Pregate dunque

XIV Settimana T.O. –

Sembra che al Signore Gesù non resti da dire altro che: <Pregate dunque…> (Mt 9, 38). È l’unica risposta adeguata davanti all’estremo e sempre più grande bisogno di <compassione> (9, 36) da cui il Signore si sente sempre più sollecitato fino a sentirsene quasi accerchiato. Non si tratta solo della compassione nei confronti delle <folle> che erano <stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore> ma anche – forse soprattutto – per i farisei che non riescono a lasciarsi toccare dalla compassione perché li ferirebbe troppo e li destabilizzerebbe radicalmente. Con una insistenza malevola sembra che i farisei accerchiano il Signore in modo ben più pesante di quanto faccia la folla: <Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni> (9, 34). Pregare è il primo e il fondamentale modo per purificare il cuore e aprire gli occhi sul mondo in un modo diverso, in un modo radicalmente rinnovato e capace di lasciarsi toccare dalla sofferenza degli altri per imparare a lasciarsi trasformare in meglio dalla propria sofferenza.

L’icona di Giacobbe rimasto <solo> (Gen 32, 25) è stata assunta dalla tradizione come un esempio magnifico e inquietante di ciò che può capitare all’uomo quando incontra Dio al guado della propria esperienza di fallimento e nella calda memoria di una fraternità in qualche modo tradita. Solo allora l’Altissimo può essere incontrato come <un uomo> con cui si può e si deve lottare “da uomo a uomo” per poi scoprire che, in realtà, si tratta di ben altro <ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva> (32, 31). Salva e allo stesso tempo profondamente segnata: <Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca> (32, 32). Pregare è sempre un’esperienza notturna che cambia radicalmente la stessa vita che possiamo vivere nel giorno che non sarà mai come il giorno prima ed è capace di preparare sempre un futuro la cui condizione stessa di esistenza è la capacità di mettere in conto non solo di vincere, ma pure di perdere.

Marie-Dominique Molinié si chiede: <Perché la notte?> e risponde <perché in effetti il faccia-a-faccia di Giacobbe non è quello del cielo; la notte lo proteggeva dalla gloria intollerabile di Dio, come la mano di Dio proteggeva Mosè durante l’esodo. Per questo la lotta di Giacobbe è immagine di tutta la nostra vita che è come una lunga notte che prepara l’aurora della vita eterna>1. Non bisogna certo pensare semplicemente alla vita oltre la morte, ma a tutto ciò che dà alla nostra vita una qualità di eternità a partire dalla capacità di vivere relazioni radicate e per questo durevoli. Il luogo in cui Giacobbe sogna e lotta ha un nome: <Penuel>! La radice rimanda al termine che indica il volto di Dio <panim> che è un termine rigorosamente al plurale. Questo ricorda che non potremo mai vedere il volto di Dio se non avremo occhi per i volti in cui Dio si nasconde e attraverso cui si rivela per permettere a ciascuno di noi di manifestare il grado di compatibilità con i tratti dell’Altissimo che possiamo e dobbiamo saper ritrovare nei nostri fratelli e sorelle in umanità.


1. MARIE-DOMINIQUE MOLINIÉ, Le Combat de Jacob, Cerf, Paris, 2011, pp. 126-127.

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