Tagliato

XII Settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù potranno sembrare un po’ eccessive, eppure sono parole che liberano il cuore da ogni forma di illusione come pure da ogni inutile argomentazione che non tocchi la concretezza e la verità della vita: <Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco> (Mt 7, 19). È uno spettacolo che tutti ci ha affascinato almeno una volta quando eravamo bambini: guardare qualcosa bruciare ci permette di cogliere la cosa in una luce diversa e ci riporta alla sua essenzialità. È ciò che avviene per Abram mentre il Signore cerca di placare la sua angoscia e la sua ansia: <Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi> (Gen 15, 17). Abram fa fatica a cogliere in nesso necessario e imprescindibile tra la promessa di una discendenza e il distacco dal suo modo di pensare e di concepire il suo avverarsi concreto nella sua vita.

Ancora una volta Abram viene condotto <fuori> (15, 5) per guardare in <cielo> al fine di poter rientrare in se stesso e soppesare autenticamente il suo desiderio di un figlio al cospetto delle <stelle> accettando così di contestualizzare e relativizzare in senso buono il suo desiderio senza rinunciarvi ma sapendosi aprire a modi diversi di realizzarlo. Quando il Signore Gesù esorta i suoi discepoli: <Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecora, ma dentro sono lupi rapaci!> parla anche di noi stessi quando non riusciamo a smascherare le inevitabili incrostazioni egoistiche del nostro desiderio. Abram viene condotto <fuori> e il Signore ci chiede di non accontentarci mai delle apparenze non solo quelle degli altri, ma, prima di tutto, quelle che riguardano in prima persona.

Il misterioso sonno che vince le resistenze di Abram è lo stesso <tardemah> cui si lascia andare Adamo nel momento della creazione di Eva tratta dal suo cuore. È come se l’Altissimo avesse bisogno di addormentarci per poterci operare come fa un bravo chirurgo e aprire nuove speranze per una vita che rischia di attardarsi su se stessa.

Nome

Natività di san Giovanni Battista –

La nascita di Giovanni crea scompiglio sin dal primo momento del suo venire alla luce e ciò che avviene nella casa di Zaccaria, illuminata dalla gioia non più attesa della presenza di un bambino, è profezia di ciò che il Battista rappresenterà per il cammino della Chiesa. I parenti e i vicini sono meravigliati e un po’ contrariati: <Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome> (Lc 1, 61). Come spiega Jean Danielou: <Giovanni non porterà il patronimico che esprimerebbe semplicemente la sua appartenenza ad una famiglia. Dio gli assegna un nome personale che è l’espressione della sua vocazione unica>1. La rottura con il nome di suo padre Zaccaria rappresenta anche la rottura con la tradizione sacerdotale a favore di un riemergere del ministero profetico. Figlio di un levita, Giovanni avrebbe dovuto e potuto servire nel Tempio godendo di tutti i benefici del levirato sacerdotale e, invece, sin dal momento della sua nascita l’evangelista Luca ci ricorda che <Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele> (Lc 1, 80).

Se l’annunciazione della sua nascita, come leggiamo nella Messa della Vigilia, avviene all’interno del Tempio e nel pieno delle funzioni sacerdotali di Zaccaria, la sua nascita e la sua circoncisione, che prevede l’imposizione del nome, rompono con la tradizione levitica e già si fanno segno di quel ministero di <amico dello sposo> che farà del Battista l’anello di congiunzione tra tempi e modi diversi di sentire la presenza di Dio. In mezzo al popolo e a favore di tutta l’umanità, Giovanni sarà capace di spianare la strada alla pienezza di profezia che sarà la manifestazione in Gesù di Nazaret di un modo completamente nuovo di immaginare la relazione con Dio. Paolo lo ricorda nella sinagoga di Antiochia:<Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”> (At 13, 25).

Si compie per Giovanni la profezia di Isaia: <Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome> (Is 49, 1). Questo vale per Giovanni, ma vale per ciascuno di noi: la nostra identità e la nostra vocazione sono una cosa sola e si illuminano a vicenda. Il lungo tempo di deserto vissuto da Giovanni cui segue un tempo imprecisato di prigionia nelle segrete di Erode gli hanno permesso di maturare nella fede fino ad aprirsi – non certo senza fatica – non solo a preparare la strada all’avvento del Messia, ma pure ad essere in grado di superare lo <scandalo> (Lc 7, 23) che Gesù ha rappresentato per la sua sensibilità. Dall’inizio alla fine della sua vita Giovanni Battista accetta di essere riconosciuto come il <profeta> (7, 26) eppure superato in quella logica di misericordia e di assoluta grazia, che già presente nel suo nome, sarà donata in modo pieno dalle parole e dai gesti del Signore Gesù attraverso cui riceviamo <grazia su grazia> (Gv 1, 16).


1. J. DANIELOU, Jean Baptiste témoin de l’Agneau de Dieu, Seuil, Paris 1964, p. 163. 

Bene!

XII Settimana T.O. –

La conclusione del vangelo ha un pizzico di umorismo che non può che farci bene soprattutto nel travaglio quotidiano delle nostre relazioni più o meno intime e più o meno fraterne: <… allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello> (Mt 7, 5). Il Signore Gesù non vuole assolutamente dirci che tutto vada bene così com’è e che non c’è nulla da cambiare e da correggere, ma ci ricorda che il primo passo per ogni correzione è la purificazione del proprio sguardo e del proprio cuore al fine di fare le cose “per bene” e non cadere nella trappola dell’esagerazione del male altrui e della minimizzazione del proprio limite e della propria fragilità. Se è vero che è un vero e proprio atto di carità quello di preoccuparci di aiutare l’altro a migliorare nel suo proprio cammino, rimane pur vero che questo non è possibile – in verità – se nel nostro cuore lasciamo la <trave> (7, 4) dell’ipocrisia ingombrare i nostri movimenti verso l’altro e persino la nostra capacità di cogliere in verità le situazioni.

Il criterio che il Signore Gesù ci offre può sembrare assai austero ed esigente, eppure bisogna riconoscere che è realmente capace di mettere ordine e di orientare chiaramente e sicuramente il nostro cammino in relazione ai nostri fratelli e sorelle senza cedere né alla tentazione di un “buonismo” che, in realtà, ci permette di non interessarci al cammino del nostro prossimo, né a quello di un “rigorismo” che ci rende temibili più che compagni di cammino: <perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi> (7, 2). L’inizio della lettura del ciclo di Abramo, ci ricorda come ogni cammino verso Dio è sempre un cammino che si fa condivisione di strada con gli altri. Se, infatti, la parola con cui si apre la storia del cammino di fede di Abramo ha un carattere così personale e così diretto: <Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò> (Gen 12, 1), la sua accoglienza si riflette su tutti coloro con i quali Abramo ha dei legami tanto che, insieme, <si incamminarono verso la terra di Canaan> (12, 5).

Di questo carattere condiviso di ogni segreto e intimo cammino di fede si fa testimone lo stesso Signore che con la sua parola allarga sempre di più lo sguardo del suo servo: <Alla tua discendenza io darò questa terra…> (12, 7). La terra che continuamente il Signore ci ridona è quella che potremmo definire il terreno della nostra relazione con Dio che si fa cammino di condivisione della speranza con i nostri fratelli e sorelle con cui siamo chiamati a interesse e ritessere rapporti di rinnovata fiducia e, per farlo <bene>, è necessario fare ogni giorno esodo da se stessi, per uscire dalle proprie chiusure talora aggravate dalla <trave> delle nostre paure e pregiudizi per costruire <un altare al Signore> (12, 8) da cui attingere il coraggio di levare <la tenda e andare> (12, 9).

L’intuizione di un cuore puro ci farà scoprire e amare il cammino del fratello: forse quella <pagliuzza> che ci piacerebbe scoprire essere presente nell’occhio del fratello, in realtà l’altro la conosce prima di noi e, soprattutto, è il primo a soffrirne e, forse, da molto tempo cerca di toglierla. La benevolenza più che l’insistenza del giudizio darà al fratello quella pace e quella serenità che forse gli renderà più facile quest’operazione tanto da fargli recuperare uno sguardo luminoso capace di aiutare noi stessi a spostare la trave dal nostro stesso cuore. 

Noi stessi

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

Noi tutti siamo ministri del dono che riceviamo dal Signore Gesù che ci invia a tutti gli uomini e donne affamati di verità. Comunicare al corpo e al sangue di Cristo non è un affare privato e intimo: significa prendere parte alla missione stessa del Salvatore servendo tutti secondo la parola che il Signore rivolse ai suoi discepoli e continua a rivolgere a noi che vogliamo essere suoi discepoli: <Voi stessi date loro da mangiare> (Lc 9, 13). Il vescovo Agostino così ricorda ed esorta: <Queste cose, fratelli, si chiamano sacramenti proprio perché in esse si vede una realtà e se ne intende un’altra. Ciò che si vede ha un aspetto materiale, ciò che si intende produce un effetto spirituale. Se vuoi comprendere il mistero del corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo Paolo che dice ai fedeli: “Voi siete il corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1 Cor 12, 27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il vostro mistero di voi: ricevete il mistero che siete. A ciò che siete rispondete: “Amen” e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: “Il Corpo di Cristo”, e tu rispondi: “Amen”. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen>1.

Il fatto di non leggere il testo dell’istituzione dell’Eucaristia alla vigilia della Passione, ma un passo del ministero di compassione del Signore Gesù ci ricorda che tutta la vita del Signore Gesù fu una vita eucaristica come deve essere anche la nostra. Per questo il Vangelo comincia con una nota che contestualizza quella che non viene indicata come moltiplicazione ma come distribuzione dei pani, ma tutta la vita sacramentale della Chiesa: <Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure> (Lc 9, 11). Prima di tutto il Signore guarisce e poi sfama istituendo quell’ordine della compassione di cui l’Eucaristia è sacramento non cultuale ma esistenziale secondo l’esempio di Melchisedek evocato dalla prima lettura. Come le mani del terapeuta dicono la cura, come i gesti della tenerezza esprimono l’amore, il pane e il vino sono il segno di una presenza reale di Cristo nella nostra vita che si fa sacramento della vita che ci viene da Dio e che siamo chiamati a donarci reciprocamente sempre con quella qualità divina di assoluta gratuità che guarisce il cuore da ogni paura e da ogni illusione di inutile e triste autonomia.


1. AGOSTINO, Discorsi, 272.

Nous-mêmes

Fête du Corps et du Sang du Christ  –

Fête du Corps et du Sang du Christ – Nous sommes tous ministres du don que nous recevons du Seigneur Jésus qui nous envoie vers tous les hommes et femmes affamés de vérité. Parler du Corps et du Sang du Christ n’est pas une affaire privée et intime : cela signifie prendre part à la mission même du Sauveur en servant tout le monde selon la parole que le Seigneur adresse à ses disciples et continue à nous adresser, à nous qui voulons être ses disciples : «  Donnez-leur vous-mêmes à manger » ( Lc 9, 13 ). L’évêque Augustin nous rappelle et nous exhorte ainsi : «  Frères, ces choses s’appellent sacrements parce que l’on voit en eux une réalité qui en désigne une autre. Ce que l’on voit a un aspect matériel et ce que cela signifie produit un effet spirituel. Si tu veux comprendre le mystère du corps du Christ, écoute l’apôtre Paul qui dit aux fidèles : «  Vous êtes le corps du Christ et ses membres, chacun pour sa part » ( 1 Co 12, 27 ). Si donc vous êtes le corps et les membres du Christ, votre mystère est aussi déposé sur la table du Seigneur : recevez le mystère que vous êtes. A ce que vous êtes, répondez : «  Amen » et en le répondant vous le signifier. Tu te dis, en fait :« le Corps du Christ », et tu réponds «  Amen ». Sois membre du corps du Christ, pour que ton Amen soit véridique »1.

Le fait de ne pas lire le texte de l’institution de l’Eucharistie à la vigile pascale, mais un passage du ministère de compassion du Seigneur Jésus, nous rappelle que toute la vie du Seigneur Jésus fut une vie eucharistique comme doit être également la nôtre. Ainsi, l’Evangile commence par une annotation qui contextualise toute la vie sacramentelle de l’Église et qui n’est pas indiqué comme multiplication, mais comme distribution des pains : » Jésus se mit à parler à la foule du règne de Dieu et à guérir ceux qui avaient besoin de soins ( Lc 9, 11 ). Avant tout, le Seigneur guérit et rassasie ensuite, instituant cet ordre de la compassion dont l’Eucharistie est le sacrement non cultuel mais existentiel selon l’exemple de Melchisédech évoqué dans la première lecture. Tout comme les mains du thérapeute parlent de soin et les gestes de la tendresse expriment l’amour, le pain et le vin sont le signe d’une présence réelle du Christ dans notre vie qui se fait sacrement de la vie qui nous vient de Dieu et dont nous sommes appelés à redonner réciproquement toujours avec cette qualité divine entièrement gratuite qui guérit le coeur de toute peur et de toute illusion d’une inutile et triste autonomie.


1. AUGUSTIN, Discours, 272.

Anzitutto

XI Settimana T.O. –

La conclusione del Vangelo è una degna conclusione della lettura che, in questi giorni, abbiamo fatto della seconda lettera ai Corinzi. Il Signore Gesù raccomanda ai suoi discepoli lo spirito delle beatitudini che si invera in un atteggiamento di semplice e coraggiosa fiducia che libera da ogni ansia senza mai far scadere nella superficialità e nella banalità: <Cercate, invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena> (Mt 6, 33-34). Tutta la vita dell’apostolo Paolo, che può essere assunta come un modello di ispirazione per ogni crescita nella discepolanza, è stata un lungo cammino di purificazione da quella tendenza alla preoccupazione che può diventare, come era avvenuto nel caso di Saulo, talmente ossessiva da rendere pensabile nientemeno che la persecuzione.

Alla fine della sua vita e del suo ardente servizio all’annuncio del Vangelo, Paolo si rivela come un uomo e un credente che, finalmente, si è arreso alla grazia che ha dovuto imparare a conoscere come un mistero di misericordia e di perdono. Per questo il sommo e la somma di ogni rivelazione si trova in una parola che contrappone il modo di sentire e di salvare da parte di Dio e il tremendo arrovellarsi cui spingono le suggestioni di <Satana> (2Cor 12, 7) e si riassume in una parola chiara, dolce e massimamente liberante: <Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza> (12, 9). Se ci lasciamo toccare realmente dalla parola del Vangelo possiamo dire che la nostra forza sta nell’abbandono e nella fiducia, i quali ci aprono ad una relazione con Dio e con noi stessi nel segno della semplicità e dell’essenzialità: <non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?> (Mt 6, 25).

A questa domanda che il Signore pone anche al nostro cuore in quelle che sono le nostre scelte quotidiane non si risponde certo a parole, ma con scelte concrete in cui si manifesta la nostra scelta di campo in cui il fulcro di ogni discernimento è la relazione con Dio nella memoria chiara e distinta che <Non potete servire Dio e la ricchezza> (Mt 6, 24). Per poter comprendere e poter vivere tutto ciò l’esortazione del Signore Gesù è di uscire dalle nostre complicazioni: <Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo> (6, 26.28). Se guardiamo veramente gli uccelli del cielo e i gigli del campo impareremo a guardare a noi stessi in un modo più semplice e più vero… in modo più naturale. Così grazia e natura si sposano e si riconciliano per poter anche noi dire con Paolo: <Mi vanterò quindi ben volentieri nelle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo e questo vale ben più che tutte le <visioni> e <rivelazioni> (2Cor 12, 1) che non sono da ricercare <anzitutto>, ma da accogliere come un di più.

Povero

XI Settimana T.O. –

Il salmo con cui rispondiamo alla prima lettura ci aiuta ad assumere la nostra più profonda e promettente identità: <Questo povero grida e il Signore lo ascolta> (Sal 33, 7). Dopo averci consegnato la forma della preghiera, il Signore Gesù ci affida il criterio di discernimento per essere autentici nella nostra vita e nella nostra ricerca. Il primo criterio è lapidario: <Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore> (Mt 6, 21). Ambrogio di Milano mette in guardia i suoi ascoltatori: <Tu sei ‘carceriere’ dei tuoi beni e non proprietario, tu che seppellisci il tuo oro sottoterra (Mt 25,25), sei il suo servo e non il suo padrone: “Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. In quest’oro, hai quindi sepolto il tuo cuore. Vendi piuttosto il tuo oro e compra la salvezza; vendi il minerale e acquista il Regno di Dio, vendi il campo e riscatta per te la vita eterna>1. Per fare questo è necessario assumere il secondo criterio facendo memoria di ciò che spiega ancora il Signore Gesù ai suoi discepoli: <La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso> (6, 22). 

Normalmente pensiamo che gli occhi ci servano per vedere le cose fuori di noi; invece, il Signore ci ricorda che l’occhio per essere un sano organo per cogliere ciò che avviene all’esterno deve essere, prima di tutto, un organo interiore capace di cogliere il reale che sta fuori di noi a partire da ciò che coltiviamo attraverso le scelte del cuore. Solo così potremo avere quella semplicità che è garanzia di libertà e di verità. L’apologia dell’apostolo Paolo ci fa comprendere come possiamo discernere il livello di semplicità e di luminosità del nostro cuore proprio a partire dal nostro grado di disponibilità ad impegnare realmente la nostra vita fino a rischiare di persona per ciò che sentiamo essere il <tesoro> irrinunciabile della nostra esistenza: <molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte> (2Cro 11, 23).

Come ricorda un maestro contemporaneo, quasi in contrappunto a quanto diceva Ambrogio di Milano: <Il cuore umano è complicato e instabile, ripiegato su se stesso fin dalla nascita. Niente di più instabile del nostro cuore che continua ad agitarsi senza sapere dove fissare la sua attenzione: cerca la felicità, poiché la gioia del cuore è la vita dell’uomo, ma spesso si sbaglia di oggetto>2. Tutta la vita ci è consegnata come l’occasione per dare pace e gioia al nostro cuore, permettendogli di esercitare la sua funzione fondamentale che è quella di scegliere ciò che desidera senza cedere all’illusione di ciò che, in realtà, riempie ma non sazia, acceca ma non illumina, brucia ma non scalda.


1. AMBROGIO, Su Nabaoth, 58

2. C. FLIPO, Jésus maitre de vie, Salvator, Paris 2010, p. 18.

Sposo

XI Settimana T.O. –

Gli accenti della prima lettura sono di rara intensità e risuonano in modo particolarmente toccante attraverso il pentagramma delle emozioni più sacre e più forti. Se all’inizio troviamo un’affermazione commovente: <vi ho promesso infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta> (2Cor 11, 2), alla fine il testo diventa appassionato: <Cristo mi è testimone: nessuno mi toglierà questo vanto in terra di Acàia! Perché? Forse perché non vi amo? Lo sa Dio!> (11, 10). Queste ardenti parole dell’apostolo possono farci entrare nel mistero della preghiera che il Signore ci trasmette come un ministero di vita e di amore. Prima di donarci le parole della preghiera, che sono capaci di scavare nel nostro cuore lo stile evangelico della contemplazione imprescindibilmente legata alla purificazione del cuore e all’intercessione, il Maestro ci attrezza, per così dire, con la consegna di una sorta di condizione previa di ogni preghiera che sia secondo il cuore di Cristo: <Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sai di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate> (Mt 6, 7-8).

Con queste parole il Signore Gesù ci rivela che ogni umana preghiera è capace di raggiungere il cuore di Dio e farsi carico delle necessità e delle speranze di tutti nella misura in cui si riparte continuamente dalla consapevolezza di una cura di Dio che prima di essere richiesta e invocata va riconosciuta e accolta come la realtà che previene ogni nostra supplica tanto da orientare e rettificare ogni nostro desiderio. Secondo l’insegnamento e l’esempio del Signore Gesù, il primo passo della preghiera è di volgerci a Dio in modo preciso chiamandolo e riconoscendolo quale <Padre nostro> (6, 9). La consapevolezza e la gratitudine per il fatto di avere un <Padre> condiviso ci aiuta a condividere la vita tanto che le nostre stesse suppliche prima di essere rivolte a Dio perché ci soccorra e ci esaudisca, sono il modo più autentico per prendere coscienza di ciò che dobbiamo essere e fare gli uni per gli altri tanto che diventiamo ciò che domandiamo.

Se gli ultimi quattro capitoli della seconda lettera ai Corinzi vengono definiti <la lettera di lacrime> dell’apostolo che si sente umiliato e addolorato dall’atteggiamento dei cristiani di Corinto sedotti dalle mode spirituali del loro tempo, la preghiera insegnataci dal Signore Gesù crea uno stile di orazione radicalmente impastato con la vita e raggiunge la sua acme nella richiesta di perdono che si fa pronta disponibilità al necessario perdono. È la preghiera secondo il “Padre nostro” a rendere la nostra vita <vergine e casta> (2Cor 11, 29 in quanto capace di apertura assoluta e di dono incondizionato. La castità non va identificata semplicemente – si fa per dire! – con la continenza sessuale, ma con un atteggiamento di libertà nei confronti di se stessi e degli altri che apre spazi di dono autentico.

Con gioia

XI Settimana T.O. –

La Liturgia ci propone oggi lo stesso testo che segna, ogni anno, l’inizio della Quaresima. Per questo potremmo dire che, in realtà, ogni giorno può diventare per noi una sorta di piccolo “mercoledì delle ceneri” con cui riprendiamo, daccapo e con rinnovato amore, il nostro cammino di conversione. L’apostolo Paolo ci esorta prima di tutto ad assumere uno stile di conversione che si può riassumere così: <con gioia>! La prima lettura è come una finestra aperta sul mistero di Dio che si riflette nella nostra vita: <Ciascuno dia quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia> (2Cor 9, 7). Stando a quello che ci dice del Padre il Signore Gesù, possiamo immaginare e credere che l’Altissimo <che vede nel segreto> (Mt 6, 4) scruta e accompagna <con gioia> ogni nostro piccolo o grande segno di conversione. Questa gioia passa sempre attraverso una interiorizzazione nemica di ogni spettacolo ipocrita. Se ogni mattina può e deve essere per noi il rinnovato inizio di un cammino di conversione, il primo passo di questo viaggio interiore è l’obbedienza alla parola del Vangelo che ci mette in guardia non dagli altri, ma da noi stessi: <State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli> (6, 1).

In realtà, c’è una corrispondenza magnifica tra ciò che vede il nostro Padre che è nei cieli e ciò che possiamo sentire nell’intimo segreto del nostro cuore nel quale l’Altissimo ama abitare discretamente, ma così efficacemente se solo gli diamo veramente e generosamente spazio. Non si tratta solo di sentire la soddisfazione di uno sguardo del Padre che valga più dell’ammirazione del mondo intero, ma, ancor di più, sotto questo sguardo noi possiamo maturare una serenità interiore per cui la testimonianza del nostro cuore, illuminato dallo sguardo compiaciuto del Padre, ci basta per trovare pienezza e gioia liberandoci così da ogni inutile e frenetica attesa del plauso che ci potrebbe venire dagli altri. Così possiamo comprendere come la parola consegnataci dal Signore Gesù non ci mortifica, ma ci dilata nella nostra serenità e pace: <Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra> (6, 3). 

L’apostolo conferma e chiarisce ulteriormente ciò che il Signore ci consegna nel Vangelo: <tenete presente questo: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà> (2Cor 9, 6). Il salmista ci offre una sorta di ritratto di quello che siamo chiamati a diventare riflettendo in noi il volto invisibile del Padre che è nei cieli: <Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti: misericordioso, pietoso e giusto> (Sal 111, 4). Siamo chiamati ad esercitarci nell’arte del segreto per essere capaci, in verità, di libertà e di amore. Nel nostro cuore – nel segreto del nostro cuore siamo chiamati a chiarire a noi stessi quanto e come vogliamo darci…fino a che punto vogliamo donarci… per quali motivazioni profonde vogliamo seminare il dono di noi stessi con larghezza.

Premura

XI Settimana T.O. –

Ciò di cui l’apostolo Paolo ci parla nella prima lettura ci può sembrare anche abbastanza banale. Eppure, la portata simbolica di ogni gesto di condivisione e di carità ha un peso rivoluzionario in quelle che sono le nostre relazioni fraterne. Paolo esorta e allo stesso tempo ammira: <E come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa> e aggiunge <Non dico questo per darvi un comando, ma solo per mettere alla prova la sincerità del vostro amore con la premura verso gli altri> (2Cor 8, 7-8). Il termine <premura> può sembrare una parola assai leggera e, invece, può diventare il primo passo di gesti e di scelte assai importanti nel nostro modo di porci non solo davanti, ma accanto agli altri. Ancora di più è altamente, significativo il fatto che l’apostolo Paolo sembra esplicitare la forma di questa premura apparentemente così banale calandola, per così dire, nello stampo dello stesso mistero dell’incarnazione: <Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà> (8, 9).

Queste parole dell’apostolo Paolo ci permettono di cogliere nella sua più alta profondità la provocazione del Vangelo che potremmo definire una sorta di dichiarazione di guerra contro tutto ciò che nel nostro cuore tende a restringere il coraggio della generosità. Continuando la sua catechesi, che sta a fondamento di ogni esperienza discepolare, il Maestro lancia un’ulteriore provocazione ai suoi ascoltatori e a noi che ci vantiamo di essere tra coloro che vogliono seguire il Signore: <Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?> (Mt 5, 46-47). Il Signore Gesù ci chiede di fare della nostra vita un simbolo della sua stessa passione di dono che lo ha portato a diventare uno di noi fino a mettersi nelle nostre mani accettando persino che lo mettessimo sotto i nostri piedi. Tutto ciò non certo per una sorta di masochismo gratuito che sarebbe alquanto malato, ma per una fedeltà al proprio cuore che è stata capace di rivelarci il cuore stesso di Dio come Padre. 

L’esortazione finale del Vangelo di quest’oggi diventa così un programma aperto a tutti gli imprevisti e disposto a rispondere a tutte le urgenze relazionali che la vita pone davanti a noi: <Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste> (Mt 5, 48). L’<opera generosa> (2Cor 8, 6) evocata e consigliata dall’apostolo Paolo, che si concretizza in un piccolo gesto di solidarietà, diventa così il simbolo di un atteggiamento di fondo che ci rende persone sempre in atto di donare persino quando riceviamo qualcosa perché si accoglie tutto e tutti con sentimenti di gratitudine e di stupore.