Promesso
XXVIII settimana T.O. –
L’apostolo Paolo scrivendo ai Romani insiste, sin dalla prima riga, di questo testo fondamentale per l’intelligenza e la pratica della fede, su ciò che è stato <promesso> (Rm 1, 1). L’apostolo più “giudaico” come formazione teologica e pratica, si rivolge ai discepoli della comunità di Roma molti dei quali vengono da una delle comunità ebraica più insigne del tempo. Per questo l’apostolo fa appello all’orizzonte dell’attesa e della continua apertura al compimento delle divine promesse che caratterizza l’atteggiamento della tradizione di Israele. Il Signore Gesù sembra profondamente ferito dalla resistenza che i suoi interlocutori oppongono alla sua parola scambiando la promessa con il semplice soddisfacimento dei propri desideri e dei propri bisogni. Per questo si lamenta in modo acuto che interpella anche la nostra fede e il nostro modo di accogliere la grazia della chiamata ad accogliere il Vangelo come apertura al compimento delle promesse divine ben aldilà delle nostre stesse attese e speranze: <Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno…> (Lc 11, 29).
Le folle che si accalcano attorno a Gesù desiderano e si aspettano un segno forte ed inequivocabile che attesti la sua messianicità e coroni il felice matrimonio tra le loro attese e il compimento attraverso la presenza di Cristo in mezzo a loro. Il riferimento a Giona e alla regina di Saba diventa per il Signore il modo per richiamare l’attenzione dei suoi ascoltatori sul mistero della sua persona che non va accolta a partire dai propri bisogni e attese, ma come la via per ricentrare e ricomprendere i propri bisogni e le proprie attese. Quando Paolo inizia a scrivere la sua Lettera più impegnativa e chiara a livello teologico dopo avere evocato ciò che è stato <promesso> subito chiarisce la via della realizzazione di queste promesse: <riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti> (Rm 1, 3-4). Tutta la <grazia> (1, 5) di scoprirsi <chiamati> (1, 6) e <amati da Dio> (1, 7) radica nel mistero dell’incarnazione che si manifesta pienamente nell’esperienza pasquale di Cristo.
Il <segno> è la carne di Cristo che si è donato per noi fino ad assumere la debolezza estrema della croce che si fa <giudizio> (Lc 11, 31-32) e parametro di ogni nostra ricerca e di ogni nostra apertura all’incontro con il Signore Gesù che fa fatto di Paolo non solo un apostolo, ma prima di tutto un <servo di Cristo Gesù> (Rm 1, 1) proprio come il suo Maestro e Signore. E’ come se oggi qualcuno scrivesse su un quotidiano di una delle grandi metropoli del mondo come Londra o New York parlando di ciò che è avvenuto in un angolo sconosciuto del pianeta. In una Roma pullulante di dottrine e di religioni che assicurano la salvezza e la felicità, Paolo scrive parlando di Gesù, del vangelo, della grazia, della chiamata con l’inconfondibile sigillo cristologico: l’incarnazione e il dono pasquale. Essere discepoli del Signore Gesù è comprendere il <segno> del suo abbassamento come la porta della vita che realizza ciò che è stato <promesso>.
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