Convertire… la Legge

IV settimana T.Q.

Sembra che il cammino quaresimale affretti il suo ritmo e ci chieda di concentrare tutta la nostra attenzione su ciò che sta succedendo a Gesù, ma che sta pure accadendo per noi, se veramente decidiamo di essere suoi discepoli. Il <dissenso> (Gv 7, 43) che nasce tra la gente che commenta, come oggi si farebbe nei salotti televisivi e che all’epoca erano invece le piazze, i mercati, i vicoli: ciascuno sembra avere da dire qualcosa e, soprattutto, in quello che si dice di Gesù viene fuori ciò che della sua presenza si è sperimentato in prima persona nella propria vita. Tra la folla che vocifera e i notabili che <volevano arrestarlo> (7, 44) spicca la figura di quei soldati che tornano a mani vuote, ma con il cuore pieno di una esperienza nuova che segna la loro vita: <Mai un uomo ha parlato così!> (7, 46). L’esperienza che i soldati hanno appena fatto è già stata vissuta in una notte eccezionalmente luminosa da parte di Nicodemo che da allora non è stato più lo stesso e, sicuramente, a guadagnato in coraggio visto che non ha timore di reagire alle decisioni dei suoi colleghi: <La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?> (7, 51).

Con questa domanda Nicodemo affonda il coltello nella piaga e già smaschera quello che accadrà davanti al Litostroto quando i sommi sacerdoti invocheranno quella <Legge> (Gv 19, 7) e intanto peccheranno di apostasia quando, pur di avere ciò che vogliono, si abbasseranno fino a bestemmiare: <Non abbiamo altro re che Cesare> (19, 15). Non è raro che proprio chi invoca la Legge come unico e sommo riferimento della propria vita sia il più incline a tradirne i principi più sacri e basilari. La confessione di Geremia ci aiuta a fare memoria della cosa più importante che non va mai dimenticata: <Signore degli eserciti, giusto giudice, che provi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa> (Ger 11, 20). Ciò che fa la differenza è la capacità di passare e ripassare continuamente dal proprio <cuore> dove non potremo lasciarci <ingannare> (Gv 7, 47) neanche dalle nostre paure che rischiano di renderci ottusi.

La presenza del Signore Gesù non può lasciare in nessun modo indifferenti, ma esige necessariamente una presa di posizione. Il dono della Legge ricevuta sul Sinai per mano di Mosè, ma dal cuore dell’Altissimo esige di guardare nel proprio <cuore> giorno dopo giorno, lasciando che il desiderio di Dio riplasmi continuamente i nostri desideri e illumini le nostre relazioni. Mentre i giorni della Pasqua si fanno sempre più vicini, la Liturgia ci chiede di fare una sorta di punto della situazione del nostro cuore per chiederci in che misura la parola e i gesti del Signore sono capaci di cambiare profondamente il nostro parametro di giudizio. Anche per noi spesso si fa forte il rischio di trincerarci dietro le esigenze di leggi che tradiscono l’essenziale del disegno di Dio per la nostra umanità, chiamata ad una pienezza di felicità che non si può mai conquistare da soli, ma esige la serena complicità nel cercare il bene di ciascuno rinunciando alla paura di perdere un po’ dei propri privilegi. In questo non facile cammino di discernimento, talora sono proprio le persone più improbabili come i soldati a cogliere al meglio le vie della vita.

Convertire… l’ignoranza

IV settimana T.Q.

La prima lettura non ci offre un racconto, bensì una riflessione che diventa una presa di coscienza capace di generare una sapienza necessaria per attraversare il mistero della vita in genere e per affrontare l’enigma della sofferenza in particolare. Cogliamo l’autore della Sapienza in un momento di riflessione in cui si pone senza troppi raggiri davanti agli <empi> che vanno <sragionando> fino a prendere una decisione che sembra per loro necessaria al fine di mantenere invariata la loro vita: <Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni> (Sap 2, 1. 12). Ciò che fa veramente problema agli empi è il confronto che esige, per essere vero, una disponibilità alla conversione e un’apertura al cambiamento. Il soliloquio degli empi è drammatico e, per alcuni versi, persino commovente: la vita e le scelte del giusto sono una minaccia insopportabile perché invivibile sarebbe per loro ogni cambiamento. Nel modo di pensare degli empi, ripiegati su se stessi e assolutamente asserragliati e concentrati a difendere il loro modo di vivere, la resistenza contro le sollecitazioni del giusto sembra un atto dovuto e quasi una sorta di legittima difesa: <Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine> (2, 17). Eppure, la riflessione arguta della Sapienza non si lascia né intimidire, né, tantomeno, ingannare: <Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati> perché <Non conoscono i misteriosi segreti di Dio> (2, 21-22). In una parola, il vero problema degli empi è la loro ignoranza radicale sul mistero stesso della vita e sulle sue leggi profonde.

È proprio contro questa ignoranza radicale, mascherata di conoscenze tanto evidenti quanto miseramente apparenti, che si scaglia il Signore Gesù: <Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure, non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato> (Gv 7, 28-29). In questo venerdì di quaresima, la Parola di Dio racchiusa nelle Scritture prepara i nostri cuori a capire bene cosa realmente accadrà sulla cima del Golgota: lo scontro tra la luce e le tenebre, tra una sapienza che pensa a preservare se stessa e una sapienza che radica invece in una relazione che sa rischiare fino a donare la vita. Eppure, non bisogna dimenticarlo nessun dono di sé sarebbe possibile senza un profondo radicamento in una relazione con l’Altissimo che dia stabilità al nostro cuore fino a renderlo saldo proprio in mezzo alla bufera di venti contrari.

La gente dice con sicumera: <Ma costui sappiamo di dov’è> (7, 27) dimenticando che non basta conoscere una persona, se non si è capace di riconoscere fino a rinascere insieme accettando di fare un tratto di strada insieme tanto da accettare di crescere e di cambiare insieme. Non è un caso che Giovanni annoti con dovizia: <Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne> (7, 2). Ogni anno Israele riviveva l’esperienza della provvisorietà del deserto. Anche noi siamo chiamati a recuperare continuamente la logica del cammino che esige di rinunciare alla protezione di troppe sicurezze per aprirsi alla scoperta di nuovi e sempre più ampi orizzonti.

Convertire… la gloria

IV settimana T.Q.

In tutto il suo ministero il Signore Gesù non ha risparmiato certo rimproveri ai suoi ascoltatori e, in particolare, a quanti detenevano il potere e ruoli di prestigio, ma quello che oggi risuona è uno tra i più forti: <E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio> (Gv 5, 44). Siamo chiamati a farci attraversare, da parte a parte, da questo terribile richiamo del Signore che mette a nudo la nostra grande paura di rimanere unicamente con Dio tra le mani e nel cuore. Non è facile capire cosa sia realmente questa <gloria che viene dall’unico Dio> e sarebbe l’unica da desiderare e da cercare con tutto se stessi e a costo della stessa vita. Lo stesso Signore Gesù fa riferimento a Giovanni – il Battista – il quale <era una lampada che arde e risplende> (Gv 5, 35). Nella prima lettura, siamo posti di fronte a Mosè che, in certo modo, rifiuta di ricevere una gloria del tutto personale e separata dal resto del popolo resistendo ad una tentazione che, arduo pensarlo e dirlo, gli viene da Dio stesso: <Di te invece farò una grande nazione> (Es 32, 10). Dio tenta per mettere alla prova e far venire alla luce ciò che portiamo nel più profondo del nostro stesso cuore.

Vi è una sorta di dissidio tra Dio e Mosè, in cui – come in altri passi delle Scritture – l’uomo sembra più “grande” dello stesso suo Signore (cfr. Gn 19). In realtà è un modo con cui il Signore, mettendosi quasi dalla parte sbagliata, aiuta la creatura a tirare fuori il meglio di sé, il più divino di sé: <Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire…”> (Es 32, 12). Mosè sembra far leva sull’amor proprio di Dio, sul suo senso d’onore e di gloria davanti agli estranei per muoverlo a compassione e a pietà per quel <popolo che hai fatto uscire> ( 32, 11). Il Signore dice che è stato Mosè a far uscire il popolo (32, 7) e Mosè ribadisce che è stato Dio a farlo uscire. In questa sottile, ma fortissima tensione nel glorificare l’altro, in realtà non si fa che dire profondamente che l’uscita del popolo dall’Egitto, è il frutto di una sinergia tra il Signore e Mosè, tra il Creatore e la creatura. Per questo ogni nostra Pasqua e ogni autentica esperienza di salvezza non è che una riprova e una rinnovata manifestazione non della sola forza di Dio, ma anche della stessa nostra debolezza che si manifesta come punto di appoggio per la divina energia.

Per questo la grande conversione è la capacità di non avere bisogno continuamente di un <vitello di metallo fuso> (Es 32, 8) a cui dare gloria sperando di riceverne. Si tratta invece di entrare in una logica nuova – quella dell’evangelo – in cui la gloria sta solo e proprio nel fatto di essere <mandato> (Gv 5, 36) a compiere qualcosa che è già una ricompensa. La logica del mondo istituisce continuamente una sorta di rapporto inverso tra la “mia” gloria che sarà più grande e visibile quanto minore sarà la “sua” gloria. La logica del Vangelo è completamente diversa in quanto la gloria non è ciò che si sottrae all’altro, ma ciò che si condivide con l’altro come una luce e un fuoco che, se uniti, non diminuiscono, ma diventano più luminosi e più ardenti. Difficile conversione, difficile cammino che l’evangelista Giovanni non esita a dispiegare in tutta la sua profondità, identificando la Gloria con la Croce, il Glorificato con l’Innalzato-Crocifisso. Sembra proprio che non ci sia altra via se non quella di resistere persino a Dio per lasciare che egli agisca in verità, e fino in fondo, dentro di noi e perché sia l’<unico> in cui ritroviamo tutto, tutti… noi stessi!

Convertire… uscire

IV settimana T.Q.

Il cammino verso la Pasqua sembra conoscere una visibile accelerazione. In realtà la cosa più importante non è registrare il peggiorare della situazione tra il Signore Gesù e i notabili del popolo che porterà alla condanna del Signore, quanto piuttosto fare un passo in più nella nostra sequela del Signore per essere intimamente partecipi del suo mistero pasquale. Le parole del profeta Isaia indicano la direzione necessaria alla nostra esperienza di conversione: <dire ai prigionieri: “Uscite”, e a quelli che sono nelle tenebre: “Venite fuori”> (Is 49, 9). Siamo noi i primi ad essere chiamati a vivere questo parto interiore che ci permetta di riprendere a vivere in pienezza. Per osare il passo di quella rinascita così necessaria per evitare di essere morti, mentre siamo ancora apparentemente vivi, è necessario essere animati da una fiducia senza la quale persino le cose più semplici, naturali e scontate rischiano di diventare così difficili da sembrare impossibili. Il profeta ci rammenta come la nostra vita è un miracolo di fiducia e di cura: <Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai> (49, 15).

Il Signore Gesù non ci parla di sua madre, ma ci parla a lungo di colui che chiama <Padre mio> (Gv 5, 17). La relazione di intimità tra Gesù e il Padre è, soprattutto per il quarto Vangelo, il termine di dissidio con scribi, farisei e dottori della Legge che sembrano non poter sopportare una tale intensità di rapporto personale che, naturalmente, relativizza radicalmente la loro pretesa di essere i garanti di una possibile relazione con l’Altissimo. Il Signore non fa mistero della sua consapevolezza e della sua esperienza di “divina maternità” che non ammette nessuna intrusione: <Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati> (Gv 5, 20). Mentre prosegue il nostro cammino di conversione, siamo oggi chiamati a fare una sorta di esame di coscienza sulla nostra relazione con il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. È, infatti, questa intimità – amata e coltivata – che rappresenta il fondamento stabile e inviolabile della nostra vita. È questa consapevolezza di un amore invincibile e intoccabile che ha dato al Signore Gesù la forza per sopportare il rifiuto, l’umiliazione e la morte. 

Il grande annuncio <viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce> (5, 28) non riguarda prima di tutto i morti, né si riferisce alla risurrezione finale, ma tocca la nostra esperienza quotidiana di essere continuamente richiamati ad una fiducia nella vita che non sarebbe possibile senza una rinnovata fiducia in un amore che ci precede, ci accompagna, ci attende. Allora non si può che accogliere e fare nostra l’esultazione profetica: <Giubilate, o cieli, rallegrati o terra, gridate di gioia o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri> (Is 49, 13). Nella sensibilità ebraica consolare significa far respirare, allargare i polmoni e questo diventerà il nome proprio del Consolatore che in noi è germe di vita così piena da essere eterna.

Convertire… in annunzio

IV settimana T.Q.

A partire da questa quarta settimana di Quaresima e con il racconto del <funzionario del re> (Gv 4, 46) che abbiamo ascoltato ieri, il vangelo secondo Giovanni diventa la nostra guida per queste prossime dieci settimane… fino a Pentecoste. La Chiesa ci affida quasi continuamente alla cura del quarto vangelo proprio perché già <in questo tempo di penitenza e di preghiera> possiamo e sappiamo essere disposti a <vivere degnamente il mistero pasquale e a recare il lieto annuncio della tua salvezza> (Colletta). La nostra stessa esperienza di penitenza e di conversione sembra essere chiamata a diventare – in se stessa – l’aurora di quell’annuncio di incontenibile gioia che profumerà il mattino di Pasqua. Per il quarto vangelo il profumo della vita e della vittoria pasquale avvolge l’esperienza del Signore Gesù da sempre e per sempre, da ciò che precede il <principio> (Gv 1, 1) e oltre i <segni scritti in questo libro> (20, 30)

È lui il <tempio> (Gv 2, 21) che il profeta Ezechiele contempla nella sua ultima visione ed è proprio dal suo amabilissimo corpo squarciato sulla croce che vedremo uscire <acqua verso oriente> (Ez 47, 1). Un’acqua che si è trasformata in un <fiume che non potevo attraversare> (47, 5) e che pure accetta di essere per noi come <una piscina> (Gv 5, 2), anzi un abbraccio. Infatti, in <un giorno di festa per i Giudei> (5, 1) il Signore Gesù, si reca presso <la porta delle Pecore… sotto la quale giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici> (5, 3). Da questo elenco il Signore non può che scegliere – come sempre e secondo la sua logica – un uomo che appartenga all’ultima delle categorie elencate. A questo che non ha <nessuno> che lo <immerga nella piscina, quando l’acqua si agita> (5, 7) il Signore si offre come la <sponda del fiume> (Ez 47, 6). Quest’uomo, abituato a vedere sempre qualcuno di cui può dire <scende prima di me> (Gv 5, 7) si ritrova come preso in una corrente mai conosciuta prima: uno sguardo e una parola che, solo e soltanto per lui, sono in grado di interpretare ciò che da <trentotto anni> (5, 3) spera di ricevere da questo strano e forse superstizioso fenomeno dell’acqua che si <agita> (5, 7).

Stupendamente il Signore Gesù accetta di mettersi al livello di questa pecora piccina, sola, abbandonata e cui non rimane che sperare in qualcosa di “magico”. Il Signore gli rivolge la parola che lo rende fino in fondo uomo ancor prima di raddrizzarlo nel suo corpo: <Vuoi guarire?> (5, 6). Possiamo immaginare la sorpresa nell’essere interrogati in modo così degno. Forse una sorpresa ben più grande di ciò che gli viene detto dopo: <Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina> (5, 8). Il Signore Gesù è un fiume <d’acqua viva> (7, 38) che invece di aspettare che il paralitico si immerga lo inonda come un <torrente> (Ez 47, 11) che risana e fa rivivere. Sì, la presenza del Signore inonda come una <medicina> (47, 12) e rimette in piedi, trasformando il lungo tempo della paralisi in una vera convalescenza che conduce a perfetta e duratura guarigione. Nonostante tutto quello che dicono i Giudei, come si potrebbe mai più separare quest’uomo dal suo <lettuccio> (il termine compare ben 5 volte) che, da essere il segno della sua disgrazia e del suo peccato, è divenuto il trofeo del suo essere veramente <guarito> (Gv 5, 14)? Impariamo da questo paralitico e facciamo del “lettuccio” su cui siamo stati a lungo paralizzati il segno di una <medicina> da <recare ai fratelli come lieto annunzio>.