Premura

XI Settimana T.O. –

Ciò di cui l’apostolo Paolo ci parla nella prima lettura ci può sembrare anche abbastanza banale. Eppure, la portata simbolica di ogni gesto di condivisione e di carità ha un peso rivoluzionario in quelle che sono le nostre relazioni fraterne. Paolo esorta e allo stesso tempo ammira: <E come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa> e aggiunge <Non dico questo per darvi un comando, ma solo per mettere alla prova la sincerità del vostro amore con la premura verso gli altri> (2Cor 8, 7-8). Il termine <premura> può sembrare una parola assai leggera e, invece, può diventare il primo passo di gesti e di scelte assai importanti nel nostro modo di porci non solo davanti, ma accanto agli altri. Ancora di più è altamente, significativo il fatto che l’apostolo Paolo sembra esplicitare la forma di questa premura apparentemente così banale calandola, per così dire, nello stampo dello stesso mistero dell’incarnazione: <Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà> (8, 9).

Queste parole dell’apostolo Paolo ci permettono di cogliere nella sua più alta profondità la provocazione del Vangelo che potremmo definire una sorta di dichiarazione di guerra contro tutto ciò che nel nostro cuore tende a restringere il coraggio della generosità. Continuando la sua catechesi, che sta a fondamento di ogni esperienza discepolare, il Maestro lancia un’ulteriore provocazione ai suoi ascoltatori e a noi che ci vantiamo di essere tra coloro che vogliono seguire il Signore: <Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?> (Mt 5, 46-47). Il Signore Gesù ci chiede di fare della nostra vita un simbolo della sua stessa passione di dono che lo ha portato a diventare uno di noi fino a mettersi nelle nostre mani accettando persino che lo mettessimo sotto i nostri piedi. Tutto ciò non certo per una sorta di masochismo gratuito che sarebbe alquanto malato, ma per una fedeltà al proprio cuore che è stata capace di rivelarci il cuore stesso di Dio come Padre. 

L’esortazione finale del Vangelo di quest’oggi diventa così un programma aperto a tutti gli imprevisti e disposto a rispondere a tutte le urgenze relazionali che la vita pone davanti a noi: <Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste> (Mt 5, 48). L’<opera generosa> (2Cor 8, 6) evocata e consigliata dall’apostolo Paolo, che si concretizza in un piccolo gesto di solidarietà, diventa così il simbolo di un atteggiamento di fondo che ci rende persone sempre in atto di donare persino quando riceviamo qualcosa perché si accoglie tutto e tutti con sentimenti di gratitudine e di stupore.

Accogliere

XI Settimana T.O. –

L’inizio della prima lettura può fungere da portale per comprendere appieno le gravi parole del Signore Gesù che, come sapiente pittore, continua a dare colori e profondità all’affresco delle beatitudini quale stile di vita che dona la vita: <poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio> (2Cor 6, 1). Accogliere la grazia diventa, nell’insegnamento del Signore accogliere fino all’estremo ogni nostro fratello, riconoscendo così di avere raggiunto la consapevolezza di avere continuamente bisogno, a nostra volta, di essere accolti. Il primo passo per esprimere e vivere l’accoglienza dell’altro, che è sempre un farsi accogliere dall’altro, è quello non solo di saper dare del tempo, ma di essere persino disposti a perdere tempo: <E se uno ti costringe ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due> (Mt 5, 41). Riascoltando questo insegnamento il cuore ricorda quasi automaticamente quel camminare dei Risorto accanto ai due discepoli che fanno la strada da Gerusalemme ad Emmaus che dista dalla città santa ben <undici chilometri> (Lc 24). Quante cose si possono scoprire camminando insieme, quanti pregiudizi possono cadere e quali amicizie e umane complicità possono rafforzarsi con quell’andare dei piedi che distende la mente, scioglie la lingua e conforta il cuore.

Il Signore fa memoria di quanto si trova scritto nella Legge: <Occhio per occhio e dente per dente> (5, 38) e, proprio mentre lo rammenta non senza devozione, ci aiuta ad andare oltre per non trasformare la vita in un grande cimitero ma far sì che appaia sempre di più come un giardino in cui ci si scambia il dono di un’accoglienza reciproca vera e umile al contempo. Come ricorda Doroteo di Gaza: <intendo l’umiltà vera, non un abbassamento a parole e ad attitudini, bensì una disposizione veramente umile, nell’intimo del cuore e dello spirito. Per questo il Signore dice: “Sono mite e umile di cuore»”. Chi vuole trovare il vero riposo per la sua anima impari dunque l’umiltà>1. Questo diventa assolutamente più facile se facciamo nostra l’attitudine dell’apostolo Paolo: <come poveri, ma capaci di arricchire molti, come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!> (2Cor 6, 10).

La legge del taglione, che facilmente ci viene di disprezzare come antiquata e per molti aspetti barbara, in realtà è già un balbettìo e un bisbiglio di vangelo con cui si cerca di arginare la cieca violenza che ci serra il cuore prima di farci stringere i pugni. La parola di Cristo, come pure l’esortazione dell’apostolo, non sono certo un lasciapassare per il male, né, tantomeno, un invito a incoraggiarlo e a farlo dilagare, ma ben più profondamente apre il nostro cuore ad accogliere uno spirito nuovo che ci permette di porre l’attenzione non sul torto che eventualmente ci viene fatto, ma sempre sul fratello che lo sta compiendo. Tenere fisso lo sguardo sulla persona senza lasciarci distogliere dal male che compie, significa neutralizzare il male poiché oltre le sue maschere repellenti sappiamo cogliere il bisogno concreto del nostro simile che attende se non di essere amato, almeno di essere rispettato come <malvagio> (Mt 5, 39) e questo è il primo passo di un’accoglienza che può – forse deve – ancora crescere.


1. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni, 1, 8.

Sapienza

Santissima Trinità

La liturgia della Parola di questa solennità ricapitolativa di tutto l’anno liturgico esordisce con queste parole: <Così parla la Sapienza di Dio!>. Senza tradire il testo potremmo trasformare queste parole e dire: “Così parla l’Amore di Dio”. Dopo le intense settimane della Quaresima e della Pasqua culminate nella celebrazione della Pentecoste, siamo chiamati ad immergerci nel Mistero che origina i misteri che celebriamo e da cui attingiamo come credenti la linfa della fede, della speranza, della carità. La Sapienza-Amore sembra cantare nello stupore della tenerezza più grande: <Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra> (Pr 8, 23). E quando la Sapienza fatta carne, fatta voce, fatta dono di vita fino all’estremo del dono pasquale parla di se stessa, in realtà, non riesce che a parlare di altri: <Quando verrà lui, lo Spirito della verità vi guiderà a tutta la verità…> (Gv 16, 13). La verità cui lo Spirito ci guida interiormente non è un concetto, ma è la porta di una relazione possibile e desiderata: <Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio: per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà> (Gv 16, 14-15).

L’apostolo Paolo sembra cercare di far crescere i cristiani di Roma in quella che potremmo definire la consapevolezza della mediazione senza la quale non ci può essere un’autentica esperienza di fede pasquale: <giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio> (Rm 5, 1-2). Nella misura in cui ci sprofondiamo nel mistero di Dio-Uni-Trino possiamo imparare ad accogliere il mistero di noi stessi e delle nostre relazioni in un modo sempre nuovo tanto da essere in grado di comporre in pacifica armonia le diverse dimensioni del nostro essere e del nostro entrare in relazione con gli altri e con l’Altro. La festa della Trinità nutre la nostra speranza di essere capaci di comunione per diventare capaci di unicità fino a portare il fardello di una solitudine solidale come le tre Persone divine la cui Sapienza è l’Amore e il cui Amore è l’unica versa Sapienza che <non delude>. 

La ragione prima e ultima di questo dinamismo è riassunta ancora una volta dall’apostolo Paolo: <l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato> (Rm 5, 5). Celebrare la festa della Trinità non è un invito ad adorare un concetto, ma ad entrare in un autentico dialogo d’amore con Dio per entrare in dialogo con i nostri fratelli e sorelle in umanità tanto da poter dire a nostra volta: <giocavo davanti a lui ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo> (Pr 8, 30-31).

Il nostro Dio ci dice: “Io sto bene con te tanto da abitare dentro di te”! Tutta la vita ci è data per poter dire al nostro Dio: “Anch’io sto talmente bene con te da voler diventare come te”.

<La Trinità non è tre persone giustapposte, ma tre generosità che si donano reciprocamente in pienezza. Ciascuna delle tre persone non è per se stessa se non donandosi alle altre due. Ognuna delle Persone divine non è se stessa se non fuori di sé non c’è nessuna possibilità di alcun ripiegamento su se stessi>1.


1. F. VARILLON, Joie de croire, joie de vivre, Centurion, Paris 1981, pp. 139-140.

Sagesse

Sainte Trinité –

La liturgie de la Parole de cette solennité, récapitulation de toute l’année liturgique, nous exhorte par ces paroles : «  Ainsi parle la Sagesse de Dieu ! ». Sans trahir le texte, nous pourrions transformer ces paroles et dire : «  Ainsi parle l’Amour de Dieu ». Après les semaines intenses du Carême et de Pâques dont le point culminant est la célébration de la Pentecôte, nous sommes appelés à nous immerger dans le Mystère à l’origine des mystères que nous célébrons et dont nous atteignons, comme croyants, la lymphe de la foi, de l’espérance, de la charité. La Sagesse-Amour semble chanter dans l’étonnement d’une grande tendresse : « J’ai été fondée dès l’éternité ; depuis le commencement, avant l’origine de la terre » ( Pr 8, 23). Et, lorsque la Sagesse faite chair, voix, don de vie jusqu’à l’extrême du don pascal, parle d’elle-même, elle ne réussit, en réalité, que de parler des autres : «  Lorsqu’Il viendra, Lui, l’Esprit de vérité, Il vous guidera vers toute la vérité… » ( Jn 16, 13 ). La vérité vers qui l’Esprit nous guide intérieurement, n’est pas un concept, mais c’est la porte d’une relation possible et désirée : « Il me glorifiera, car c’est de mon bien qu’il prendra pour vous en faire part. Tour ce qu’a le Père est à moi : voilà pourquoi j’ai dit : c’est de mon bien qu’il prendra pour vous en faire part » ( Jn 16, 14-15).

L’apôtre Paul semble chercher à faire grandir les chrétiens de Rome dans ce que nous pourrions définir comme la conscience de la médiation sans laquelle il n’y a pas d’authentique expérience de la foi pascale : « Ayant donc reçu notre justification de la foi, nous sommes en paix avec Dieu par notre Seigneur Jésus-Christ, lui qui nous a donné d’avoir accès par la foi à cette grâce  en laquelle nous sommes établis et nous nous glorifions dans l’espérance de la gloire de Dieu » ( Rm 5, 1-2 ). Dans la mesure où nous  nous approfondissons dans le mystère de Dieu – Un- Trinité, nous  pouvons apprendre à accueillir notre propre mystère et celui de nos relations de façon toujours plus renouvelée afin d’être toujours plus capables de composer en harmonie pacifique les différentes dimensions de notre être et de notre manière d’entrer en relation avec les autres et avec l’Autre. La fête de la Trinité nourrit notre espérance d’être capables de communion pour devenir capables d’unité jusqu’à porter le fardeau d’une solitude comme les trois Personnes divines dont la Sagesse est l’Amour et dont l’Amour est l’unique véritable Sagesse qui ne «  déçoit pas ».

L’unique et seule raison de ce dynamisme est résumé encore une fois par l’apôtre Paul : «  L’amour de Dieu a été répandu dans nos coeurs par le Saint Esprit qui nous fut donné » ( Rm 5, 5 ). Célébrer la fête de la Trinité n’est pas une invitation à adorer un concept, mais à entrer dans un authentique dialogue d’amour avec Dieu pour entrer en dialogue avec nos frères et sœurs en humanité pour pouvoir dire à notre tour : «  J’étais à l’oeuvre auprès de lui, me réjouissant chaque jour et jouant sans cesse en sa présence, jouant sur le globe de sa terre et trouvant mes délices parmi les enfants des hommes » ( Pr 8, 30-31 ).

Notre Dieu nous dit : «  Je me sens bien avec toi et je viens habiter en toi » ! Toute la vie nous est donnée pour pouvoir dire à notre Dieu : «  Moi aussi je suis tellement bien avec toi et je voudrais devenir comme toi ».« La Trinité n’est pas trois personnes juxtaposées, mais trois générosités qui se donnent réciproquement en plénitude. Chacune des trois personnes n’agit pas pour elle-même, si ce n’est en se donnant aux deux autres. Chaque Personne divine n’est pas elle-même en soi, mais extérieurement à elle et il n’y a aucune possibilité de repliement sur soi-même »1.


1. F. VARILLON , Joie de croire, joie de vivre, Centurion, Paris 1081, pp. 139-140.

Posseduti

X Settimana T.O. –

L’apostolo Paolo sembra levare un grido che è in grado di raggiungere, fino a toccare e scuotere ancora, il nostro cuore: <l’amore del Cristo ci possiede> (2Cor 5, 14). Questa splendida affermazione potrebbe diventare un’esigentissima domanda: <L’amore di Cristo ci possiede?>. Quando si pensa alla “possessione” si pensa quasi automaticamente, e talora in modo alquanto malato, a qualcosa che ha a che fare con le forze che si oppongono – dentro e fuori di noi – ai dinamismi della grazia. Paolo ci ricorda che vi è la possibilità di lasciarsi possedere dall’amore del Cristo, un amore che diventa il luogo di genesi di ogni altro amore necessario alla bellezza della nostra vita come pure della vita degli altri. La parola tagliente del Signore Gesù getta ancora più luce sull’affermazione paolina: <Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno> (Mt 5, 37). In questo detto infuocato del Signore con cui rischiamo di scottarci ogni giorno l’anima, è racchiuso un criterio di discernimento assolutamente necessario: <il di più viene dal Maligno>.

Ciò significa che tutto ciò che è ispirato nel nostro cuore dalla grazia di Dio, porta il segno dell’essenzialità, della discrezione e del basso profilo. Sono questi atteggiamenti che si basano sulla coscienza calma della propria realtà segnata dalla bellezza di un limite da accogliere ogni giorno: <Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello> (5, 36). Non avere bisogno di fare giuramenti significa dare alla propria parola un peso che nasce dal cuore e dalla responsabilità nel portare le conseguenze di quanto viene proferito dalla bocca. Appoggiarsi sull’autorità del <cielo> e della <terra>, di <Gerusalemme> e perfino sulla propria <testa> (5, 34-35), per il Signore Gesù sono tutte formule apparentemente solenni, che evidenziano, in realtà, un vuoto profondo che non sarebbe degno di fiducia. Il Signore ci invita ad usare la parola come luogo di impegno assumendo la stessa attitudine divina che, con la sua parola franca, crea e continuamente ricrea nella sua misericordia e nel suo perdono.

Se entriamo in questo respiro, intriso di una semplicità disarmante, ci troveremo nello stesso dinamismo che anima il continuo movimento delle maree della creazione e della redenzione. Allora, per usare una delle più belle immagini paoline, non guarderemo più la realtà alla <maniera umana> (2Cor 5, 16), ma con la stessa fiducia e lo stesso coinvolgimento che sono di Dio. Per questo, ad ognuno è richiesta un’esigente disciplina della parola, la stessa che nasce da un profondo ordine del cuore. La reciproca lealtà e il richiamo umile al fondamento della Parola, non hanno bisogno di altre garanzie se non quelle che vengono da un amore autentico. Come annotava nel suo Diario, Etty Hillesum: <ogni giorno abbiamo il compito di cercare e di trovare due parole essenziali capaci di dire l’essenziale della vita che è sempre come una pausa tra due parole, tra due amorevoli silenzi>.

Spirito di fede

X Settimana T.O. –

L’apostolo Paolo evoca il necessario <spirito di fede> (2Cor 4, 13) per poter vivere il proprio cammino spirituale e affrontare la gioiosa fatica delle proprie fedeltà. La fede come espressione profonda di legame con la presenza di Dio che anima e accompagna ogni passo della nostra esistenza è ciò che ci permette di custodire tutte le realtà importanti della nostra vita e, in modo del tutto particolare, quelle che sono il frutto delle nostre scelte come <un tesoro in vasi di creta> (4, 7). La duplice consapevolezza della preziosità e della fragilità di ciò che sta al cuore della nostra vita che non può darsi se non attraverso relazioni significative e impegnative dovrebbe darci la capacità di non desistere davanti alle difficoltà, ma di lasciarci interrogare dalle fatiche della vita così come ci lasciamo infiammare e ispirare dalle grandi emozioni e dai profondi sentimenti senza i quali la vita non meriterebbe questo, in verità, questo nome.

Lungi da noi assolutizzare nel senso di decontestualizzare la parola che il Signore Gesù dona a ciascuno di noi nel Vangelo di quest’oggi! L’insegnamento sull’<adulterio> (Mt 5, 32) si trova nel grande discorso della montagna con il quale il Signore insegna ai suoi discepoli ad accogliere i comandamenti di Dio nella loro formulazione tradizionale risalente al profeta Mosè non come dei macigni che stritolano la vita – normalmente quella degli altri – ma come cammini aperti di umanizzazione e di crescita in autenticità personale e fedeltà relazionale. Laddove, non solo in antico ma pure ai nostri giorni, ogni crisi relazionale – tra cui quella coniugale è la più forte a livello sia esistenziale che simbolico – rischia di risolversi nella ricerca di un colpevole e nell’incrocio penoso di accuse, il Signore Gesù si rivolge direttamente e, per certi aspetti, esclusivamente, al cuore di chi lo sta ascoltando: <Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo… E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo> (Mt 5, 29-30).

In questo modo il Signore Gesù ci chiede sempre di ripartire da noi stessi e dal più intimo del nostro cuore per comprendere bene che cosa vogliamo in verità e quale prezzo di dono e, necessariamente, di rinuncia, siamo disposti a pagare per essere fedeli prima di tutto non tanto all’altro cui abbiamo legato e talora consacrato la nostra vita, ma essenzialmente a noi stessi accolti non come mistero autoreferenziale, ma come mistero di comunione, di dono, di amore. Solo in questo contesto di radicalizzazione delle esigenze del cuore che è l’anima di tutto il discorso della montagna possiamo lasciarci interpellare senza trasformarla in una clava da abbattere sul nostro prossimo dalle parole del Signore: <chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore> (5, 28). Tutti noi conosciamo la forza talora irruente del desiderio che è capace di incendiare il nostro cuore e di accendere i nostri sensi. Il Vangelo ci chiede la forza di saper nominare e dominare le nostre passioni disordinare per guardare chiunque non per desiderare nel senso di possedere ma per amare nel senso di liberare il cui primo segno è l’assoluto rispetto della sua libertà in <spirito di fede>.

Libertà

X Settimana T.O. –

L’apostolo Paolo non lascia dubbi: <Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà> (2Cor 3, 17). Potremmo parafrasare questo testo paolino dicendo che il Signore è libertà e non si tira indietro davanti all’esigenza di andare oltre tutti i limiti persino quelli del buon senso o della consuetudine con una capacità di andare sempre più al cuore e all’essenza delle realtà: <Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio> (Mt 5, 22). Se i grandi mali cominciano sempre con piccole distrazioni e sottovalutazioni del bene, il cammino di una pienezza di relazione con i nostri fratelli passa sempre attraverso l’attenzione a quei piccoli semi di consapevolezza e d’amore che assicurano, nel tempo, il grande raccolto della misericordia. Il Signore Gesù ci esorta: <se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli> (Mt 5, 20).

Il Maestro non si accontenta di esortarci, ma si fa esempio di una capacità di lettura del reale che si fa sapiente e coraggiosa interpretazione delle Scritture. Superare non significa, nel linguaggio evangelico, mettere da parte, ma andare oltre come si fa percorrendo una strada o salendo una scala: per fare il passo seguente bisogna assicurare al meglio quello precedente per non cadere e farsi male o, peggio ancora, fare del male. Il nostro cuore è un laboratorio quotidiano di perdono poiché è proprio nella capacità di superare la cieca logica di una giustizia meccanica che ci rendiamo diafani alla presenza dello Spirito di Cristo in noi che si fa visibile e percepibile per quanti ci incontrano. In tal modo si compie in noi oltre che per noi la Scrittura: <E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore> (2Cor 3, 18).

Se siamo sinceri dobbiamo riconoscere come spesso il <Vangelo rimane velato> (4, 3) nella nostra vita di apprendisti discepoli ogni volta che facciamo fatica a credere nella necessità terapeutica di un perdono continuamente ricevuto e ridonato… sempre scambiato come il dono più prezioso e il più necessario alla vita e al suo incremento dentro di noi e attorno a noi: <Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo> (4, 1). Concretamente questa decisione per il perdono si esprime in una capacità di decisione senza rimando alcuno e che non ha bisogno di nessun confronto o approvazione esterne perché si consuma nell’intimità di un cuore esposto alle esigenze della misericordia: <Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono> (Mt 5, 23-24). In questo breve ma così intenso viaggio dall’altare al fratello e dal fratello all’altare si rivela il nostro grado di libertà per questo le parole che riprendiamo al salmo responsoriale possono diventare il grido della nostra supplica in questo giorno: <Donaci occhi, Signore, per vedere la tua gloria>!

Strada

S. Barnaba –

La raccomandazione del Signore Gesù ai suoi apostoli è valida per i discepoli di ogni luogo e di sempre: <Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino> (Mt 10, 7). È chiaro che nulla si potrebbe vivere e condividere <strada facendo> se non si facesse il primo passo quello di “fare strada” con gli altri! La memoria dell’apostolo Barnaba è l’occasione per riaccogliere il mistero del ministero apostolico in modo sganciato dal numero dei <Dodici> per sentire meglio che essere apostoli può significare molto più che essere annoverati nello stretto numero di quanti sono celebrati come colonne e fondamenta della realtà della Chiesa. Nella prima lettura possiamo contemplare come la <grazia di Dio> (At 11, 23) è ancora all’opera e spinge Barnaba a <cercare Saulo> (11, 25) nella coscienza di dover mettere tutte le migliori possibilità al servizio dell’annuncio del Vangelo di Cristo da annunciare <gratuitamente> (Mt 10, 8) come gratuitamente lo si è ricevuto. Siamo così messi di fronte a ciò che potremmo definire il dinamismo proprio di ogni respiro di evangelizzazione: la coscienza grata di essere stati raggiunti dalla grazia di Dio genera un movimento naturale che spinge a cercare gli altri là dove sono senza mai attenderli al varco di dove noi siamo stati posti non certo per nostro merito.

Non solo, l’insegnamento del Signore sottolinea oltre che la gratuità assoluta che esige la condivisione del dono ricevuto, anche una capacità di mettersi sulla strada degli altri senza attendere che siano gli altri a venire verso di noi: <In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti> (10, 11). Se meditiamo questa consegna del Signore ai suoi discepoli e ne contempliamo la sua continuazione esistenziale e attiva nella vita delle prime comunità cristiane, ci rendiamo conto di come non ci sia fedeltà al Vangelo che non sia eccentrica e centrifuga per sua stessa natura. Di Barnaba ci viene detto che è capace di rendersi conto di quanto la grazia sia all’opera nella vita della comunità fino ad essere capaci di intuire il tesoro di possibilità che si cela nel cuore dell’ultimo arrivato che è Saulo tanto che <si rallegrò ed esortava tutti a restare, con cuore risoluto, fedeli al Signore, da uomo virtuoso che era e pieno di Spirito Santo e di fede> (At 11, 23-24).

Il programma di viaggio della grande avventura dell’evangelizzazione si riassume in qualche verbo: <Guarite… risuscitate… purificate… scacciate i demoni> (Mt 10, 8). Tutto ciò, secondo le indicazioni e l’esempio del Signore, va vissuto e condiviso in uno stile dominato e informato da un avverbio: <gratuitamente>. Ambedue le cose sembrano impossibili senza un atteggiamento di libertà da se stessi che si esprime attraverso una sorta di spoliazione previa necessaria: <né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone> (10, 10). Tutto ciò per Barnaba significherà fare un passo indietro nel gruppo dei “nuovi apostoli” dando tutto lo spazio all’astro nascente che fu Paolo. Barnaba sembra essere un apostolo di seconda classe come noi, con il privilegio di essere tra quei <piccoli> che il Signore pone nella comunità come misura e criterio di discernimento.

Conferma

X Settimana T.O. –

Quella del Signore Gesù è una parola che forse non riusciamo a cogliere in tutta la sua portata e la sua importanza abituati come siamo ormai ad avere a disposizione tutti gli alimenti di cui abbiamo bisogno. Ma nei tempi antichi il sale era un bene primario perché andava prodotto con grande cura e portato in quelle zone in cui non si sarebbe potuto trovare. In alcuni rituali di accoglienza, come segno di attenzione verso l’ospite, gli si offriva oltre che il pane anche un po’ di sale. E il Signore Gesù pensando ai suoi discepoli, pensando a noi che desideriamo essere annoverati tra i suoi discepoli ci dice ancora una volta e in modo così diretto: <voi siete il sale della terra, ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrebbe rendere salato?>. E come se non bastasse a farci temere di essere comunque inadeguati al nostro compito e alla nostra missione di presenza e di testimonianza in mezzo ai fratelli, aggiunge: <Voi siete la luce del mondo> (5, 14).

Ciò che nel vangelo secondo Giovanni è continuamente riferito allo stesso Signore (Gv 8, 12) quale <luce vera> (1, 9) e al profeta Giovanni suo Precursore indicato come <lampada> (5, 35) gioiosa qui viene riferito con la stessa intensità a ciascuno di noi: <così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al vostro Padre che è nei cieli> (Mt 5, 16). Proprio Matteo che tra poco insisterà sulla necessità di compiere ogni cosa <nel segreto> (Mt 6, 4.6.18), subito dopo aver elencato le beatitudini è come se invitasse chiunque ne sperimenti nella propria esistenza una piccola scintilla a non tenerla <nascosta> (5, 14) come <un tesoro geloso> (Fil 2, 6) ma, al contrario, di condividerla come si fa con la luce di una candela in piena notte e di un pugno di sale in cucina. Davanti a questo mistero di dono, che siamo noi stessi tanto da essere obbligati a donare e a condividere a nostra volta, possiamo fare veramente nostre la parole di Paolo: <E’ Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori> (2Cor 1, 24).

In altre parole, dobbiamo continuamente tenere desta la memoria che la fonte della nostra luce non è in noi stessi ma viene da Dio; la fragranza del gusto della nostra vita non è frutto della nostra sagacia, ma è partecipazione alla sapienza che viene dallo Spirito. Una simile consapevolezza non può che generare un atteggiamento di grande disponibilità alla condivisione sempre unita ad una profonda discrezione. Infatti, non siamo <padroni della vostra fede> ma <collaboratori della vostra gioia> (1, 24). La conclusione di Paolo è assai interessante: <perché nella fede voi siete già salvi>. Questo modo di guardare alla vita degli altri come già perennemente abitata dalla presenza del <Figlio di Dio, Gesù Cristo> (1, 19) rende tutto più semplice e più bello. Non si tratta di apportare nulla di nuovo nella vita dei nostri fratelli ma, semplicemente, di scoprirvi e mettere <sul lucerniere> (Mt 5, 15) ciò che già li abita profondamente, ciò che già – forse a nostra insaputa e sempre in modo invisibile – dà sapore e gusto alla nostra stessa vita. Non siamo forse tutti chiamati ad essere <collaboratori> (2Cor 1, 24) della gioia?!

Fratelli tutti

Maria Madre della Chiesa –

Non siamo ancora abituati a vivere questa memoria mariana istituita da papa Francesco per il giorno dopo la solennità della Pentecoste. Il testo degli Atti degli Apostoli proposto per la Liturgia della Parola risuona come una sorta di protocollo per la vita della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo: <Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi> (At 1, 13). Laddove i Dodici, quasi certamente accompagnati e non solo serviti dalle donne, avevano vissuto il momento della cena pasquale alla vigilia della passione del Signore, il nucleo fondamentale della prima comunità dei discepoli del Crocifisso Risorto, attende il dono promesso dello Spirito. Secondo la cronologia lucana, se la comunione nella carità è il frutto più maturo dell’effusione dello Spirito, ne è pure la premessa essenziale: <Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui> (1, 14).

Questa memoria voluta da papa Francesco per l’intera Chiesa cattolica assume un significato emblematico alla luce dell’ultima enciclica di papa Francesco firmata sulla tomba del Poverello alla vigilia della sua festa: <”Fratelli tutti, scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui”. Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita>. 

Il seme di questa universale fraternità è stato fatto cadere si piedi della croce del nostro amato Signore nel momento in cui redasse il suo testamento di tenerezza con la penna della croce e l’inchiostro indelebile del suo sangue versato: <Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé> (Gv 19, 25-27. 

All’indomani dello spegnimento del cero pasquale, che ha rallegrato con la sua colonna di luce le nostre assemblee liturgiche, siamo chiamati a ritornare sotto l’albero della croce. Là possiamo cogliere il frutto non proibito di una tenerezza e di un amore che sono l’univo vero antidoto ad ogni tentazione di regressione all’autoreferenzialità mortifera. La <paura> (Gen 3, 10) sperimentata dalla nostra umanità subito dopo aver acconsentito alla suggestione di potersi dare la pienezza di vita prendendola con le proprie mani, si trasforma in <stupore> (Mc 16, 8) rinnovato. Dopo aver celebrato di nuovo la Pasqua, riprendiamo il nostro cammino nel tempo ordinario nello stupore di un amore che non si lascia vincere da nessuna <paura> perché radicato nella bellezza di camminare insieme e nella promessa che siamo comunque sorelle tutte e fratelli tutti.