Dormire

XVI settimana T.O.

Normalmente la Parola di Dio invita continuamente ad essere vigilanti e a non lasciarsi andare al sonno per non essere sorpresi ed essere pronti a rispondere agli appelli della vita. Eppure oggi vediamo come un uomo dopo aver seminato <del buon seme nel suo campo> (Mt 13, 24) non resta sveglio, ma si lascia andare al sonno con tutta la sua casa. Nella parabola, come nelle fiabe, si dice che a un certo punto <tutti dormivano> (13, 25). E non solo, si aggiunge che esattamente approfittando di questo <venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò> (13, 25). Sembra che nessuno si sia accorto di quello che è avvenuto nella notte, anche se non ne siamo assolutamente certi… chissà forse l’uomo che ha seminato dormiva con un occhio ben aperto e si è ben accorto di quello che stava succedendo.

Infatti, al momento della crescita dove la diversità delle piante salta all’occhio, mentre i servi si lasciano prendere dal panico, il padrone rimane tranquillo e fiducioso senza cedere neanche un momento all’ansia. La sua reazione è duplice! Indica chiaramente l’autore di questo misfatto in modo chiaro: <Un nemico ha fatto questo!> (13, 28). D’altro canto, sembra che non ci sia nulla da preoccuparsi perché, se fosse così, il nemico avrebbe vinto: <Lasciate che l’una e l’altra crescano insieme fino alla mietitura…> (13, 30). Il nemico ha seminato della zizzania nel campo, ma non è riuscito a seminare la preoccupazione e la sfiducia nel cuore del padrone del campo il quale sa di aver seminato del buon seme e confida che questi abbia, nonostante tutto, la forza di germinare, di crescere, di maturare e di arrivare serenamente alla mietitura.

Ciò che distingue l’atteggiamento del padrone da quello dei suoi servi è la fiducia nel seme che ha fatto cadere nella terra: ce la farà comunque! Questo rende inutile ogni ansia e pericolosa ogni precipitazione. Inoltre il padrone nella sua saggezza non incolpa nessuno – né se stesso né i suoi servi – di aver dormito saporosamente mentre il nemico seminava la zizzania: fa parte del gioco e dell’equilibrio della vita. A quest’uomo così retto e così sereno si possono ben applicare le parole del profeta Geremia, quelle positive e serene: <Se davvero renderete buona la vostra condotta e le vostre azioni, se praticherete la giustizia gli uni verso gli altri, se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia dèi stranieri, io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre> (Gr 7, 5-7). 

Il profeta Geremia ci aiuta ad uscire dalla parabola e ci permette di comprendere in cosa consista la differenza tra il <buon seme> e la <zizzania> potendo e dovendo prenderci il lusso di dormire in pace senza mai diventare pigri nell’attenzione verso ciò che esige cura e compassione.

Fecondi

XVI settimana T.O.

Il profeta Geremia non lesina sulla speranza e anzi la nutre con delle visioni sempre più ampie: <Quando poi vi sarete moltiplicati e sarete stati fecondi nel paese, in quei giorni – oracolo del Signore – non si parlerà più dell’arca dell’alleanza del Signore: non verrà più in mente a nessuno e nessuno se ne ricorderà, non sarà rimpianta né rifatta> (Gr 3, 16). In un solo versetto il profeta delle contraddizioni più cocenti rivela a auspica una nuova possibile fecondità per il popolo che si radica in una relazione con il Signore sempre più intima che ha sempre meno bisogno di quelle realtà esteriori, persino quelle liturgiche, a vantaggio di una relazione con Dio intima e segnata dal primato dell’interiorità. Le ultime parole della prima lettura chiariscono come questo processo interiore di fecondità sia possibile e quale ne sia la condizione imprescindibile: <non seguiranno più caparbiamente il loro cuore malvagio> (3, 17).

Dal canto suo il Signore Gesù cui la predicazione di Geremia non solo è molto cara, ma sulla cui predicazione spesso si fonda la sua stessa predicazione della conversione insiste sul mistero di una fecondità interiore legata sempre di più alla disposizione del cuore ad accogliere la Parola non superficialmente, ma radicalmente. L’occasione per ribadire tutto ciò è data dalla spiegazione della parabola del seminatore che potrebbe pure essere intesa come la parabola dei possibili destini dei semi caduti sulla terra del cuore. In realtà, se leggiamo attentamente la spiegazione della parabola ci rendiamo conto che il soggetto è esattamente <colui che ascolta la Parola>! Ascoltare è già molto, ma sembra non essere sufficiente per essere veramente fecondi. 

La Parola, secondo la spiegazione di Gesù, esige un’accoglienza che si fa gelosa custodia contro <il Maligno> che <ruba> (Mt 13, 19); esige costanza per evitare che la <persecuzione a causa della Parola> (13, 21) segni la fine della corsa della Parola nelle profondità del cuore trasformandosi così in una sorta di aborto spirituale; esige una provata libertà per evitare che la Parola venga soffocata dalla <preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza> (13, 22). Il <frutto> (13, 23) è legato alla fatica gioiosa di una comprensione non solamente teorica o intellettuale, ma che si fa accoglienza esistenziale. Poco importa la quantità che può essere <il cento, il sessanta, il trenta per uno>, ciò che importa è che la Parola non venga sprecata come un seme destinato a perire non in vista di un frutto, ma per la nullificazione delle sue possibilità. 

La Parola ricorda da una parte quanto la Parola abbia un’energia tutta sua che è capace di fecondare e di moltiplicare le forze e le energie, dall’altra ci rammenta che essa è affidata alle nostre mani, al nostro cuore, alla nostra cura. Se è dunque vero che noi non possiamo fare nulla senza la forza della Parola seminata nei nostri cuori, rimane altresì vero che la Parola ha bisogno della nostra accoglienza per essere feconda e basta un piccolo – persino piccolissimo – angolo di terra buona per fare questo miracolo.

Primo

S. Giacomo apostolo

La Colletta di questa festa evoca un altro “primato” che suona in questi termini: <tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli apostoli, sacrificasse la vita per il Vangelo>. Nel gruppo degli apostoli sembra ci siano vari primati: si parla del fondamentale “primato” di Simon Pietro senza dimenticare che, a differenza di quanto ci viene raccontato dai sinottici, l’evangelista Giovanni ci tramanda che sia Andrea il primo chiamato dal rabbi di Nazaret e che sia stato lui a condurre a Gesù suo fratello Simone (Gv 1). È noto a tutti come la Tradizione abbia identificato nell’apostolo ed evangelista Giovanni il misterioso e innominato <discepolo amato> di cui ci parla insistentemente il quarto Vangelo che avrebbe, in questo caso, un primato del tutto particolare nel cuore di Cristo Signore. E oggi, festeggiando l’apostolo Giacomo, siamo messi di fronte al primato del dono della vita la cui generosità di libertà nel dono radica in una profonda rassicurazione: <convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi> (2Cor 4, 14).

Questo modo di concepire e di vivere il primato contrasta e in certo modo purifica e converte quel segreto bisogno che tutti noi portiamo nel cuore di essere “primi” e possibilmente unici. La domanda dei figli di Zebedeo di cui si fa mediazione l’appassionata richiesta della loro madre, in realtà ci appartiene molto più di quanto riusciamo ad immaginare: <Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno> (Mt 20, 21). La risposta a questa richiesta il Signore non la dà alla madre di Giacomo e Giovanni che ha diritto ad essere accolta in questo suo desiderio così materno, ma a tutti i discepoli di cui facciamo parte anche noi: <Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo> (20, 26-27). Il Cristo ci rivela così che, ben aldilà di tutti i primati che possiamo desiderare o che la vita può gratuitamente darci, vi è un primato che siamo chiamati a cercare ogni giorno: quello di metterci al servizio <Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti> (20, 28).

Proprio nella misura in cui ci lasciamo interpellare quotidianamente dalle esigenze del Vangelo ci rendiamo conto che anche nella nostra vita il tesoro della presenza e degli appelli di Dio sono custoditi <in vasi di creta> (2Cor 4, 7). Questa esperienza di fragilità lungi dall’essere uno svantaggio per la testimonianza rischia di esserne la condizione imprescindibile: <affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi>! Tesoro di grazia e fragilità sono i due poli in cui siamo chiamati a vivere la discepolanza e la missione. La grazia della disponibilità a servire ci permette di custodire il tesoro del nostro desiderio accettando che questo non si identifichi con i nostri desideri e ambizioni, ma ci porti oltre la terra di noi stessi verso il cielo di ciò che siamo realmente. San Giacomo è stato il primo a sperimentare la gioia di vedere il vaso della propria vita rompersi nella morte per manifestare il magnifico tesoro ivi contenuto: <perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale> (4, 11).

Insistere

XVI settimana T.O.

Si comincia oggi la lettura liturgica del profeta Geremia in parallelo con le parabole del Signore Gesù poste – quasi incastonate – nel cuore stesso del vangelo secondo Matteo. La prima delle parabole che il Signore racconta alla folla, che <stava sulla spiaggia> (Mt 13, 2) tutta intenta ad ascoltare la sua parola, comincia proprio così: <Ecco, il seminatore uscì a seminare> (13, 3). Questo inizio ci mette di fronte all’opera stessa di Dio nella vita dell’umanità: siamo davanti a lui e per lui una terra destinata – per sua stessa natura – ad accogliere il dono che – per sua natura – è Dio stesso. Questa immagine che mette in relazione il <seminatore> con i vari tipi di terreno che accolgono come possono il seme sparso con abbondanza e prodigalità, sebbene ci faccia subito interrogare sul tipo di terreno che siamo, mai deve farci dimenticare di stupirci ed ammirare il largo gesto di questo seminatore che <semina con larghezza> (2Cor 9, 6) e che – misteriosamente e nonostante tutto – <con larghezza raccoglierà>! Cominciando la lettura di uno dei profeti più amati dal Signore Gesù e nel quale maggiormente si è identificato, possiamo dire che egli è icona di una <terra buona> (Mt 13, 8) che sa accogliere il seme e sa far raccogliere il frutto.

Ma non ci sfugga il fatto che dire <terra buona> non significa dire “terra già pronta”. In certo modo lo stesso profeta ha bisogno di essere arato prima di essere realmente in-seminato con <la parola del Signore> (Ger 1, 4). Infatti, davanti alla vocazione a profetare ossia a fare della propria vita in tutta la sua interezza – Geremia dovrà rimanere “solo” per essere segno davanti al popolo – il <giovane> (1, 6) non ha ritegno a recalcitrare e a stornare da sé l’appello. Il frutto della vita e della parola del profeta di <Anatot> (1, 1) non lasciano dubbi sulla <terra buona> del suo cuore, ma essere terra buona non significa non fare fatica ma, gradualmente, accettare che qualcosa di nuovo e di più grande di noi sia ospite della nostra esistenza nutrendosi di tutte le nostre energie per germogliare, crescere e fruttificare. Ciò che, a ragione, sempre ci spaventa davanti all’intervento di Dio nella nostra vita è che il suo entrare in relazione con il nostro vissuto esige il dono della nostra vita: come per la terra così per noi, prima del frutto si tratta di lasciare assorbire energia e forza perché il seme segua il suo destino e possa compierlo fino in fondo… proprio come avviene nel seno di una madre che accoglie il viaggio verso la vita di una nuova creatura.

Questa parabola del Signore non è solo la prima, ma è anche emblematica: si tratta come per Geremia di acconsentire a che qualcosa di diverso da noi entri in contatto profondo con noi stessi esigendo tutto noi stessi e portandoci oltre noi stessi. Davanti ad un simile processo segreto ma inarrestabile non possiamo non temere. Ma proprio al cuore del nostro sgomento sempre – anche nei più minimi appelli – ci raggiunge la parola del Signore: <Non avere paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti> (Gr 1, 8). Sì, il Signore è sempre con noi per proteggere il seme della sua presenza che <prima di formarti nel grembo materno> (1, 5) ha posto dentro di noi come dono per tutti.

Passione

S. Brigida

Due soli versetti tratti dall’epistolario paolino sono capaci di farci entrare nel mistero della vita di Brigida di Svezia: <e non vivo più io, ma Cristo vive in me> (Gal 2, 20). Sono tanti i commentatori che ritengono questo versetto come il sunto della stessa vita dell’apostolo Paolo. Di certo può essere la chiave per interpretare e lasciarsi toccare dall’itinerario spirituale di Brigida la cui nobiltà di origini diventa il nobile modo di consumare la propria vita nei doveri imposti dal suo stato e nella passione, ardente, per ciò che il suo cuore le fa percepire come importante e degno di essere vissuto come servizio a Dio e ai fratelli. Per questa donna che fu sposa amorosa e madre dolcissima di ben otto figli, ciò che fa la differenza nella vita è la capacità di accoglierla in modo totale senza mai chiedere alla vita di darci qualcosa, ma, al contrario, di approfittare di ogni occasione per dare la propria vita. Tutto ciò nei modi in cui si rende possibile nella concretezza del quotidiano, che è frutto delle circostanze esterne, ma pure delle nostre scelte profonde e dei nostri orientamenti più coinvolgenti.

Brigida vive un’esistenza di particolare pienezza – settant’anni – in cui la sposa diviene più volte madre per poi rimanere vedova e vivere tutta la sua libertà dovuta anche al suo alto lignaggio per farsi pellegrina di pace e di verità. La scelta di stabilirsi a Roma la rende una donna veramente cattolica nel senso che si sente a proprio agio e in casa propria in ogni luogo. Attorno alla sua figura di donna e di discepola di Cristo si respira un’aria di intimità e di autenticità. L’amore appassionato per le persone che la circondano e per quelle di cui sente l’ispirazione di doversi prendere cura – tra questi è da annoverare il Vescovo di Roma che vive lontano dalla sua Chiesa – trova il suo fondamento e il suo quotidiano alimento nella meditazione della Passione del Signore la cui contemplazione diviene il criterio di discernimento di ogni scelta e di ogni passo della sua vita. Come e con Paolo anche Brigida può e ama dire: <Sono stato crocifisso con Cristo…> (Gal 2, 19).

Nonostante sia debitrice delle modalità spirituali della sua epoca, Brigida è una vera maestra di vita spirituale perché riporta ogni discepolo a ritrovare il proprio radicamento nella relazione con il Signore Gesù memore delle sue parole: <Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla> (Gv 15, 5). L’importanza così forte della memoria della passione del Signore nell’esperienza di Brigida manifesta il suo attaccamento appassionato al mistero di Cristo che la rende partecipe della sua sete di salvezza per ogni uomo e donna. Le meditazioni e orazioni di santa Brigida hanno ancora oggi la capacità di aprire il cuore e la mente alla percezione di quale grande amore siamo ricolmati e a cui siamo chiamati a dare una risposa adeguata che ci impegni profondamente e fattivamente. Il desiderio espresso dal Signore Gesù alla vigilia della sua passione rimane per noi un appello a cui non avremo mai risposto abbastanza: <Rimanete in me e io in voi> (Gv 15, 4).

Oltrepassare

S. Maria Maddalena

Come ricorda un poeta contemporaneo in Maria di Magdala l’intimità non elimina la venerazione, e l’amore si esprime nel grado più sommo nell’adorazione: <Questa riverenza di Maria verso Cristo la troviamo già nel modo in cui cerca il corpo dell’amato: “Hanno portato via il mio Signore”>1. In queste parole disperate che Maria continua a ripetere prima agli apostoli asserragliati nel Cenacolo e poi al misterioso giardiniere che sembra essere la sua ultima speranza, tradiscono nel senso che manifestano il desiderio più grande di questa donna privata della persona più importante della sua vita: <Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo> (Gv 20, 15). Sembra che il Signore Risorto aspetti questa dichiarazione di intenti di Maria per rivelarsi a Lei come Vivente. Anche Maria di Magdala deve fare il suo cammino pasquale di conversione racchiuso in quel significativo <si voltò> (20, 16). Maria pensa che qualcuno abbia preso il Signore e lo abbia portato via e, in tal modo, rivela il suo più grande desiderio in quella corsa mattutina alla luce incerta dell’aurora: prendere in qualche modo il Signore e portarselo via!

Invece il cammino della risurrezione è ben altro del cammino della morte. Mentre la disperazione del lutto e della perdita tende a racchiudere e conservare le piccole e grandi memorie dell’amore, la vita esige non la privatizzazione ma la più ampia condivisione: <ma va’ dai miei fratelli…> (20, 17). Non è difficile immaginare quali potessero essere i sentimenti di Maria verso il gruppo degli apostoli che avevano abbandonato, tradito e rinnegato il Maestro. Eppure, il mattino di Pasqua è il momento di una rivelazione che vince tutte le morti nella relazione aprendo albe insperate, inattese… umanamente impossibili: <Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così> (2Cor 5, 16).

Maria di Magdala pensava di avere un appuntamento con la morte ed ecco che si ritrova davanti alla Vita. Maria di Magdala pensava di doversi misurare con una inconsolabile solitudine e si ritrova tra <fratelli>. Non le viene permesso di rintanarsi nel suo dolore, ma viene continuamente disorientata per essere radicalmente ri-orientata. Le parole del Cantico segnano il ritmo del cammino di discepolanza: <Da poco le avevo oltrepassate quando trovai l’amore dell’anima mia> (Ct 3, 4). Per risorgere bisogna andare oltre, ben oltre fino ad oltrepassare se stessi per fare veramente Pasqua in cui tutto sembra uguale ma tutto è radicalmente diverso: <Rabbuni!> (Gv 20, 16). Al cuore del nostro tempo di vacanza o, comunque, di ritmo di vita più disteso possiamo spiritualmente fare un giro nel giardino nuovo per dare un pizzico di profumo e di passione alla nostra relazione con Cristo che è la nostra vita, la nostra gioia. Appena alzati potremmo ricominciare a parlare con un sonoro <Alleluia!>.


1. G. HALDAS, Marie di Magdala, Lausanne, 2008, p. 68.

Riposo

XV Domenica T.O.

Ci potremmo chiedere: che cos’è il riposo secondo il Signore Gesù. La liturgia della Parola di oggi dà un nome preciso al riposo a cui Gesù invita i discepoli e questo nome è <pace>. Paolo nella seconda lettura lo dice chiaramente: <Egli infatti è la nostra pace> (Ef 2, 14). La pace di cui parla Paolo non è di certo statica ma assolutamente dinamica e, perciò, costruttiva e inventiva. Più precisamente ciò che dà pace è la capacità di fare unità dentro di noi <eliminando in se stesso l’inimicizia> (2, 16). Ciò che commuove Gesù davanti alla folla è il fatto di vederla dispersa e ciò che preme a Gesù davanti agli apostoli, reduci dalla loro prima missione, è quello di far ritrovare loro l’unità. Geremia deplora nella prima lettura i falsi e indegni pastori perché <fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo> (Gr 23, 1). La promessa di Dio è proprio questa <radunerò io stesso il resto delle mie pecore> (23, 3). Anche noi spesso ci sentiamo stanchi e desideriamo trovare riposo, ma sarebbe vano cercarlo solo fuori di noi, appunto in un luogo appartato. Questo riposo dobbiamo costruirlo dentro di noi facendoci docili all’invito del Pastore Grande che ci invita a seguirlo anche <per una valle oscura> (Sal 22, 4) verso quei pascoli e quelle acque in cui <il Signore mi fa riposare> (22, 2). Il Pastore ci invita ad esserne capaci <a motivo del suo nome> (22, 3) proprio <facendo la pace> (Ef 2, 15) con i lontani e con i vicini, con ciò che ci sta dietro e con ciò che ci sta davanti, con ciò che portiamo dentro di noi e con ciò che dobbiamo affrontare fuori di noi. Anche noi come gli apostoli saremo forse tentati di raccontare al Signore Gesù tutto quello che siamo capaci di fare e di insegnare. Il Signore, da buon pastore, ci chiede di fare un altro pezzo di strada, più precisamente di <barca> (Mc 6, 32) per farci imparare a porre lo sguardo sugli altri fino a farci toccare profondamente dalla loro presenza e dai loro bisogni. Serafino di Sarov amava ripetere: <Trova la pace e a migliaia accanto a te troveranno salvezza>. Solo se costruiremo dentro di noi la pace, quale superamento di ogni attaccamento a noi stessi, potremo trovare riposo e saremo in grado di <presentarci gli uni e gli altri al Padre in un solo Spirito> (Ef 2, 18). Saremo sempre più e meglio capaci di presentarci gli uni agli altri per vivere con gli altri fino ad essere pronti a vivere per gli altri solo se ameremo di stare <da soli> (Mc 6, 31) con il Signore Gesù. In questa intimità continuamente ritrovata coltiveremo la sua presenza riposante nella profondità del nostro cuore dove impariamo l’arte della pace… il respiro della <compassione> (6, 34). La compassione si apprende alla severa scuola del dolore in cui nessuno può sostituire nessuno, ma ognuno agisce in prima persona.

Repos

XVI Dimanche du T.O. 

Nous pourrions nous demander : qu’est donc le repos selon le Seigneur Jésus. La liturgie de la Parole de ce jour donne un nom précis au repos auquel Jésus invite ses disciples et ce nom est : ” paix “. Paul, dans la deuxième lecture le dit clairement : ” C’est Lui, en effet, notre paix” ( Eph 2, 14 ). La paix dont parle Paul n’est certainement pas statique mais absolument dynamique et donc, constructive et inventive. Plus précisément, ce qui donne la paix est la capacité de faire l’unité en nous  en éliminant en soi l’inimitié ” ( 2, 16 ). Ce qui émeut Jésus face à la foule est le fait de la voir dispersée et ce qui prime pour Jésus face aux apôtres réduits à leur première mission, est de leur faire retrouver l’unité. Jérémie déplore, dans la première lecture, les faux et indignes bergers car ” ils font mourir et dispersent le troupeau de mon pâturage ” ( Jr 23, 1 ). La promesse de Dieu est vraiment celle-ci ” je réunirai moi-même le reste de mes brebis ” ( 23, 3 ). Souvent, nous aussi, nous nous sentons fatigués et désirons trouver le repos, mais il serait vain de le chercher à l’extérieur de nous, dans un endroit à part. Ce repos, nous devons le construire en nous, en devenant dociles à l’invitation du Grand Berger qui nous invite à le suivre même ” dans les vallées obscures ” ( 22, 2). Le Berger nous invite à en être capables ” à cause de son nom ” ( 22,3 ) justement ” en faisant la paix ” ( Eph 2, 15 ) avec les lointains et les proches, avec ce qui est derrière nous et ce qui nous attend, avec ce que nous portons en nous et ce que nous devons affronter en dehors de nous. Comme les Apôtres, nous serons aussi tentés de raconter au Seigneur Jésus tout ce que nous sommes capables de faire et d’enseigner. Le Seigneur, en Bon Berger, nous demande de faire un autre bout de chemin, plus précisément de ” barque ” ( Mc 6, 32 ) pour nous apprendre à porter le regard sur les autres jusqu’à nous laisser toucher profondément par leur présence et leurs besoins. Seraphin de Sarov aimait répéter : ” Trouve la paix et des milliers autour de toi trouveront le salut “. C’est seulement si nous construirons en nous la paix, qui dépasse tout attachement à soi, que nous pourrons trouver le repos et seront en état de ” nous présenter les uns et les autres au Père en un seul Esprit “. ( Eph 2, 18 ). Nous serons toujours plus et mieux capables de nous présenter les uns aux autres pour vivre avec les autres jusqu’à être prêts à vivre pour les autres seulement si nous aimerons rester ” seuls ” ( Mc 6, 31 ) avec le Seigneur Jésus. Dans cette intimité, continuellement retrouvée, nous cultiverons sa présence reposante dans la profondeur de notre coeur où nous apprenons l’art de la paix…la respiration de la ” compassion ” ( 6, 34 ). La compassion s’apprend à la sévère école de la douleur où personne ne peut remplacer personne, mais où chacun agit à la première personne.

Meditano

XV settimana T.O.

Certo ci sono coloro che <meditano l’iniquità e tramano il male sui loro giacigli>. Se lo fanno è perché sentono, più o meno giustamente, di avere tra le loro mani <il potere> (Mi 2, 1). Questa tremenda percezione di <potere> a cui nessuno è insensibile diventa la base interiore per dare sfogo alla propria avidità insaziabile che acceca il cuore tanto da ritenere quasi giustificato il fatto di poter opprimere l’altro, soprattutto se viene avvertito come una minaccia che limita la nostra brama di illimitatezza che ingenera l’abuso. Ma non sono solo gli iniqui a meditare! Il Signore fa pure la sua parte: <Ecco, io medito contro questa genìa una sciagura da cui non potranno sottrarre il collo e non andranno più a testa alta> (2, 3).

Questa divina meditazione che cerca di arginare lo strapotere degli ingiusti che opprimono i più deboli diventa oggetto di profonda considerazione da parte del Signore Gesù. Infatti, mentre i farisei <tennero consiglio contro Gesù per farlo morire> (Mt 12, 14), il Signore fa due cose: <guarì tutti e impose loro di non divulgarlo> (12, 15-16). Sembra che non si voglia irritare ulteriormente la sensibilità già avvelenata dei farisei e per quanto non si possa rifiutare l’aiuto e la compassione a quanti ne hanno bisogno, nondimeno questo viene fatto da Gesù in modo discreto e tenendo il profilo più basso possibile.

Come in altri momenti importanti della vita e dell’insegnamento del Maestro, l’evangelista Matteo ci tiene ad annotare che ciò viene fatto <perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia…> (12, 17). Siamo così condotti dalla meditazione dell’evangelista al cuore stesso della meditazione di Cristo Signore che sembra essersi impregnato dei carmi del Servo del Signore, meditandoli fino ad incarnarli nella sua passione: <Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce> (12, 19). Questo esercizio interiore di meditazione e di assimilazione della Parola fa di Gesù l’incarnazione stessa del Verbo eterno del Padre in uno stile di assoluta mitezza che lo stesso Signore deve aver dovuto imparare e limare giorno dopo giorno.

Da questa fermezza con se stesso nasce l’infinita dolcezza nei confronti degli altri: <Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta> (Mt 12, 20). Entrare nella meditazione divina significa per noi imitarne tutta la dolcezza e quel senso di rispetto persino per quanti meditano di farci del male e di umiliarci. Impariamo da Cristo Signore non solo la sua mitezza e la sua umiltà, ma pure il suo rispetto assoluto per la nostra fragilità, le nostre deviazioni, le nostre ricerche caotiche e spesso confuse, per fare altrettanto nei confronti dei nostri fratelli e sorelle in umanità. Entriamo nella sua stessa meditazione che non si lascia coinvolgere dal modo di pensare dei farisei, e impariamo ad affinare uno sguardo giusto e discreto che accoglie la differenza scorgendovi non immediatamente una minaccia, ma una possibilità di incremento nella varietà della vita. Se riconosceremo di essere poveri e di essere oggetto di attenzione e di compassione non potremo che aprirci del tutto naturalmente ad una solidarietà autentica e creativa… quasi gaia.

Senza colpa

XV settimana T.O.

Per due volte il Signore Gesù cerca di attirare l’attenzione dei farisei su una possibilità che forse sfugge alla loro comprensione interiore ormai abituata ad una meccanica di colpevolizzazione che rischia di uccidere la speranza e la fede. Dapprima una domanda: <O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa?> (Mt 12, 5). In seguito, un’affermazione così chiara da essere in realtà la vera interrogazione: <Se aveste compreso che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrifici”, non avreste condannato persone senza colpa> (12, 7). In questa diatriba siamo condotti nel merito di uno dei temi più forti e ricorrenti dell’annuncio di Gesù, forse il fondamentale: aldilà e ben prima delle scelte e delle questioni pratiche vi è un modo di concepire la vita che non può che fondarsi su un modo di pensare a Dio e a se stessi. Se la <colpa> diventa il motore della relazione con Dio e non la <misericordia> allora è chiaro che tutto si svolgerà e, prima ancora, si sentirà in un certo modo e sarà avvertito in una certa direzione che è quella della colpevolizzazione.

Nella prima lettura leggiamo come da parte del Signore, invece, ci sia una capacità persino di tornare <indietro> (Is 38, 8) sulle proprie decisioni rendendo possibile l’impossibile, come se <il sole> retrocedesse <di dieci gradi sulla scala che aveva disceso>. Eppure, quello che a noi sembra non solo impossibile e forse persino non augurabile diventa reale a partire dalla capacità di non leggere ogni cosa a partire dalla <colpa>, ma ripartendo continuamente dalla <misericordia>. Il primo passo è quello di verificare il nostro modo di leggere e di interpretare le Scritture e la tradizione perché esse non si trasformino in un giogo opprimente e insopportabile, ma in un’esperienza di grazia: <Non avete letto quello che fece Davide…?> (Mt 12, 3).

Rispettando la Legge senza leggerla in profondità di certo ci si assicura la tranquillità della coscienza. Decidendosi per la conversione nulla è più così chiaro e scontato, ma ci si apre all’accoglienza di Dio e dell’altro che tutto ricrea. Come Ezechia anche noi senza vergogna e con una punta di santo orgoglio possiamo rivolgerci a Dio dall’abisso del nostro dolore che non necessariamente e comunque non sempre è un abisso di colpa: <Signore ricordati che ho camminato davanti a te…> (Is 38, 3). A ben pensare forse siamo migliori di quanto noi stessi riusciamo a pensare di noi stessi. Il Signore Gesù non esita a creare un parallelo tra il comportamento dei discepoli e quello di Davide affamato con i suoi compagni e dei sacerdoti impegnati quotidianamente nel culto. Il Signore, con un ragionamento sottile, ci ricorda che lo scandalo non sta nel raccogliere le spighe in giorno di sabato, ma nel non sapere condividere con gli altri. In realtà è l’egoismo l’unica vera trasgressione imperdonabile.