Il tuo nome è Speranza, alleluia!
VII Settimana di Pasqua –
Il grido dell’apostolo attraversa i secoli e giunge, con la stessa forza e intensità di duemila anni fa, alle nostre orecchie: <Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti> (At 23, 6). Questa parola di Paolo ha l’effetto di una bomba lanciata in una piazza affollata tanto che <scoppiò una disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise> (23, 7). La risurrezione è motivo di divisione e di contrapposizione non solo tra i farisei e i sadducei del tempo di Gesù, ma pure tra quanti, in ogni tempo, hanno bisogno di una speranza e chi, invece, essendo sicuri e ricchi, sono sufficienti a se stessi e non hanno bisogno di nessun dono. Al contrario, il Signore, persino in quella che possiamo definire la sua preghiera testamentaria, manifesta un profondo bisogno di condivisione che si fa pressante invocazione al cospetto del Padre suo perché vi sia una piena partecipazione anche per noi del preziosissimo dono della sua comunione divina: <E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me> (Gv 17, 22-23).
In questa supplica accorata del Signore possiamo sentire in che cosa consista il fondamento di quella speranza nella risurrezione che se ci è promesso come frutto di eternità, fiorisce e germoglia già in questo tempo nella misura in cui accettiamo l’esodo quotidiano dalla nostra autoreferenzialità per vivere fondati su quell’amore che ci accompagna in modo così radicale da essere <prima della creazione del mondo> (17, 24). Ciò che già mette in moto il linguaggio e la realtà della risurrezione che speriamo, è la decisione che sta alla base ed è la motivazione fondamentale dell’offerta pasquale di Cristo Signore: <E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro> (17, 26).
Come scrive Elisabetta della Trinità: <Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che noi siamo là dove egli è. E questo non solo nell’eternità, ma già in questo tempo che è l’eternità già cominciata, ma sempre in progresso>. La preghiera del Signore accompagna il cammino della Chiesa chiamata ad essere, sempre di più e sempre meglio, sacramento di salvezza fino ad essere capace come Gesù stesso di abbracciare con l’amore tutta l’umanità. Nella preghiera del Signore, la Chiesa e ciascun discepolo è contemplato e abbracciato in totalità, non escluse le povertà e le fragilità. Attraverso la luce e la cura della preghiera, persino la debolezza può diventare una porta di salvezza e un indizio di risurrezione rendendo ciascuno di noi più umani e più miti. Il primo passo sembra essere quello di diventare più oranti. Possa capitare anche a noi ciò che accadde per Paolo che fu visitato ancora una volta da una parola che rischiara ogni notte: <Coraggio!> (At 22, 11). Si tratta del coraggio necessario a rinnovare ogni mattina la speranza radicata nell’esperienza di un amore sempre antico e sempre nuovo.
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