Il tuo nome è Figlio, alleluia!
IV Domenica di Pasqua –
Durante la Veglia Pasquale abbiamo ancora una volta – come ogni anno – letto il racconto della prova di Abramo cui il Signore chiede di offrire in olocausto il proprio figlio. Il testo ebraico è costruito su una simpatica quanto drammatica ambiguità poiché lo stesso termine – tal’ja – che indica l’agnello rischia di indicare anche il figlio. Così al cuore del tempo pasquale il mistero del Figlio e dell’Agnello ci vengono riproposti magnificamente dalla Liturgia. Nel breve Vangelo di questa domenica colui che, indirettamente nei versetti che leggiamo quest’anno, si considera pastore in quanto ha delle pecore che ne ascoltano la voce e lo <seguono> (Gv 10, 27). Quando parla di se stesso in realtà lo fa riferendosi in modo forte a quel Padre che in un solo versetto viene evocato per ben tre volte: <Il Padre mio che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola> (Gv 10, 30).
In questa unità di comunione sostanziale sta il fondamento di quel cammino verso l’unità e la condivisione di un medesimo respiro cui è chiamata tutta l’umanità nella misura in cui si lascia guidare come suo <pastore> (Ap 7, 17) da colui che si è fatto amorevolmente <Agnello>. Ancora una volta la Liturgia crea una magnifica corrispondenza: se per tre volte nel Vangelo viene evocato il Padre, per tre volte, nella prima lettura si parla dell’Agnello che è, esattamente, quel Figlio che ci apre ad una comunione e relazione con Dio definitivamente riscattata da ogni ombra di paure e di servitù per aprirci allo spirito della figliolanza in cui ci sentiamo e siamo veramente liberi. La visione del veggente di Patmos diventa così un’iniezione di speranza: <vidi: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello> (7, 9).
Spesso nell’Apocalisse troviamo piuttosto l’attitudine dello stare prostrati in adorazione, qui invece l’attitudine è quella che indica la libertà e la dignità che, proprio in virtù del mistero pasquale di Cristo Signore, ci rende vittorioso su ogni forma di paura e di diminuzione di dignità: <avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani>. A questo punto potremmo riprendere quella che si potrebbe intendere come un’acclamazione nel ritmo narrativo della prima lettura: <si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero> (At 13, 48). Verrebbe da chiedersi in che cosa <credettero>? Dovremmo chiederci in che cosa noi stessi crediamo e forse la risposta è che il senso profondo della nostra fede in Cristo, morto e risorto, è sentirci sempre di più veramente figli del Padre tanto da lasciarci portare nella sua <mano> (Gv 10, 29) con una fiducia e un’allegrezza impareggiabili. È il Signore Gesù che posa ciascuno di noi nella grande mano di Dio dopo averci portato amorevolmente sulle sue spalle di buon pastore e facendoci così ritrovare la strada perduta della fiducia, della gioia, della speranza… in una parola della figliolanza proprio nel turbine della <grande tribolazione> (Ap 7, 14). L’esperienza che siamo chiamata a fare riposando nella grande e dolce mano del Padre è questa: <Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi> (Ap 7, 17).
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