Finire il lavoro

XXXI settimana T.O. –

L’invito del Signore Gesù non lascia dubbi. Bisogna non solo saper progettare e immaginare la propria vita – e in particolare la propria vita di discepoli – ma bisogna saper <finire il lavoro> (Lc 14, 29). Per comprendere appieno cosa possa significare questo invito del Signore Gesù nella concretezza della vita di ogni giorno ci viene in aiuto la parola dell’apostolo Paolo quando dice: <non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge> (Rm 13, 8). Davanti a questa sfida entusiasmante non bisogna dimenticare che amare l’altro significa ingaggiare una <guerra> (Lc 4, 31) contro il proprio egoismo fino ad accettare di <costruire una torre> (14, 28) che non ha nulla a che vedere con quella di Babele, ma è ben più simile all’arca di Noè. Per il Signore è chiaro che nessun compimento sarà possibile nella nostra vita se non passando attraverso il crogiolo di una scelta preferenziale che sa dare una gerarchia ad ogni aspetto dell’esistenza senza escludere i sentimenti più radicali e gli affetti più radicati: <suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle…> (14, 26).

Di certo potrà sembrare un paradosso che l’apostolo inviti a praticare generosamente <l’amore vicendevole> e che il Signore esiga dal suo discepolo di saper ordinare gli affetti più cari fino a subordinarli alla sequela. In realtà <l’amore> di cui parla l’apostolo corrisponde a ciò che il Signore Gesù richiede dal suo discepolo chiamato ad assumere <la propria croce> (14, 27) che, normalmente, coincide con <la propria vita> da accogliere e da purificare attraverso un continuo esercizio di scelta capace di preferire sempre l’altro a se stessi. Preferire significa mettere prima, mettere davanti. Si tratta di far passare sempre avanti ciò che è richiesto dal dono di noi stessi secondo l’esempio che abbiamo ricevuto da Cristo Signore. Questo è un lavoro da <finire> e che passa attraverso una capacità di <rinuncia> (14, 33) che è imprescindibile in ogni autentico dinamismo di scelta.

Se la giustizia si gioca normalmente nell’orizzonte del limite, l’amore è sempre oltre ogni limite tanto da essere comunque una forma di ingiustizia. L’ingiustizia dell’amore che Cristo Signore ha assunto portando la sua propria croce rivelando e tracciando per i suoi discepoli un cammino che non può mai accontentarsi della giustizia. Il Signore ci invita a non coltivare le nostre illusioni sull’amore e ad aprirci invece ad un amore concreto, fattivo che si costruisce e si esprime giorno dopo giorno. Ed è così che la <propria croce> (14, 27) diventa “proprio” il simbolo di questo amore più grande. Per entrare in questa conformità al Vangelo è necessario prendere coscienza che essere <discepolo> (Lc 14, 27) è un’arte che esige la totalità di noi stessi. L’apostolo Paolo ci offre, a sua volta, un criterio fondamentale per discernere il nostro grado di conformità a Cristo: <non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge> (Rm 13, 8).

Pigrizia

XXXI settimana T.O. –

La lettera ai Romani che leggiamo da qualche giorno nella Liturgia comincia ad avviarsi verso la conclusione. La riflessione arguta di Paolo sul mistero di Cristo si traduce sempre più concretamente in una esortazione a lasciare che questo mistero illumini e trasformi interamente e in modo efficace tutta la nostra vita: <Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile> (Rm 12, 16). La ragione remota e fondante della carità che si invera in una stima reciproca e in una cura del cammino dell’altro perché possa conoscere la pienezza della vita in una gioia inconsutile, si radica in una consapevolezza di cui prendere coscienza ogni giorno: <pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri> (12, 5). Questa parola dell’apostolo Paolo ci permette di comprendere ancora meglio lo sbigottimento e l’ira che insorgono ed esplodono nel cuore e dal cuore di quell’uomo che <diede una grande cena e fece molti inviti> (Lc 14, 16).

Quando i primi invitati rifiutano di partecipare alla cena adducendo vari motivi per <scusarsi> (14, 18), la reazione è fortissima tanto che la conclusione è assai amara: <Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena> (14, 24). Questa parola deve scuoterci non poco. Infatti, la parabola viene raccontata dal Signore Gesù in risposta all’esultazione entusiasta di uno dei suoi ascoltatori: <Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!> (14, 15). Davanti a questa bella espressione, il Signore Gesù sente il bisogno di ricordare a quanti lo seguono che se l’invito è per tutti, nondimeno il rischio è che lo possano realmente accogliere quanti sono catalogabili tra <i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi> (14, 21). Solo costoro, infatti, sono in grado di cogliere la portata di gratuità di un simile invito tanto da non frapporvi nessun altro impegno e onorare così il desiderio di quell’uomo. 

L’esortazione dell’apostolo va a toccare un pericolo sempre in agguato nel nostro cuore: <Non siate pigri nel fare il bene> (Rm 12, 11). Vi è una pigrizia che potremmo definire attiva, quella che ci rende indisponibili a prendere iniziative per la nostra vita richiudendoci in una ripetitività paralizzante. Vi è poi una pigrizia più sottile che si identifica con una sorta di insensibilità verso gli appelli e le possibilità che continuamente la vita ci offre e richiedono un ascolto e un’accoglienza pronti e fattivi. Perché questo accada è necessario avere un cuore libro e un’agenda abbastanza leggera o almeno disponibile e aperta all’imprevisto. Questo necessita che ci sia una gerarchia nelle nostre priorità. Si tratta di una gerarchia da ritoccare continuamente se non vogliamo diventare sordi agli appelli che ci vengono attraverso la vita. La più grave forma di pigrizia è quella che non ci fa aprire il cuore e le scelte alla necessità di cambiare i nostri programmi per gioire dell’esperienza di essere <un solo corpo> (Rm 12, 5) e di sedere tutti insieme come <commensali> (Lc 14, 15). Dunque, la vera beatitudine non sta semplicemente nel fatto di prendere <cibo nel regno di Dio>, ma di condividerlo sentendosi responsabili della propria presenza per la gioia di tutti.

Sarai beato

XXXI settimana T.O. –

Le due letture di quest’oggi sembrano incrociarsi per formare una sorta di bouquet capace di rallegrare il cuore e dare una direzione alla vita di ogni giorno. Infatti, se il Signore Gesù ci regala una parola di grande speranza: <e sarai beato perché non hanno da ricambiarti> (Lc 14, 14), l’apostolo Paolo ci svela il segreto di questa felicità nel fatto di assomigliare a Dio stesso. L’apostolo ci ricorda che <Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!> (Rm 11, 32). Il banchetto di cui si parla nel Vangelo non si limita così ad una questione di etichetta o di buona creanza, ma diventa il simbolo stesso del modo in cui Dio intrattiene una relazione di benevolenza con ciascuno dei suoi figli. Tutto ciò fa esultare Paolo: <O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie> (11, 33). L’esultazione dell’apostolo diventa, nella parola del Signore Gesù. un’indicazione assai concreta che ci rende capaci di trovare tutta la nostra felicità nel voler essere come il Padre dei cieli, simili al Padre di tutti: <Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio> (Lc 14, 12).

L’orizzonte in cui il Signore Gesù ci chiede di contestualizzare i nostri gesti e le nostre parole è quello della concretezza e della contingenza del tempo presente, ma con un’apertura sull’eternità capace di dare al nostro cuore ampiezza e profondità: <Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti> (14, 14).

Sfida

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Pregare per i defunti e commemorare la loro vita ci permette di fare memoria della loro presenza tra di noi proprio quando essi non possono più imporsi alla nostra attenzione. Questa pratica, che prima di essere “ecclesiale” è un modo distintivo di ogni umana civiltà che si sia emancipata da un livello più animale, non è semplicemente una pratica tradizionale della Chiesa e di tutta l’umanità, ma è una sfida ed una provocazione. Fare memoria dei defunti significa, infatti, sfidare la morte attraverso una fiducia nella vita che si fa fede nella risurrezione come possibilità inattesa di una possibile insurrezione dell’amore. Il grido di Giobbe diventa una sorta di manifesto della nostra coscienza di uomini e donne creati per l’immortalità intesa come pienezza di vita in una relazione che non può morire: <Sì io lo vedrò…> (Gvb 19, 26-27). Questo faccia a faccia sperato e quasi protestato da Giobbe non sarà come quello di Adamo ed Eva nel momento della loro paura e della loro cacciata dal giardino di Eden, ma come quello del figlio minore che torna a casa a testa bassa e viene invece accolto con tutti gli onori dell’amore fino ad essere motivo di <festa>. Laddove la morte viene avvertita come fine, la nostra fede la trasforma invece in un tempo intermedio di preparazione come ci ricorda il profeta Isaia quando dice che <preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande> (Is 25, 6>. 

Se il Signore sta preparando una pienezza di vita per ciascuno dei suoi figli, possiamo chiederci in che misura e soprattutto in che modo noi ci stiamo preparando alla morte non come interruzione della vita, ma come necessario passaggio della vita. Non si tratta certo, come si vede in alcune raffigurazioni antiche, di tenere in bella mostra sulla scrivania un teschio per meditare sulla fallacia della vita e di tanti suoi aspetti che riteniamo essenziali e, molto spesso, persino piacevoli. La sfida è di vivere in pienezza perché la morte ci trovi vivi e non già morti, perché la morte ci trovi pieni di desiderio di vita e non giù sazi o stufi o tutt’è due insieme. Sostare nella memoria dei nostri cari che ci hanno preceduto nel segno della fede e di una vita autentica significa fare la tara di quel <pungiglione> (1Cor 15, 56) che rischia di avvelenarci fino ad ucciderci: si tratta del pungiglione dell’ingratitudine e della superficialità.

La memoria del nostro modo di reagire alla presenza dei fratelli <più piccoli> (Mt 25, 40) accanto a noi e dentro di noi diventa così il criterio prima che della morte, della nostra vita che si fa preparazione e attesa operosa di un compimento che esige il necessario passaggio attraverso il mistero della morte. La preghiera per i defunti e il sostare sulle tombe dei nostri cari diventa così una piccola scuola di umanità per non cedere all’ingratitudine e alla superficialità. Dovremmo essere fedeli in prima persona a questa pratica, ma pure non dimenticare di trasmettere questa sapienza alle generazioni più giovani che rischiano di vivere in una tale oblio del mistero della morte, da cadere nella trappola dell’illusione.

Defi

Commémoration de tous les fidèles défunts –

Commémoration de tous les fidèles défunts. – Prier pour les défunts et commémorer leur vie nous permet de faire mémoire de leur présence parmi nous au moment où ils ne peuvent plus s’imposer à notre attention. Cette pratique qui, avant d’être «  ecclésiale » est un mode distinct de toute civilisation qui s’est émancipée d’un niveau plus animal, n’est pas simplement une pratique traditionnelle de l’Église et de toute l’humanité, mais c’est un défi et une provocation. Faire mémoire des défunts, signifie, en fait, défier la mort à travers une confiance dans la vie qui devient foi dans la résurrection comme la possibilité inattendue d’une possible insurrection de l’amour. Le cri de Jacob devient une sorte de manifestation de notre conscience d’hommes et de femmes crées pour l’immortalité comprise comme une plénitude de vie dans une relation qui ne peut mourir : «  Oui, je le verrai… » ( Jb 19, 26-27 ). Ce face-à-face espéré et presque protesté par Job ne sera pas comme celui d’Adam et d’Eve au moment de leur peur et de leur expulsion du jardin d’Eden, mais, comme celui du fils cadet qui revient à la maison, la tête basse, et est pourtant accueilli avec tous les honneurs de l’amour jusqu’à devenir motif de «  fête ». Là où la mort est désignée comme une fin, notre foi la transforme au contraire en un temps intermédiaire de préparation comme nous le rappelle le prophète Isaïe lorsqu’il dit «  Le Seigneur des armées préparera pour tous les peuples, sur cette montagne, un festin de mets succulents et de viandes grasses » ( Is 25, 6 ).

Si le Seigneur est en train de préparer une plénitude de vie pour chacun de ses fils, nous pouvons nous demander dans quelle mesure et, surtout, comment, nous nous sommes préparés à la mort, non comme une interruption de la vie, mais comme un passage nécessaire de la vie. Il ne s’agit, bien sûr, pas, comme on peut le voir dans certaines représentations antiques, d’écrire un texte, d’en faire un exposé pour méditer sur l’usage fallacieux de la vie et de tant de ses aspects que nous retenons comme essentiels, et souvent même agréables. Le défi consiste à vivre pleinement  afin que la mort nous trouve vivants et non déjà morts, pour qu’elle nous trouve pleins de désirs de vie et non désabusés et fatigués ou tous les deux ensembles. Conserver la mémoire de nos bien-aimés qui nous ont précédés dans le signe de la foi et d’une vie authentique signifie faire la tare de cet «  aiguillon » ( 1 Cor 15, 56 ) qui risque de nous empoisonner jusqu’à nous tuer : il s’agit de l’aiguillon de l’ingratitude et de la superficialité.

La mémoire de notre façon de réagir à la présence des frères «  les plus petits » ( Mt 25, 40 ) près de nous et en nous, devient ainsi le critère premier qui, dans la mort, par notre vie, est une préparation et une attente d’un accomplissement qui exige le passage nécessaire par le mystère de la mort. La prière pour les défunts et notre présence sur les tombes de nos bien-aimés, devient ainsi une petite école d’humanité pour ne pas céder à l’ingratitude et la superficialité. Nous devrons être les premiers, fidèles à cette pratique, tout en n’oubliant pas de transmettre cette sagesse aux générations les plus jeunes qui risquent de vivre dans un tel oubli du mystère de la mort, jusqu’à tomber dans le piège de l’illusion.