Attendere… un messaggio

I Domenica di Avvento 

Il tempo di Avvento e il nuovo ciclo triennale della Liturgia domenicale vengono aperti con una parola che può essere assunta come il vessillo e l’ispirazione di un nuovo tempo di ascolto e di docile conversione, all’insorgere della presenza del Regno di Dio che viene nella nostra storia: <Messaggio che Isaia, figlio di Amoz ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme> (Is 2, 1). Questo versetto introduttorio all’Avvento può essere recepito e accolto come chiave per entrare nel mistero di una rinnovata apertura al mistero di Dio che, ancora una volta, ama e chiede di farsi vita della nostra vita. Se c’è un <messaggio> c’è pure qualcuno attraverso cui questo messaggio viene trasmesso. L’Avvento ci chiede di farci o rifarci doppiamente sensibili: accogliere il messaggio e accettare che esso si possa trasmettere efficacemente attraverso di noi: <La prima venuta fu umile e nascosta, l’ultima sarà folgorante e magnifica; quella di cui parliamo è nascosta, e nello stesso tempo, magnifica. Dico che è nascosta, non perché sia ignota da colui che la riceve, ma perché avviene in lui nel segreto … Avviene senza essere vista e si allontana senza che se ne accorga. La sua sola presenza è luce dell’anima e dello spirito. In essa vediamo l’invisibile e conosciamo l’inconoscibile. Questa venuta del Signore mette l’anima di chi la contempla in una dolce e beata ammirazione. Lo sanno quanti hanno fatto tale esperienza, e voglia Dio che coloro che non l’hanno ancora fatta ne provino il desiderio>1.

Accanto al profeta Isaia che ci accompagnerà lungo queste quattro domeniche nel cammino verso il Natale del Signore, risuona pure la parola dell’apostolo: <questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti> (Rm 13, 11). Il <messaggio> affidato al profeta assume contorni più chiari e diventa un invito alla consapevolezza che ci libera da ogni fuga e da ogni abbaglio della superficialità che apparentemente così vitale è, in realtà, un <sonno dell’anima>. Mentre la liturgia dell’Avvento ci invita ad accendere lumi discreti e soffusi, si accendono, per le strade delle nostre città e per i vicoli del nostro cuore, una serie di luci ammiccanti, così da essere chiamati – anche noi – ad affrontare un piccolo grande combattimento per rimanere consapevoli di ciò che veramente desideriamo, per non lasciarci contaminare dal volere e dal cercare ciò che, in realtà, neppure ci attrae e di cui non abbiamo nessun bisogno. Sempre l’apostolo ci offre un avverbio che può diventare come la nostra piccola lampada alla cui <luce gentile>, come amava pregare il Cardinal Newman, discernere e vivere di desiderio. Questo avverbio è: <onestamente>. Se non sapessimo cosa può significare questo avverbio allora non ci resta che leggere un po’ più oltre <come in pieno giorno> (Rm 13, 13).

Il messaggio da ricevere e da trasmettere è quello di una consapevolezza che si fa onestà nell’accogliere e nell’attraversare la vita di ogni giorno. La parola del Signore Gesù ci riporta a questo mistero di quotidianità che non ha niente a che fare con la banalità: <Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà> (Mt 24, 42). Questa parola del Signore non va intesa e accolta come una minaccia, ma piuttosto come un onore alla nostra dignità di persone sempre e continuamente rimandate alla propria libertà chiamata ad integrare i <due uomini> e le <due donne> che abitano dentro di noi (Mt 24, 40-41). Tenersi pronti non può che essere il segno e il frutto di attendere qualcosa – più precisamente Qualcuno – che ci porta sempre oltre la soddisfazione dei nostri bisogni primari. Il rischio da cui siamo chiamati a tenerci assolutamente vigilanti è quello in cui caddero i nostri padri i quali <non si accorsero di nulla> (24, 39). Una domanda si pone non tanto per loro quanto per noi stessi: non si accorsero di nulla e non vollero accorgersi di niente per evitare di dover scegliere, lasciando che altri scegliessero al loro posto. Teniamo d’occhio le troppe luci di questi giorni e cerchiamo di abbassarle in modo che la notte ci permetta di scorgere le stelle… la Stella. 


1. GUERRICO D’IGNY, Discorsi per l’avvento, 2, 2-4 : PL 185, 15-17

Attendre…un message

I Dimanche de l’Avent –

Le temps de l’Avent et le nouveau cycle triennal de la Liturgie dominicale s’ouvrent par une parole qui peut être considérée comme la bannière et l’inspiration d’un temps nouveau d’écoute et de conversion docile à l’apparition de la présence du Royaume de Dieu qui vient dans notre Histoire : «  Message d’une vision d’Isaïe, fils d’Amos qu’il a reçue touchant Juda et Jérusalem » ( Is 2, 1 ). Ce verset qui introduit l’Avent, peut être reçu et écouté comme la clé pour entrer dans le mystère d’une ouverture rénovée au mystère de Dieu qui, une fois encore, aime et demande de devenir la vie dans notre vie. S’il y a un « message », il y a aussi quelqu’un par qui ce message est transmis. L’Avent nous demande de devenir ou de redevenir doublement sensibles : accueillir le message et accepter qu’il puisse se transmettre efficacement à travers nous : « La première venue fut humble et cachée, la dernière sera fulgurante et magnifique ; celle dont nous parlons est cachée, et, en même temps, magnifique. Je dis qu’elle est cachée, non parce qu’elle est ignorée de celui qui la reçoit, mais parce qu’elle lui parvient dans le secret…Elle arrive sans être vue et s’éloigne sans que l’on s’en aperçoive. Sa seule présence est lumière de l’âme et de l’esprit. En elle, nous voyons l’invisible et connaissons l’inconnaissable. Cette venue du Seigneur met l’âme de celui qui la contemple dans une douce et sainte admiration. Ceux qui ont fait une telle expérience le savent, et que Dieu veuille    que ceux qui ne l’ont pas encore faite en éprouvent le désir »1.

Près du prophète Isaïe qui nous accompagne dans le chemin vers le Noël du Seigneur, tout au long de ces quatre dimanches, la parole de l’apôtre résonne aussi : « D’autant que vous savez en quel moment nous vivons. C’est l’heure désormais de vous arracher au sommeil ; le salut est maintenant plus près de nous qu’au temps où nous avons cru » ( Rm 13, 11 ). Le «  message » confié au prophète assume des contours plus clairs et devient une invitation à la prise de conscience qu’il nous libère de toute fuite et de tout aveuglement de la superficialité, apparemment si vitale, mais qui est en réalité, un «  sommeil de l’âme ». Alors que la liturgie de l’Avent nous invite à allumer de discrètes lumières tamisées, dans les rues de nos villes et les     ruelles de nos coeurs s’allument une série de lumières clignotantes, pour que – nous aussi – soyons appelés à affronter un petit grand combat pour rester conscients de ce que nous désirons vraiment, pour ne pas nous laisser contaminer par  la volonté et la recherche de ce que, en réalité, ne nous attire pas et dont nous n’avons aucun besoin. Toujours l’apôtre nous offre un adverbe qui peut devenir comme notre petite lampe, «  gentille lumière » comme aimait prier le Cardinal Newman, pour distinguer et vivre le désir. Cet adverbe est : «  honnêtement ». Si nous ne devions plus savoir ce que peut signifier cet adverbe, il ne nous reste plus, alors, qu’à lire un peu plus loin «  comme en plein jour » ( Rm 13, 13 ).

Le message à recevoir et à transmettre est celui d’une conscience qui devient honnête dans l’accueil et la traversée de la vie de tous les jours. La parole du Seigneur Jésus nous reporte à ce mystère du quotidien qui n’a rien à voir avec la banalité : «  Veillez donc, car vous ne savez pas le jour où le Seigneur viendra » ( Mt 24, 42 ). Cette parole du Seigneur n’est pas à entendre et à écouter comme une menace, mais plutôt comme un honneur à notre dignité de personne toujours et continuellement renvoyée à sa propre liberté appelée à intégrer les «  deux hommes » et les «  deux femmes » qui habitent        en nous ( Mt 24, 40-41). Se tenir prêts, ne peut qu’être le signe et le fruit d’attendre quelque chose – plus précisément Quelqu’un – qui nous emmène toujours au-delà la satisfaction de nos besoins primaires. Le risque auquel nous sommes appelés à veiller absolument, est celui dans lequel sont tombés nos pères qui «  ne se rendirent compte de rien » ( 24, 39 ). Une question se pose, non seulement à leur sujet, mais pour nous-mêmes aussi : ne s’apercevoir de rien et ne pas vouloir s’en apercevoir  c’est éviter de devoir choisir, laissant les autres choisir à notre place. Tenons à l’œil les nombreuses lumières de ces jours et cherchons à les atténuer afin que la nuit nous permette d’apercevoir les étoiles…l’Etoile.


1. GUERRICO D’IGNY, Discours pour l’Avent. 2, 2-4 : PL 185, 15-17

Al giusto posto

XXXIV settimana T.O. –

Siamo invitati a mettere persino le giuste occupazioni e preoccupazioni al posto giusto. La cosa importante che il Signore Gesù cerca di trasmetterci non è il “come” della fine del mondo ma il “come” arrivare, vivendolo quotidianamente, a questo momento di verità tanto da vivere autenticamente il tempo presente senza “ingannare il tempo” per non ingannare noi stessi. Vegliare <in ogni momento> (Lc 21, 36) significa amare chi è più debole e ha più bisogno, ma significa anche prendersi cura di ciò che in noi è più fragile e bisognoso tanto. La sfida quotidiana del nostro cammino discepolare è passare da un semplice atto di presenza alla storia – personale e globale – ad un essere realmente presenti a noi stessi e agli altri soprattutto nei momenti più esigenti e duri. In questo ultimo giorno del tempo ordinario, mentre già si preparano i colori e i toni di un rinnovato Avvento, siamo chiamati a rimboccarci le maniche e non certo di incrociarle. Si tratta per ciascuno di affrettare con nostre scelte e le nostre azioni quel momento sognato da Daniele in cui <la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo> (Dn 7, 27).

Il primo passo per evitare di incrociare le braccia dinanzi alle esigenze della storia è quello di congiungere la mani in atto di preghiera per obbedire alla consegna del Signore: <Vegliate, in ogni momento, pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo> (Lc 21, 36). Come spiega un teologo contemporaneo: <La preghiera non è soltanto una risposta alla vita di tipo radicale per mezzo del godimento e dell’assaporamento della vita, ma è anche un modo per opporsi ai nemici della vita. In un senso molto reale, la storia della preghiera è la storia del potere all’interno della comunità di preghiera e nel mondo in generale. La preghiera, infatti, è l’atteggiamento che si assume di fronte ai poteri malvagi, è una battaglia, è la lotta umana contro il male>1. Potremmo dunque concludere questo anno di ascolto della Parola attraverso il ciclo della liturgia con il proposito di coltivare di più e in modo più radicalmente profetico la nostra attitudine alla preghiera non certo per isolarci misticamente dalla vita e dalla storia, ma per abitarla fino a trasformarla.

Il monito del Signore ci raggiunge e ci interpella: <State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano> (21, 34). L’esempio di Daniele diventa per noi una sorta di traccia per passare dal turbamento davanti a ciò che si agita nella storia per guadagnare in speranza attraverso una rinnovata fiducia nel fatto che infine e definitivamente al male <sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente> (Dn 7, 26). Tutto ciò ci sarà certo dato in dono, ma, al contempo, sarà il frutto delle nostre fatiche e delle nostre conquiste interiori attraverso il combattimento contro ogni forma di superficialità e l’impegno costante a mettere ogni cosa, ogni emozione, ogni sentimento, ogni desiderio al giusto posto.


1. M. FOX, Preghiera. Una risposta radicale all’esistenza, Gabrielli Editore, Verona 2014, p. 92

Guardare

XXXIV settimana T.O. –

Nella prima lettura troviamo un continuo invito ad aguzzare la vista e sembra che il profeta Daniele sia proprio un uomo capace non solo di guardare, ma anche di osservare, fino a comprendere oltre le stesse cose che cadono sotto i suoi occhi. In questo modo egli può cogliere il senso più profondo di ciò che gli eventi della storia non solo rivelano, ma pure segretamente preparano: <Io Daniele, guardavo nella mia visione notturna…> (Dn 7, 2). Per ben sette volte, nella prima lettura, si evoca la capacità e la volontà del profeta di guardare con una tale profondità da essere in grado di andare ben oltre le apparenze e far maturare – nonostante tutto il peso di minaccia che le varie bestie sembrano incutere – una speranza ancora più grande: <Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunge fino al vegliardo e fu presentato a lui> (7, 13). L’esempio di Daniele ci obbliga ad un serio esame di coscienza sul rischio di avere sempre gli occhi aperti sulla realtà e sulla storia che ci passa davanti attraverso un inarrestabile flusso di immagini e di suggestioni. Quando è così, siamo incapaci di vedere – in realtà – alcunché, quasi prigionieri e spesso persino accecati da una superficialità che rischia di renderci insensibili.

Sembra proprio che guardare e vedere in modo profondo e avvertito sia un dovere che non si improvvisa, ma ha bisogno di una lunga preparazione. E non solo. Questa visione necessita di una vera abitudine – per nulla abitudinaria – ad andare oltre le apparenze, ingaggiando una sorta di diuturno combattimento spirituale contro la superficialità in tutte le sue manifestazioni: le più evidenti, come quelle delle bestie evocate dal profeta Daniele o le più sottili e ancora più invisibili dei germogli, evocate dal Signore Gesù nel Vangelo: <Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino> (Lc 21, 31). Pertanto, non basta vedere con gli occhi o sentire con le orecchie. Per discernere i segni dell’irruzione del Regno di Dio nella nostra storia è necessario maturare nella capacità di intra-vedere, fino ad essere profeticamente capaci di ultra-vedere. Nel battesimo siamo stati unti con il crisma che ci ha reso profeti, re e sacerdoti. Ciò comporta, per ogni battezzato e discepolo del Signore Gesù, un dovere di profezia posta al cuore della storia perché essa possa realmente diventare, non semplicemente l’evidenza di eventi che si succedono quasi casualmente, ma il respiro di una coscienza sempre più affinata: <Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi: quando già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l’estate è vicina> (21, 29-30).

Quando il fico, la cui spettrale veste invernale non lascia alcun posto a nessuna illusoria speranza, germoglia, è segno che tutti gli altri alberi faranno ben presto altrettanto e che il raccolto dei frutti si avvicina, assicurando non solo la continuità, ma pure la gustosità della vita. Come discepoli di Cristo Signore, educati quotidianamente alla scuola del Vangelo, siamo chiamati a presagire i tempi e i modi di una speranza senza la quale tutto rischia di soccombere in un’invincibile tristezza.

Liberazione

XXXIV settimana T.O. –

Sembra la fine di tutto. Eppure, è solo la fine di un mondo che vede le sue potenze sconvolte. Il Signore più volte ha accennato al suo ritorno al termine della storia di questo mondo. Se è vero che <le potenze del cielo saranno sconvolte> (Lc 21, 27), nondimeno questa è solo la cornice di un quadro dove ciò che positivamente colpisce è l’avvento del Signore <con grande potenza e gloria> (21, 28). Il Signore rinnova per noi il suo avvento proprio quando un mondo inteso come modo di intendere e vivere la propria storia volge necessariamente e giustamente al termine. Il Signore non ci invita a tremare, ma ci chiede di sperare: <risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina> (Lc 21, 28). A questo punto la domanda si fa urgente per prendere coscienza da che cosa dobbiamo essere liberati. Forse abbiamo bisogno di essere liberati dalla presunzione di avere il controllo di tutta la situazione o dalla pretesa di avere la verità in tasca. La Parola di Dio offertaci attraverso la Liturgia di quest’oggi ci fa scendere con Daniele nella fossa dei leoni e là ci rendiamo conto di come, magnificamente, l’innocenza interiore di Daniele viene riconosciuta dai leoni dopo essere stata calpestata dai notabili del re Dario.

Non si fa nessuna fatica a sentire con quale dolore il re ordinò <che si prendesse Daniele e lo si gettasse nella fossa dei leoni> (Dn 6, 17). Così pure non è difficile immaginare con quali sentimenti il Signore Gesù si lanci in ciò che ha tutta l’aria di essere una minaccia in grande stile: <Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti> (Lc 21, 25). Come se non bastasse, quasi per colpire ancora più direttamente e duramente, il Signore sembra sentire il bisogno di entrare nel dettaglio di quelli che saranno i sentimenti più profondi e più inquietanti: <mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra> (Lc 21, 25). Queste parole non vogliono gettarci nell’angoscia, ma hanno di mira il tentativo di difenderci dalla fossa della superficialità e della dimenticanza. Infatti, se una <liberazione> è attesa e sperata, allora è segno che un’oppressione è attraversata e, perciò stesso, qualcosa di negativo è stato vinto.

Non è certo la minaccia che sta a cuore al Signore, bensì la consapevolezza. Nondimeno, spesso, per crescere in consapevolezza si rende necessario una certa durezza che ci fa uscire da quel sonno spirituale che, se incontrastato, rischia di farci scivolare – ignari – nella morte. Possiamo spiritualmente porci con Daniele per un’intera notte <nella fossa dei leoni> (Dn 6, 17) e far emergere le paure bestiali da cui ci sentiamo circondati e minacciati. Solo così potremo sperimentare cosa sia e in cosa veramente consista la nostra <liberazione>. Una domanda attraversa naturalmente e giustamente il nostro cuore: che cosa ha reso possibile a Daniele di ammansire quei leoni che, invece, <si avventarono> contro i suoi accusatori e le loro famiglie <e ne stritolarono tutte le ossa> (Dn 6, 26)?

La risposta la troviamo all’inizio della prima lettura: <alcuni uomini accorsero e trovarono Daniele che stava pregando e supplicando il suo Dio> (6, 12). Ciò che può ammansire dentro di noi e attorno a noi quanto invece rischierebbe altrimenti di ucciderci, è la preghiera! Sembra saperlo persino il re nel momento stesso in cui è costretto a far gettare Daniele nella fossa dei leoni: <Quel Dio, che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!> (6, 17). La preghiera mantiene il nostro cuore in un atteggiamento di fede nei confronti di Dio che, per la sua profondità, si comunica agli animali irrazionali e persino alle cose inanimate tanto che, tutto ciò che ci può fare del male può trasformarsi in un mezzo e un’occasione per sperimentare ancora più <vicina> la <liberazione> (Lc 21, 28). 

Perseverare

XXXIV settimana T.O. –

Perseverare esige la capacità di consegnare la propria umana avventura accettando di lasciare che le cose della nostra esistenza seguano il flusso della vita. Solo così invece di essere terrorizzati come il re di cui ci parla la prima lettura, saremo consolati come discepoli sereni e fedeli. Per quanto i passaggi della vita possano sembrare talora duri e spesso così incomprensibili, la parola del Signore Gesù ci accompagna e ci guida in un lavoro di continua interpretazione che non riguarda soltanto i testi sacri, ma anche gli eventi della vita: <Avrete allora occasione di dare testimonianza> (Lc 21, 13). Questa frase ha il duplice sapore della constatazione e della consegna perché viene posta a conclusione di una serena presa di coscienza del fatto che <Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome> (21, 12). Quello che la vita e la storia possono farci subire, sembra essere un argomento che ci riguarda molto meno di ciò che noi saremo in grado di far dare alle costrizioni della vita, come frutto generoso maturato al sole della libertà e dell’amore. Così possiamo intuire la verità dell’apparente contraddizione nelle parole del Signore, una contraddizione che ci promette, al contempo, una sicura persecuzione, persino all’interno dei vincoli più sacri e amati, senza omettere di rassicurarci in modo tanto radicale da dire: <nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto> (21, 18). 

Infatti, nulla che ha come origine l’esercizio generoso e leale della libertà e dell’amore andrà perduto, non perché non cadrà come un capello, ma perché qualcuno lo raccoglierà e lo conserverà, rendendolo così memoria di una vita donata a tal punto… da sembrare perfino sprecata. Vi è una preziosità che può, infatti, sfuggire all’occhio umano soprattutto se accecato dall’amor proprio, ma in nessun modo sfugge all’Altissimo. Il dramma di Baldassàr è quello della leggerezza e della superficialità. Quando, infatti, <comandò che fossero portati i vasi d’oro e d’argento che suo padre Nabucodonosor, aveva asportato dal tempio di Gerusalemme, perché vi bevessero il re e i suoi dignitari, le sue mogli e le sue concubine> (Dn 5, 2), forse non aveva neppure intenzioni coscientemente sacrileghe, quanto piuttosto la voglia di mostrare la sua ricchezza e lo splendore dei bottini di suo padre. Ma <In quel momento apparvero le dita di una mano d’uomo, che si misero a scrivere sull’intonaco della parete del palazzo…> tanto che <il re cambiò di colore> (2, 5-6).

Era sfuggito al re che quei vasi non erano semplicemente contenitori preziosi, ma erano segno di qualcosa di più grande, di più bello, di immensamente più vero del <grande banchetto> (2, 1) da lui imbandito. Il <vino> dell’ebbrezza di sé non poteva essere contenuto dai vasi che erano stati testimoni della grandezza trascendente dell’Altissimo. Così l’occasione per pavoneggiarsi si trasformò, per Baldassàr, nella necessaria presa di coscienza del limite del suo fragile e apparente potere: <Mene, Tekel, Peres> (2, 25). L’unica via per dare consistenza alla nostra vita è di coltivare il senso profondo delle cose, trasformando ogni piccolo evento in una tappa e in un’occasione di crescita. Il monito del Signore diventa una bussola: <Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita> (Lc 21, 19) e nulla, proprio nulla, andrà <perduto> (21, 18) se sapremo rischiare di sembrare sprecati.

Fine

XXXIV settimana T.O. –

Il Signore Gesù non ci vuole lasciare nell’ignoranza e non vuole che cediamo alla confusione interiore che, il terrore di non saper discernere il significato reale degli eventi, può seminare nel nostro cuore. La parola di Gesù è un monito a mantenere la calma e la lucidità della mente attraverso l’esercizio della purezza del cuore: <Badate di non lasciarvi ingannare> (Lc 21, 8). Il profeta Daniele, interpretando il sogno del Nabucodonosor, ci offre una chiave per comprendere, a nostra volta, i segni che ritmano il nostro cammino attraverso il tempo: <come il ferro non si amalgama con l’argilla fangosa> (Dn 2, 43). Questa parola di Daniele diventa così un criterio di discernimento da applicare alla nostra vita personale come pure agli eventi della storia. Ci sono realtà che apparentemente sono provviste di una forza impressionante, ma – in realtà – sono segnate da una debolezza costituzionale che, nell’apparenza dell’onnipotenza, già celano la debolezza più estrema.

Il sogno di Nabucondosor, cui Daniele dà una <spiegazione> che è <degna di fede> (2, 45), diventa nel Vangelo il segno del Tempio. Proprio <mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi>, Gesù ne preannuncia la distruzione fino a dire che <non sarà lasciata pietra su pietra che son sarà distrutta> (Lc 21, 6). Il Tempio di Gerusalemme, segno della fede di Israele nel Dio unico che è il Dio dei Patriarchi e dei Profeti, e quasi una denuncia architettonica dell’idolatria degli altri popoli, alla fine non solo sembra subire la stessa sorte di quella <statua enorme, di straordinario splendore> (Dn 2, 31), ma persino peggiore. L’origine di ogni rovina è la confusione tra l’inevitabile fine di ogni realtà umana – nel senso di naturale conclusione – e di ogni esperienza storica per quanto gloriosa: il fine di ogni vita e di ogni avvenimento.

Per questo il Signore ci mette in guardia da noi stessi e dalle nostre paure che spesso ci fanno ingigantire le cose futili e rimpicciolire quelle essenziali: <Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine> (Lc 21, 9). In questo modo, l’unico Maestro ci ricorda che prima di tutto bisogna intercettare e perseguire il fine della nostra umana avventura. Ogni generazione – non esclusa la nostra – fa esperienza della fine del mondo, poiché ogni tratto di storia deve misurarsi con la propria crescita e con il proprio tramonto. Per questo tutti dobbiamo misurarci con la fine del mondo e del modo a cui siamo abituati e a cui siamo spesso tenacemente attaccati. L’esperienza di fede e la nostra fedeltà a Cristo dovrebbero darci la forza e la lucidità di saper assumere e portare il tramonto del nostro proprio modo di concepire la vita e di immaginare la storia, così che, quello che può sembrare in un primo momento una vera catastrofe, può rivelarsi, invece, come un’impagabile opportunità. L’essenziale è non perdere di vista il nostro cuore e tenerci, nel segreto delle sue imperturbabili profondità, al riparo da ogni inutile rigonfiamento di noi stessi, non dimenticando mai che solo Dio è <grande> (Dn 2, 45) e noi siamo in buona parte di <argilla> (2, 33). 

In cuor suo

XXXIV settimana T.O. –

Quest’ultima settimana dell’anno liturgico comincia con due racconti che, pur nella loro diversità, si richiamano non poco. Il breve e intenso racconto di <una vedova povera> (Lc 21, 29 per la quale il Signore non solo ha occhi, ma che viene additata come esempio ai suoi discepoli è preparato da un testo assai più lungo che riguarda lo stesso luogo: <Gerusalemme> e il <tempio di Dio> (Dn 1, 1-2) cinta d’assedio da Nabucodonosor e spogliata degli arredi sacri. Mentre si consuma la catastrofe della presa di Gerusalemme, il testo biblico sembra distogliere la nostra attenzione dai drammi della storia per concentrarla su ciò che avviene nell’intimo di quattro giovani – belli e intelligenti – che assumono il reale senza sacrificare la libertà della loro coscienza. Mentre tutto sembra scontato e quasi obbligato ad andare nella direzione voluta dai potenti della terra che facilmente diventano tiranni: <Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiese al capo dei funzionari di non obbligarlo a contaminarsi> (1, 8). Il seguito del racconto non fa che confermare la scelta coraggiosa di Daniele e degli altri tre giovani <i quali rimasero a servizio del re> (1, 19) senza essere in alcun modo asserviti al re.

La piccola e povera donna che incontriamo nel Vangelo ci riporta all’essenziale di un atteggiamento nei confronti della vita, fatto di gratitudine capace di donare, attraverso il poco, il tutto. Le parole del Signore Gesù sono chiare e rappresentano un motivo di discernimento continuo ed esigente nella vita di ogni discepolo: <Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere> (Lc 21, 4). Questa donna diventa per Gesù il modello e la profezia di ciò che tra poco dovrà vivere in prima persona nel suo dono pasquale e, al contempo, viene indicata ai discepoli – di ogni tempo e di ogni luogo – come luogo di confronto. Per essere capaci di agire come questa vedova è necessario essere capaci come Daniele di decidere nel proprio <cuore> per ripartire sempre dalle sue esigenze e dal suo respiro profondo che fa della nostra vita un luogo di incontro con Dio fino al dono dell’intera nostra vita.

Non c’è nessun disastro storico come la caduta di Gerusalemme e la profanazione del tempio, né alcuna povertà e o necessità che ci possa impedire di ascoltare e di obbedire alle esigenze e agli appelli del nostro cuore. Il mondo nuovo comincia sempre con il modo nuovo di attraversare il tempo facendone la porta dell’eternità. Certo questo modo di stare al mondo è più che entusiasmante, ma esige una chiarezza con se stessi e con il mondo ce ci circonda e non raramente fa pressioni su di noi che può essere assai costosa. L’immagina della vedova ammirata dal Signore Gesù può darci la chiave per comprendere in cosa consista l’eroismo del discepolo: essere decisi come il giovane Daniele e i suoi compagni senza mai smettere di essere discreti e umili come una povera vedova capace di dare tutto… di darsi tutta.

Tetragramma

Cristo Re dell’Universo

Alla nostra sensibilità rischia di risuonare come eccessiva e un po’ pedante l’insistenza dei nostri fratelli ebrei sull’impronunciabilità del nome di Dio rivelato a Mosè. Questo nome è formato da quattro consonanti che venivano vocalizzate dal sommo sacerdote, una sola volta l’anno nel Giorno dell’Espiazione, in mezzo ad una coltre impenetrabile di profumi e di incensi. Quattro lettere fanno la memoria di Israele come popolo di Dio – e segno in mezzo ai popoli – dell’immenso amore che l’Altissimo nutre per tutta l’umanità. Eppure, più o meno inconsciamente, nella nostra tradizione cristiana, abbiamo recuperato queste quattro lettere ponendole come cartiglio sulla croce, segno che riprende ciò che troviamo nel Vangelo: <Sopra di lui c’era anche una scritta: “Costui è il re dei Giudei”> (Lc 23, 38), enunciato su cui l’evangelista Giovanni indugia facendone l’ultimo motivo di tensione tra i Giudei e Pilato. Questa scritta è stata tradizionalmente abbreviata nella nostra tradizione latina così: <INRI>. Quattro lettere non più impronunciabili, ma ben più gravemente impensabili e persino temibili. Dire infatti che il nostro re sia quello che pende dalla croce è qualcosa che esige una presa di posizione non solo davanti al mistero della stessa, ma anche davanti al mistero dell’amore che è capace di arrivare <fino alla fine> (Gv 13, 1) e ben oltre ogni immaginabile fine. Giovanni Crisostomo commenta: <Il paradiso chiuso da migliaia di anni è stato aperto per noi “oggi” dalla croce. Infatti, oggi, Dio vi ha introdotto il ladrone. Compie, in questo, due meraviglie: apre il paradiso e vi fa entrare un ladro. Sicuramente, nessun re permetterebbe a un ladro o a un altro suo soggetto di sedersi con lui mentre fa il suo ingresso in una città. Questo, invece, Cristo l’ha fatto: quando entra nella sua santa patria, vi introduce un ladro insieme con lui>1.

Con la liturgia odierna portiamo a compimento non solo questo anno liturgico, ma pure il triennale ciclo liturgico che ci fa leggere, nel susseguirsi delle domeniche e delle feste, l’intero Vangelo. Così l’ultima parola è una verità, l’ultima e il fondamento di ogni percezione della verità che non è un’autorivelazione di Gesù, bensì l’adesione ad una relazione: <In verità io ti dico: oggi con me sarai in paradiso> (Lc 23, 43). Le parole che il Signore Gesù morente rivolge al ladrone sono come il riassunto di tutta la sua vita e la ricapitolazione di tutti i suoi gesti di accoglienza e di perdono su cui l’evangelista Luca insiste in un modo unico con le sue indimenticabili parabole – pensiamo a quelle del figliol prodigo – e i suoi magnifici gesti – pensiamo alla donna peccatrice e a Zaccheo-. Sotto la croce, o meglio sopra la croce, si consuma l’ultima tentazione di Cristo in cui possiamo riconoscere la tentazione sottile che attraversa sempre la nostra vita: la dimostrazione. Proprio a conclusione delle tentazioni nel deserto si dice che il <diavolo si allontanò dal lui fino al momento fissato> (Lc 4,13). Ed ecco il grande appuntamento in cui ciò che il Signore Gesù ha intuito nel suo tempo di deserto deve essere come assunto nelle sue estreme conseguenze. Ancora una volta e per ben tre volte – esattamente come nel deserto – ritorna il terribile <Se…> che accompagna la storia e il dramma della nostra libertà fin dal primo dialogo con il serpente (Gn 3).

Il Signore Gesù, come un vero re, dà udienza a tutti e dall’umilissimo trono della croce si mette in una posizione di così assoluta vulnerabilità da permettere a tutti e a ciascuno di esprimersi senza timore alcuni: tutti parlano e tutti si esprimono, <i capi>, <i soldati>, <uno dei malfattori> e anche <L’altro>. Nel mistero di questa festa ora tocca a noi di dire la nostra al Signore Gesù crocifisso…! La cosa più bella che potremmo dirgli è <Ecco noi siamo tue ossa e tua carne> (2Sam 5, 1). Così, in un amore riconosciuto e abbracciato, la croce si trasforma da patibolo in roveto ardente e la sua logica diventa il nostro tetragramma sacro, il nostro modo di concepire Dio e di concepire noi stessi: incapaci di fare nulla per gli altri, ma sempre disposti a vivere ogni cosa <con> (Lc 23, 43) chiunque incrocia il nostro cammino di uomini e donne. Se, infatti, accettiamo di condividere con tutti la <pena> (23, 40) di vivere ci ritroveremo, quasi per incanto, <nel paradiso> (23, 43) ormai <liberati dal potere delle tenebre> (Col 1, 13).


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, Discorsi sulla Croce e il ladrone, 1, 2.

Tétragramme

Christ Roi de l’Univers –

L’insistance de nos frères hébreux sur l’imprononciabilité du nom de Dieu révélé à Moïse risque d’être excessive, voire un peu pédante à notre sensibilité. Ce nom est formé de quatre consonnes qui sont vocalisées par le Grand Prêtre, une seule fois dans l’année, le jour du Grand Pardon, au milieu d’une chape impénétrable de parfums et d’encens. Quatre lettres qui font la mémoire d’Israël en tant que peuple de Dieu – et signe au milieu des peuples – de l’immense amour que le Très-Haut nourrit pour toute l’humanité. Et, pourtant, plus ou moins inconsciemment, dans notre tradition chrétienne, nous avons récupéré ces quatre lettres, en les inscrivant sur un panneau au-dessus de la croix, signe qui reprend ce que nous trouvons dans l’Evangile : «  Au-dessus de Lui, il y avait un écriteau : «  Celui-ci est le roi des Juifs » ( Lc 23, 38 ), énoncé dont l’évangéliste Jean s’attarda créant ainsi l’ultime motif de tension entre les Juifs et Pilate. Cet écriteau a été traditionnellement abrégé  ainsi dans notre tradition latine : «  INRI ». Quatre lettres, non plus imprononçables, mais bien plus gravement impensables et même terribles. Dire, en effet, que notre roi est celui qui pend à la croix est quelque chose qui exige une prise de position non seulement face à ce mystère, mais aussi face au mystère de l’amour qui est capable d’arriver «  jusqu’à la fin » ( Jn 13,1 ) et bien au-delà même de l’imaginable. Jean Chrysostome commente : «  Le paradis fermé depuis des milliers d’années a été ouvert pour nous «  aujourd’hui » par la croix. En effet, aujourd’hui, Dieu y a introduit le larron. Il accomplit en cela deux merveilles : il ouvre le paradis et y fait entrer un voleur. Aucun roi, certainement, ne permettrait à un voleur ou à un autre de ses sujets de s’asseoir avec lui alors qu’il fait son entrée dans une ville. Mais, ceci, au contraire, Christ l’a fait : lorsqu’il entra dans sa sainte patrie, il y introduisit un voleur avec lui »1.

Par la liturgie de ce jour, nous portons à son accomplissement non seulement cette année liturgique, mais aussi le troisième cycle liturgique qui nous fait lire, dans la succession des dimanches et des fêtes, l’Evangile en entier. Ainsi, la dernière parole est une vérité, l’ultime et le fondement de toute perception de la vérité qui n’est pas une auto-révélation de Jésus, mais bien l’adhésion à une relation : «  En vérité, je te le dis : aujourd’hui tu seras avec moi au paradis » ( Lc 23, 43 ). Les paroles que le Seigneur Jésus, mourant, adresse au voleur, sont comme le résumé de toute sa vie et la récapitulation de tous ses gestes d’accueil et de pardon dont l’évangéliste Luc insiste de manière unique par des paroles inoubliables – pensons à celles du fils prodigue – et ses magnifiques gestes – pensons à la femme pécheresse et à Zachée -. Sous la croix, ou mieux, sur la croix, se consume la dernière tentation du Christ dans laquelle nous pouvons reconnaître la subtile tentation qui traverse toujours notre vie : la démonstration. C’est juste à la fin des tentations dans le désert que l’on dit que « le diable s’éloigna de lui jusqu’au moment fixé » ( Lc 4,13 ). Et voici  venu ce grand rendez-vous où doit être assumé ce que le Seigneur Jésus a initié au désert, en l’assumant jusqu’à son extrême conséquence. Une fois encore, et pour bien trois fois –  exactement comme au désert – revient le terrible : «  Si… » qui accompagne l’histoire et le drame de notre liberté  depuis le premier dialogue avec le serpent ( Gn 3 ).

Le Seigneur Jésus, comme un véritable roi, donne audience à tous et depuis le très humble trône de la croix se met ainsi dans une position d’absolu vulnérabilité pour permettre à tous et à chacun de s’exprimer sans aucune crainte : tous parlent et tout le monde s’exprime : «  les chefs », « les soldats », «  l’un des malfaiteurs » et même «  l’autre ». Dans le mystère de cette fête, c’est à notre tour de nous exprimer face au Seigneur Jésus crucifié… ! La plus belle chose que nous pourrons lui dire est «  Nous voici, nous sommes tes os et ta chair » ( 2 Sam 5, 1 ). Ainsi, dans un amour reconnu et embrassé, la croix se transforme  d’échafaud en buisson ardent et sa logique devient notre tétragramme sacré, notre façon de concevoir Dieu et nous-mêmes : incapables de ne rien faire pour les autres, mais toujours disposés à vivre chaque chose «  avec » ( Lc 23, 43 )  ceux qui croisent notre chemin d’hommes ou de femmes. En effet, si nous acceptons de partager avec tous la «  peine » ( 23, 40 ) de vivre, nous nous retrouverons, presque par enchantement, «  au paradis » ( 23, 43 ) désormais «  libérés du pouvoir des ténèbres » ( Col 1, 13 ).


1. JEAN CHRYSOSTOME, Discours sur la Croix et le voleur, 1,2.