigio della moltiplicazione dei pani avvenuta ben due volte. Davanti a questo spettacolo di insensibilità non gli resta che esclamare quasi dolorosamente: <Non comprendete ancora?> (Mc 8, 21).

Il Signore ci mette continuamente in grado di poter costruire la nostra vita nella fiducia e quindi nella pace, mentre, aldilà di tutti i segni della presenza di Dio nel nostro cammino, noi preferiamo andare per la nostra strada, quella che ieri abbiamo visto all’opera tra Caino e Abele. La rottura della fraternità, il rifiuto della solidarietà assoluta, il ripiegamento/centramento su se stessi minano dolorosamente la possibilità di una relazione che sia degna di questo nome. L’evangelista Marco sembra annotare in modo meravigliato e doloroso al contempo: <non avevano con sé sulla barca che un pane solo> (8, 14) che dunque andava necessariamente condiviso fino all’ultima briciola. Quando non sappiamo più condividere i doni che abbiamo ricevuto si rende insensato il grande dono della creazione nella sua totalità e nella sua intenzione originaria ed è come se si rompessero le regole del gioco tanto da dover ricominciare tutto daccapo.

Il Creatore, dunque, si pente e minaccia di sterminare non solo l’umanità, ma tutte le creature che nella sua mente e nel suo cuore fanno un tutt’uno e non possono esistere né sopravvivere l’una senza le altre. Per vincere la disperazione di Dio si rende necessario che qualcuno – proprio tra le creature – non condivida la logica di quella <malvagità> (Gn 6, 5) che <addolorò> (6, 6) il cuore del Creatore. Così il testo della Genesi annota quasi con una sorta di sollievo che <Noè trovò grazia agli occhi del Signore> (6, 8). Noè è giusto proprio perché il suo cuore è adeguato, è in sintonia con il cuore di Dio. Infatti, Noè accetta di non salvarsi da solo ma di farsi mezzo di salvezza – per questo la sua Arca è uno dei simboli più forti della Chiesa – per tutti coloro che accetteranno di entrare sul suo bastimento condividendone la vita per tutto il tempo del <diluvio> (7, 10).

La primizia della Chiesa che si trova <sulla barca> (Mc 8, 14) con il Signore Gesù ha bisogno ancora di fare un lungo cammino per entrare nella logica della salvezza in base a cui <un pane solo> è più che sufficiente quando si ha <un cuore solo e un’anima sola> (cfr. Atti 2; 4). Nondimeno il cammino è lungo e ciascuno di noi merita il rimprovero del Signore quando dice: <Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate…?> (Mc 8, 17-18).

Del suo!

VI settimana

La prima lettura di oggi ci mette di fronte ad un gesto che, per contrasto, fonda la storia dell’umanità: <Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise> (Gn 4, 8). Nel famoso film di Kubrik – Odissea nello spazio – la grande storia dell’umanità che porta fino alla conquista delle galassie, comincia proprio con questo gesto: un ominide che si serve di un osso come di una clava contro i suoi simili. Comincia tutto da lì e tutto là sembra finire. Quando questo gesto comincia ad insorgere nel cuore dell’uomo ecco che il Signore Dio cerca di prevenirlo: <Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo> (4, 6-7).

Si pongono così una serie di domande e sono questioni urgenti: <Perché questo terribile conflitto tra due fratelli tanto da esigere da parte di uno di eliminare l’altro?> Perché il Signore gradisce di più l’offerta di Abele a quella di Caino? Forse la differenza sta proprio nel fatto che Abele prende e offre <del suo> (4, 4), mentre Caino si limita ad offrire <frutti del suolo in sacrificio al Signore> (4, 3). Inoltre, Abele sembra offrire gratuitamente mentre l’offerta di Caino sembra inserirsi in un rituale di offerta che serve ad ingraziarsi il favore divino. Di fatto Caino incolpa il fratello della sua difficoltà a vivere una relazione profonda e intima con il Creatore. Eppure, il Signore Dio parla anche – verrebbe da dire soprattutto a Caino – per aiutarlo ad orientare le energie e superare la tentazione di eliminare il confronto fino a cancellare il fratello che, in realtà è il <segno> (Mc 8, 11) e il sacramento della presenza di Dio nella nostra vita come creatore e salvatore.

Anche noi come i farisei continuiamo a chiedere un segno senza aprire gli occhi e, soprattutto, il cuore al segno quotidiano che ci viene offerto dal contatto – talora assai impegnativo – con l’altro. Come si canta nel salmo responsoriale: <L’amore del fratello è il sacrificio a te gradito> che si potrebbe ridire così <l’amore del fratello è il segno a lungo atteso>. Ogni volta che ci incontriamo e soprattutto quando ci scontriamo con il fratello consumando così una relazione più o meno riuscita e più o meno mancata, questo si fa <segno> di un cammino che è sempre davanti a noi, ma che pure è fortemente condizionato da ciò che sta dietro di noi in termini di storia. Eppure, non dobbiamo mai rassegnarci a perdere l’altro fino a desiderare di eliminarlo. Il rischio è che ciò che ci sembra una soluzione – almeno nell’immediato – si riveli un’ulteriore ferita da curare e una mancanza che non sempre siamo in grado di gestire e di soffrire.

In ogni modo, il Signore non si arrende e continua a mantenere aperto il dialogo per permettere anche al Caino che è dentro di noi di non isolarsi pericolosamente nel proprio rammarico tanto da diventare nemico di se stesso e, perciò stesso, potenziale nemico di tutti. Non dobbiamo dimenticare che, come Abele, possiamo sempre offrire del <nostro> anche se questo fosse una manciata di dolore e di disagio: il Signore saprà riconoscere che gli stiamo offrendo noi stessi e ci gradirà, fino a trasformarci continuamente in figli e fratelli.

Profeta

VI Domenica T.O. 

Il Signore Gesù che si era presentato nella sinagoga di Nazareth come profeta oggi ci parla proprio nello spirito, nella forza e nell’audacia dei grandi profeti di Israele. La prima lettura tratta da Geremia – il profeta per antonomasia con Elia – ci mette subito sulla strada giusta per capire il genere letterario del discorso tenuto da Gesù. Si tratta per il discepolo di acquisire la capacità profetica di leggere la realtà, di valutarla e di giudicarla in modo chiaro e netto: <Maledetto l’uomo che confida nell’uomo […] Benedetto l’uomo che confida nel Signore> (Gr 17, 5.7). Gesù traduce queste parole in <Beati… Guai a voi>. Questa sorta di sfondo profetico lo si ritrova come un ritornello nel testo: <facevano i loro padri con i profeti […] facevano i loro padri con i falsi profeti> (Lc 6, 23. 26).

La parte specificamente lucana di <Guai> – termine che si trova appunto nei libri profetici e nell’Apocalisse libro profetico per eccellenza dove i “Guai” si alternano ai “Beati” – permette di cogliere la differenza di orizzonte che c’è tra il discorso delle Beatitudini a cui tutti automaticamente pensiamo nella redazione matteana e quello ben più imbarazzante di Luca. Da parte sua Matteo fa pronunciare questo discorso sul monte (Mt 5, 1) mentre Luca tiene a sottolineare proprio che <Gesù disceso con i dodici, si fermò in un luogo pianeggiante […] e diceva> (Lc 6, 17.20). In Matteo si sottolinea la veste Magisteriale mentre Luca ama presentare Gesù come profeta che sta non sul monte – appunto come Mosé – ma sul piano, ossia nel campo di battaglia in mezzo ai suoi discepoli e non ancora discepoli che lottano nell’interpretazione della vita e della storia. Il Signore Gesù sembra sguainare la spada della sua parola per dividere in due parti i suoi ascoltatori a cui si rivolge in modo assai diretto. Gesù osa contrapporre gli uni agli altri, la logica di Dio a quella degli uomini e lo fa senza mezzi termini.

Ma chi è il profeta? Cosa significa esercitare la profezia che ci è stata infusa con il dono battesimale e l’unzione crismale? Se il profeta vede e dice le cose che gli altri ancora non vedono – come nel caso di Geremia – leggendo la realtà prima e oltre le teste altrui la prova che sia un profeta mandato Dio sta nella sua capacità di dare la vita – tutta la vita – per ciò di cui si fa messaggero nel qui e ora della storia. Solo il profeta infatti è uomo veramente attuale poiché egli vive il presente sempre come una fatica di transizione tra passato e futuro. Il termine greco che traduciamo con <Rallegratevi> (Lc 6, 23) in greco – sirtachéte – indica il saltellare proprio della danza. E nella danza tutta l’attenzione deve essere sul passo successivo, sul futuro incombente dello svolgersi armonioso della danza in cui ciascuno è chiamato a muoversi verso il dopo, verso l’altro continuamente dimentico del passato e dei passi già compiuti. Per questo e in questo modo il profeta è sempre colui che richiama certo al tempo passato della fedeltà e dell’amore nella sua qualità di tempo aperto al futuro, al desiderio, all’incremento, all’ad-ventura.

Non c’è profezia senza rischio, non c’è beatitudine e felicità degni di questo nome se non a rischio della vita. Così la parola di Paolo si fa assai tagliente nel porre in relazione strettissima vita e morte: <Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti> (1Cor 15, 20). E se Cristo fu messo a morte fu a motivo del suo essere considerato ed etichettato come un “falso profeta” mentre era un “vero profeta” capace di mettere a nudo la falsità di quanti ricchi e sazi, gaudenti e stimati invece di servire Dio si servivano di lui per essere serviti e non per servire.

Prophète

VI Dimanche T.O. –

Le Seigneur Jésus qui s’était présenté à la synagogue de Nazareth comme prophète, nous parle précisément aujourd’hui dans l’esprit, la force et l’audace des grands prophètes d’Israël. La première lecture concerne Jérémie – le prophète  en antonomase avec Elie –  et nous met immédiatement sur la bonne route pour comprendre le genre littéraire du discours tenu par Jésus. Il s’agit pour le disciple d’acquérir la capacité prophétique de lire la réalité, de l’évaluer et de la juger de façon claire et nette : «  Malheur à l’homme qui se confie dans l’homme (…) Béni l’homme qui se confie dans le Seigneur ( Jr 17, 5-7 ). Jésus traduit ces paroles en «  Bienheureux…Malheur à vous ». Cette espèce d’arrière-plan prophétique se retrouve comme un refrain dans le texte : « leurs pères ont fait de même aux prophètes (…) leurs pères ont fait de même avec les faux prophètes » ( Lc 6, 23-26 ).

La partie spécifiquement attribuée à Luc des «  Malheur » – terme que l’on trouve justement dans les livres prophétiques et dans l’Apocalypse, livre prophétique par excellence où les «  Malheur » alternent avec les «  Bienheureux» – permet de pointer la différence d’horizons qu’il y a entre le discours des Béatitudes auquel nous pensons automatiquement dans la rédaction de Mathieu et celle bien plus embarrassante de Luc. De son côté, Mathieu fait prononcer ce discours sur la montagne ( Mt 5,1 ), alors que Luc tient à bien souligner que «  Jésus descendit avec les douze et s’arrêta dans  un plateau (…) et dit » ( Lc  6, 17-20 ). Dans Mathieu, l’on souligne l’ampleur magistrale alors que Lc aime présenter Jésus comme un prophète qui n’est pas sur la montagne  – comme Moïse- mais dans la plaine, comme dans un  champ de bataille au milieu de ses disciples et des non encore disciples qui luttent pour l’interprétation de la vie et de l’Histoire. Le Seigneur Jésus semble dégainer l’épée de sa parole  pour diviser en deux partie ses auditeurs à qui il s’adresse de façon plutôt directe. Jésus ose opposer les uns aux autres, la logique de Dieu à celle des hommes, et il le fait sans demi-mesure.

Mais qui est le prophète ? Que signifie pratiquer la prophétie qui nous a été infusée par le don du baptême et de l’onction chrismale ? Si le prophète voit et dit les choses que les autres ne voient pas encore – dans le cas de Jérémie – en lisant la réalité avant et au-delà des textes des autres –  la preuve qu’il est un prophète envoyé par Dieu réside dans sa capacité à donner la vie – toute la vie – pour ce dont il se fait le messager dans l’ici et maintenant de l’Histoire. En fait, seul un prophète est un homme vraiment actuel car il vit toujours le présent comme une difficulté de transition entre passé et futur. Le terme grec que nous traduisons par «  réjouissez-vous » ( Lc 6, 23 ) – sirtachéte – en grec – indique le sautillement propre à la danse. Et dans la danse, toute l’attention doit se porter sur les pas successifs, sur celui à venir, incombant le retournement harmonique de la danse où chacun est appelé à se tourner vers l’après, vers l’autre en oubliant continuellement le pas ou les pas déjà accomplis. Pour cela et de cette façon, le prophète est toujours celui qui, de manière sûre, réclame au temps passé la fidélité et l’amour dans sa qualité de temps ouvert au futur, au désir, à l’accroissement, à l’ad-ventura.

Il n’y a pas de prophétie sans risque, il n’y a pas de béatitude sans bonheur digne de ce nom sinon à risquer la vie. Ainsi la parole de Paul se fait assez mordante  en mettant en relation étroite vie et mort : « Mais, désormais, Christ est ressuscité des morts, premier de ceux qui sont morts » ( 1 Co 15, 20 ). Et, si le Christ fut mis à mort, c’est parce qu’il fut considéré et étiqueté comme un «  faux prophète », alors qu’il était un «  vrai prophète » capable de mettre à nu la fausseté de tous ceux, riches et repus, profiteurs et estimés, qui, au lieu de servir Dieu se servirent de lui pour être servis et non pour servir.

Contrasto?

V settimana

Il testo evangelico ci mette di fronte al grande mistero della <compassione> (Mc 8, 2) del Signore Gesù, il quale ha occhi e cuore per la folla di coloro che lo seguono e di cui egli stesso dice <mi stanno dietro e non hanno da mangiare>. Questo modo di leggere l’atteggiamento della folla da parte del Signore non può non toccarci profondamente e personalmente! Questa gente ci rappresenta molto bene, poiché anche noi siamo come quei <cagnolini> (Mc 7, 27-28), di cui si è parlato poco prima, che sperano le <briciole> necessarie a vivere e a non morire. Il Signore non si accontenta di dare le briciole bensì sazia la fame di queste persone fino a far sì che il pane avanzi. Infatti, il testo conclude dicendo che <portarono via sette sporte di pezzi avanzati> (Mc 8, 8) per indicare l’atteggiamento non di fredda compassione ma di una compassione coinvolta e coinvolgente. Di certo la lettura di questo testo evangelico può creare un po’ di imbarazzo nella rilettura della reazione del Signore Dio al cedimento di Adamo ed Eva alle istigazioni del serpente: <lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto> (Gn 3, 23). 

Eppure, una lettura attenta del testo genesiaco ci permette di cogliere come e quanto il Signore si prende cura dell’uomo aiutandolo e sostenendolo nel compito nuovo di portare il peso della sua libertà fino ad imparare ad esercitare – al meglio – ciò che finora non è stato capace di vivere se non in modo superficiale e infantile. Infatti, non deve sfuggire il fatto che il Signore Dio non si abbatte come una furia sull’uomo e la donna che hanno appena trasgredito il comando. L’intreccio del dialogo che porterà ad una netta separazione comincia con una domanda: <Dove sei?> (Gn 3, 9). Proprio a partire da questa umilissima domanda che Dio pone all’uomo possiamo e dobbiamo interpretare la serie di risoluzioni che seguono nel testo e che culminano in quel terribile: <scacciò l’uomo> (3, 24). Solo se leggiamo superficialmente i testi e soprattutto solo se dimentichiamo l’immensa e multiforme cura con cui Dio ha creato l’uomo mettendolo in condizione di cercare la felicità possiamo sentire il testo del vangelo in contrasto con quello della Genesi. 

La <compassione> (Mc 8, 2) che induce il Signore Gesù a moltiplicare per la seconda volta il pane (cfr. Mc 6, 34ss) è la stessa che spinge il Creatore a moltiplicare i comandi dopo aver dato il comandamento perché l’umanità possa imparare al meglio a gestire la propria libertà per la vera felicità. Infatti, è un gesto di infinita e costosa compassione quella con cui il Creatore mette l’uomo sulla strada del ritorno alla relazione con Lui: ma quale ritorno sarebbe possibile senza una esperienza di separazione? Quale nostalgia sarebbe possibile senza far percepire il dolore di essere stato così frainteso? Il più grande gesto di compassione è infatti dare la possibilità di sentire compassione… sì, compassione per Dio!

Davanti

Santi Cirillo e Metodio

La scelta di papa Giovanni Paolo II di proclamare i santi Cirillo e Metodio co-patroni d’Europa con san Benedetto, è stato non solo un atto di coraggio, per uscire da una visione troppo centrata sull’Occidente anche a livello di santità, ma è stato pure un atto di giustizia. Celebrare la memoria di questi due fratelli, significa fare memoria di quanto e di come la Chiesa sia da sempre una realtà ampia, diversificata e segnata da una ricchezza che rischia di essere troppo facilmente dimenticata. Fare memoria di tutto questo non significa affatto lanciarsi in un’opera di autoglorificazione, al contrario, è un atto di umile accoglienza di quel desiderio di Dio che si fa disegno di salvezza per tutti. L’evangelista Luca ci mostra il Signore che designa <altri settantadue> per inviarli < a due a due davanti a sé> (Lc 10, 1). In questo semplice versetto possiamo trovare almeno due indicazioni fondamentali per il cammino della Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo. La prima è che il Signore continua a chiamare alcuni per continuare e amplificare l’opera di evangelizzazione affidata agli apostoli. La seconda è la sottolineatura, sempre necessaria di come ogni annuncio non può che essere penultimo e semplicemente preparatorio.

I settantadue discepoli sono chiamati ad andare <davanti> al Signore senza mai mettersi davanti a Lui, ma mantenendosi in una disponibilità assoluta a cedergli il posto. Il profeta Isaia sembra esaltato quando dice: <Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza> (Is 52, 7). Così pure non dobbiamo mai dimenticare come una delle prime esperienze degli apostoli dopo la risurrezione del Signore e il dono dello Spirito Santo sia stata proprio l’umile apprendistato di una universalità non facile da immaginare e ancora meno facile da vivere. Eppure, la disponibilità operosa ad ampliare sempre di più il raggio dell’annuncio della salvezza ha creato le condizioni per un cambiamento profondo del mondo in cui viviamo nel quale, nonostante tutte le contraddizioni e tutte le ambiguità, il seme del Vangelo si è radicato al cuore di un desiderio di crescita comune verso il bene di ciascuno.

Dovremmo sperare che anche per i “lontani” del nostro tempo si possa verificare la possibilità evocata dal testo degli Atti degli Apostoli: <Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore> (At 13, 48). Come ebbe a dire Benedetto XVI: <In effetti, Cirillo e Metodio costituiscono un esempio classico di ciò che oggi si indica col termine “inculturazione”: ogni popolo deve calare nella propria cultura il messaggio rivelato ed esprimerne la verità salvifica con il linguaggio che gli è proprio. Questo suppone un lavoro di “traduzione” molto impegnativo, perché richiede l’individuazione di termini adeguati a riproporre, senza tradirla, la ricchezza della Parola rivelata. Di ciò i due santi Fratelli hanno lasciato una testimonianza quanto mai significativa, alla quale la Chiesa guarda anche oggi per trarne ispirazione ed orientamento>1.


1. BENEDETTO XVI, Udienza del 17 Giugno 2009.

Disposto a tutto

V settimana T.O.

Abbiamo immaginato nei giorni scorsi – forse con un eccesso di audacia – che il Signore Dio abbia creato il mondo cantando. Oggi vediamo che l’uomo creato <a sua immagine e somiglianza> (Gn 1, 26) intona l’inno dell’amore proprio prorompendo in un canto, il primo che troviamo nelle Scritture, e che risuona così:<Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta> (Gn 2, 23). La forza di bellezza di questo canto assume tutta la sua profondità se teniamo presente che arriva dopo un lungo lavoro di immaginazione da parte del Signore Dio per aiutare l’uomo ad uscire da uno stato che oggi chiameremmo di depressione. Il Signore ben presto si rende conto di quanto la perfezione della creazione di Adamo pensato come un essere in esclusiva relazione con Dio non lo rende felice. Il Signore Dio non ha paura di constatare: <Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda> (2, 18).

Comincia così quella che potremmo chiamare l’avventura delle relazioni all’interno della creazione che, invece di essere, già data e già scontata procede per tentativi. Il primo di questi tentativi riguarda la creazione degli animali e il cedere da parte di Dio all’uomo il privilegio di dare loro un nome <in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome> (2, 19). Dio è disposto a tutto persino a cambiare il modo della creazione purché l’uomo creato in una solitudine, che voleva essere di intimità e non di isolamento, possa diventare realmente felice. Forse è questa medesima attitudine che sta al cuore del Signore Gesù nei confronti di quella donna che <lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia> (Mc 7, 25) e che <era di lingua greca e di origine siro-fenicia> (7, 26). Si crea un forte conflitto tra il Signore Gesù e questa donna. In realtà non è un conflitto di rifiuto bensì una parola scambiata in una franchezza tale – da ambedue le parti – da creare le condizioni per andare oltre i confini e i limiti già conosciuti.

Il Signore Dio nel Giardino dell’Eden e il Signore Gesù <nella regione di Tiro> (7, 24) sanno scendere dal loro piedistallo per farsi interrogare e persino cambiare dall’incontro con l’altro che si pone di fronte come un appello ad una relazione capace di interagire e non semplicemente di imporsi. Ogni giorno ci è dato per imparare ad essere creature sempre più conformi al nostro Creatore dando prova, come Dio, di essere capaci di una fedeltà creativa e non immobile e concentrata sulla propria preservazione. La coscienza di un Dio disposto a tutto per la felicità delle sue creature non può che creare nel nostro stesso cuore una disposizione ad essere capaci di osare nuovi cammini, inediti linguaggi, inimmaginati percorsi per dare uno spazio sempre più adeguato al mistero della vita che è un dono da condividere e da accrescere.

Rivoluzione

V settimana T.O.

Quella apportata dal Signore Gesù è una vera e propria rivoluzione capace di creare le condizioni per una vera e continua ricreazione: <Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?> (Mc 7, 18-19). Con queste parole, dapprima rivolte alla folla e infine ribadite ancora in modo più preciso ai discepoli <in una casa lontano dalla folla> (7, 17), non solo il Signore Gesù <rendeva puri tutti gli alimenti> (7, 19), ma richiamava l’attenzione sulla necessità di rendere puri tutti gli atteggiamenti e le intenzioni più segrete e profonde. Leggere questo testo così importante e così liberante che lo stesso Simon Pietro dimostrerà di far fatica a capire fino in fono persino dopo la Pasqua visto il suo turbamento davanti alla richiesta del centurione Cornelio di entrare nella sua casa, preceduto dal secondo racconto della creazione diventa ancora più interessante tanto da risultare quasi intrigante.

Infatti dopo avere creato l’uomo e avergli donato al compagnia delle creature, come dono ulteriore e garanzia di ogni possibile dono <Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”> (Gn 2, 16-17). Il comando che Dio dà all’uomo rappresenta la creazione e il dono più grande che all’uomo possa essere fatto: il dono della libertà che è impossibile da sperimentare e da vivere se non c’è nulla da scegliere e non ci si trova mai di fronte alla necessità di scegliere se rimanere o meno fedeli ad una relazione attraverso la fedeltà ad un’alleanza.

La prima parola di Dio all’uomo è rassicurativa: <tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino>, ma vi è un albero che rappresenta la memoria che non tutto è mangiabile e che vi è anche qualcosa che nella vita bisogna saper guardare senza cedere alla tentazione di impossessarsene. L’invito sembra essere quello di andare oltre il livello del bisogno per accedere a quello del desiderio che non è necessariamente appagamento, ma può essere esercitato nella capacità così umanizzante della contemplazione che comporta l’atto di libertà di non mangiare pur potendolo. La parola del Signore Gesù ci porta lontano eppure nella medesima direzione del comandamento di che il Signore Dio dà all’uomo per garantire e far crescere la relazione di fiducia. Tutti gli alimenti sono puri, ciò che è in gioco non è la paura che qualcosa dall’esterno possa contaminare la nostra capacità di umanizzare, ma che dall’interno nascano le intenzioni e i pensieri cattivi che sono il frutto dell’incapacità a simbolizzare, ossia a non essere più in grado di andare oltre il commestibile per accedere alla relazione che non consuma, ma fa esistere e crescere la relazione con l’altro.

An-nullare

V settimana T.O.

La continuazione della lettura di come il Signore Dio abbia creato il mondo, riempie il cuore di stupore, di meraviglia e di canto: <O Signore, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra> (Salmo responsoriale). L’atto di creazione si pone in una gratuità immensa che non può assolutamente sopportare l’idea di una sorta di ricambio se non quello che nasce da un amore, così meravigliato, da farsi sempre più capace di attenzione e di cura. La parola che il Signore Gesù rivolge ai farisei tocca il cuore del mistero della creazione: <Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi> e aggiunge, quasi per evitare di non essere preso sufficientemente sul serio, <E di cose simili ne fate molte> (Mc 7, 12-13). Ciò che guasta il lodevole atteggiamento dei farisei non è la loro scrupolosa osservanza, ma il fatto che essa divenga la misura assoluta per misurare il mondo e per giudicare i propri simili sempre e solo a partire da se stessi, senza mai avere il coraggio e la semplicità di lasciarsi interrogare dal mistero di una vita che non può che essere ben più grande della nostra personale esperienza di vita.

Con questo atteggiamento tipicamente farisaico, da cui non siamo mai abbastanza al sicuro, è come se venisse ferito quel progetto di Dio di cui la creazione è effluvio. Come spiega magnificamente Simone Weil: <La creazione non è un atto di espansione, ma di rinuncia>1. La creazione è, non solo un infinito atto d’amore, ma è un’esperienza d’amore che per sua natura limita se stesso per permettere ad altro di svilupparsi e di crescere fino alla sua propria pienezza. Ce lo attesta e ce lo ricorda il libro delle Genesi quando non si accontenta di ritrarre Dio come potente creatore, ma quando fa sorgere sulla sua bocca la benedizione attraverso cui subito si ritrae, per permettere alle creature di essere se stesse e di essere profondamente libere: <Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che strisci sulla terra> (Gn 1, 28). 

Per questo che Simone Weil può affermare con la sicurezza che ne caratterizza non solo il pensiero, ma soprattutto la sua vita che ogni forma o interpretazione religiosa, in cui si esalti unilateralmente il dominio. non può che essere falsa, in quanto non conforme all’attitudine che sta all’origine dell’atto di creazione. La generosità divina che contempliamo nell’opera della creazione è la stessa compassione che si rivelerà nella passione e nella croce. Per questo ogni <tradizione> (Mc 7, 5) va riletta e purificata nella duplice aspersione – non certo rituale, ma profondamente esistenziale – della generosità e della compassione. In quest’orizzonte, se si può sopportare qualche “risciacquo” in meno, non è assolutamente accettabile che qualcuno riduca a nulla la parola di Dio per cui <Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio…> (7, 11) lo mettete contro Dio perché, in realtà, ne annulla l’opera impoverendo l’amore.


1. S. WEIL, Forme dell’amore implicito di Dio, p. 5.