Ambiguità

XXIII Domenica T.O.

L’invito alla saggezza con cui il Signore accompagna il cammino del discepolo è di notevole importanza per la nostra vita. Le parole di Gesù non sono prive di una certa ambiguità e starebbero bene in bocca ad uno di quei guru che abusano della buona volontà dei propri adepti per sottometterli interamente al loro arbitrio: <Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo> (Lc 14, 26). Questa parola che potrebbe far molto comodo ad una qualunque setta, nel vangelo ha un contesto assai significativo: <una folla numerosa andava con Gesù…> (Lc 14, 25). Non bisogna dimenticare che è proprio davanti all’entusiasmo da cui è attorniato Gesù che egli mette in chiaro le condizioni della sequela: non certo per spingere a seguirlo, quanto piuttosto per aiutare a comprendere meglio quelle che sono le esigenze della sequela stessa, senza cedere a pericolosi entusiasmi.

Le due parabole risuonano come invito a calcolare e a ponderare bene la propria generosità per non diventare ridicoli. Si tratta di vedere se si hanno <i mezzi> (14, 28), ma soprattutto – e più profondamente – se si hanno le attitudini. L’apostolo Paolo caratterizza le attitudini necessarie alla sequela di Cristo proprio a partire da una questione- assai pratica – insorta tra Filemone ed Onesimo, fino a trasformarla in una parabola del modo nuovo di impostare la vita alla luce del Vangelo: <perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario> (Fil 14). La Sapienza è ancora più chiara: <Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?> (Sap 9, 13). In questo la Parola di Dio sembra assolverci dall’eccessiva preoccupazione di definire, con ridicola chiarezza, cosa sia la volontà del Signore per e sulla nostra vita.

Il Signore Gesù mette in guardia da se stessi e dalle proprie ambiguità, coloro che lo seguono in così grande numero. Il tal modo il Maestro aiuta ciascuno a fare la tara persino delle proprie buone intuizioni confrontandosi seriamente e onestamente con le “esigenze evangeliche”. Queste esigenze vengono presentate in modo forte non per spingere il discepolo a tagliare radicalmente tutte le relazioni – così necessarie – della sua vita, ma per discernere la verità e la modalità del suo desiderio. A ben guardare non sono gli altri ad essere in questione – <suo padre, la madre…> – ma i propri attaccamenti. Essi ci rivelano le paure più profonde e ancestrali che ci spingono – spesso a nostra insaputa – a proiettare, nella nostra vita di discepolanza, le nostre più inveterate schiavitù.

Essere discepoli del Signore significa accettare e abbracciare, ogni giorno, un cammino di liberazione che esige una scelta forte di libertà, la quale non permette mai di ricadere in nessuna forma di schiavitù e, men che meno, in quelle così apparentemente spirituali che sono ancora più pericolose perché più subdole. Alla luce di tutto ciò, essere discepoli significa accogliere e portare la croce della propria vita come un punto interrogativo mai definitivamente superato, un punto che rimane sempre da attraversare e da cui lasciarsi mettere profondamente in questione. Del resto, non va mai dimenticato: <Quale uomo può conoscere il volere di Dio. Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?> (Sap 9, 13).

1 commento
  1. Carmen Zandonai
    Carmen Zandonai dice:

    La libertà come caposaldo della sequela: tutta la propria intelligenza è chiamata a questo compito, impegnativo e nel contempo così attraente. Ciò che a mio avviso, manifesta la nostra umanità più elevata.
    Lì forse ci avviciniamo alla volontà di D**. Sempre in cammino.

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