Al plurale
Tutti i Santi –
Spesso le rappresentazioni dei Santi che ornano le nostre chiese, per quanto belle, possono talora sembrare un po’ eccessivamente distaccate dalla realtà, tanto da rendere la santità qualcosa che non ci riguarda poi così tanto. La pagina del Vangelo che accompagna questa festa e ci aiuta ad entrare in un dinamismo di annuncio e di conversione che non ha nulla di idealistico e sembra quasi metterci al riparo da ogni rischio di idealizzazione di santità. Questo realismo di santità che possiamo cogliere nella pagina delle “beatitudini” che accompagna questa solennità ci rende come allergici ad ogni mielismo angelicato. Il messaggio sembra chiaro: si è santi insieme e lo si è nella misura in cui si è radicati nella realtà della propria vita. Così la santità diventa un vero lavoro che si manifesta come frutto della saggia e appassionata mediazione non solo delle nostre qualità umane e spirituali, ma anche dei nostri limiti e delle nostre ferite: <poveri… nel pianto… perseguitati>. Ciò che fa la differenza è la coscienza di quel <grande amore> che ci permette di <essere chiamati figli di Dio>, non solo con una sorta di nominalismo vuoto ma <realmente> (1 Gv 3, 3, 1).
A partire dalle parole dell’apostolo la santità coincide con la coscienza di una figliolanza accolta che fonda la nostra speranza di diventare ciò che siamo: <Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro> (3, 3). La santità non è uno stato, ma un dinamismo che va da un <fin d’ora> (3, 2) all’attesa di una pienezza che è ancora tutta da ricevere e da scoprire con rinnovata meraviglia. La domanda del vegliardo resta sospesa in attesa di una risposta che sia capace di illuminare ogni umano cammino fino a renderlo parte della stessa pienezza divina: <Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?> (Ap 7, 13). Si tratta di passare dalla santità desiderata alla povertà offerta e di farlo rigorosamente insieme senza abdicare al proprio ineludibile contributo personale alla storia di tutti. Il messaggio delle beatitudini ci ricorda che Dio è presente non aldilà della nostra realtà quotidiana, ma dentro la nostra fatica di vivere e di convivere in un amore che sa persino donarsi nella morte.
Così la santità evangelica non è perfezione morale che riguarderebbe una élite di privilegiati, ma è l’esperienza di quella grazia di filiazione da cui tutto può sempre ripartire verso la luce come ci fa pregare la Liturgia subito dopo la comunione: <O Padre unica fonte di ogni santità, mirabile in tutti i tuoi Santi, fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore, per passare da questa mensa eucaristica, che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso banchetto del cielo>. Meglio essere in cammino e un po’ sporchi, claudicanti, feriti e talora stufi, piuttosto che fermi e immobili su noi stessi. La santità del Vangelo sporca le mani e sporca, prima di tutto, i piedi con cui siamo chiamati a fare i passi necessari non solo per sopravvivere, ma, prima di tutto, per incontrarci e incoraggiarci a vicenda. Possiamo ben dire che <Certo per essere santi basta amare, ma si tratta di amare come il Signore ci ha amati. Ed è a questa misura senza misura, che la via della santità diventa così stretta ed esigente (cfr. Mt 7, 14)>1 senza mai essere impossibile se non per quanti si pensano in modo isolato.
1. J. HAGGERTY, Magnificat 264 (Novembre 2014) p. 48.





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