Il tuo nome è Ricordare, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

Il Signore Gesù ci parla con una sofferta solennità: <Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”>. La conseguenza di ciò è chiara: <Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra> (Gv 15, 20). La lettura delle parole che il Signore Gesù rivolge ai suoi discepoli nell’intimità del Cenacolo e che ogni anno rileggiamo tra Pasqua e Pentecoste, hanno per noi lo stesso valore e la stessa importanza che ebbero per gli apostoli nella loro ricomprensione di ciò che avevano vissuto con Gesù. Di quei gesti – primo fra tutti la lavanda dei piedi – che fanno lo stile del discepolato. Il primo grande lavoro interiore della Chiesa nascente è stato proprio quello di imparare a ricordare le parole e i gesti del Signore per conformavi le proprie parole e i propri gesti in una continuità d’amore che è l’essenza di ciò che chiamiamo Tradizione. È il Signore stesso a chiedere ancora a ciascuno di noi di non dimenticare, ma di ricordare quella parola che è la regola stessa della discepolanza: <Uno servo non è più grande del suo padrone>. E questo proprio perché nei suoi abbassamenti, il Signore si è rivelato come il padrone che si mette allo stesso livello del servo al fine di poter vivere non più in una relazione di sudditanza, ma di autentico amore.

Si tratta di arrivare fino in fondo alla sfida del Vangelo! Per questo il Signore non solo non nasconde ai suoi discepoli i rischi del discepolato, ma ne parla in modo chiaro ed esplicito. Per sostenere la fedeltà creativa dei suoi discepoli, il Signore partecipa loro la sua passione d’amore per il Padre da cui è originata la compassione per l’umanità. Questa compassione si spinge fino ad una speranza estrema che certo non giustifica la persecuzione, ma pure comprende la ragione più profonda e più vera: <perché non conoscono colui che mi ha mandato> (15, 21). Non c’è altra motivazione all’odio se non l’ignoranza dell’amore che, nonostante tutto, non è in grado di spegnere l’amore la cui fiamma va custodita con una passione e una perseveranza che superi lo zelo delle vergini vestali dell’antica Roma. Il grido e l’implorazione che Paolo sente in sogno si leva ancora oggi da molti angoli della nostra terra e, in particolare, dalle periferie del mondo ove la sofferenza è più grande e il rischio di disumanizzazione più minaccioso: <Vieni in Macedònia e aiutaci!> (At 16, 9).

La reazione dell’apostolo Paolo è immediata e generosa, come annota l’autore degli Atti degli Apostoli che sembra aver condiviso personalmente questo momento importante nel processo di dilatazione della prima evangelizzazione: <Dopo che ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedònia, ritenendo che Dio ci avesse chiamati ad annunciare loro il Vangelo> (16, 10). Ancora una volta dobbiamo tenere presente che non basta che <durante la notte> appaia <una visione>, è necessario essere in grado di ricordarla e di darle il giusto peso fino a lasciarsi disturbare e riorientare dalle intuizione del cuore in cui il Signore continuamente ci fa cenno di andare oltre… talora di volgersi altrove senza timore e con una grande passione colma di fiducia che si fa decisione e azione.

Il tuo nome è Autorità, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

La prima lettura ci riporta ad un momento assai delicato della vita e della storia della Chiesa: <agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli> (At 15, 22). Potremmo definire questo gruppo la prima delegazione apostolica e gli antesignani dei nostri nunzi e legati pontifici. Se fosse così, sarebbe proprio a partire da questo testo che possiamo comprendere meglio in cosa consista l’<autorità> secondo il Vangelo e secondo l’ispirazione dello Spirito di Cristo Risorto. La prima cosa che va sottolineata riguarda il “curriculum” per essere annoverati tra questo gruppo scelto cui si riconosce la capacità di rappresentare e trasmettere la sensibilità di una Chiesa in continuo ascolto delle esigenze della Parola unitamente alle esigenze della storia. In modo chiaro, il testo ci ricorda che sono <uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo> (At 15, 26). La seconda cosa, altrettanto importante, sta nel fatto che il frutto di questa condizione previa, riguarda uno stile e un’attitudine pastorale che la Chiesa è chiamata a custodire e a rinverdire: <E’ parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie> (15, 27).

In una parola potremmo dire che la condizione dell’autorità nella Chiesa radica nella donazione personale alla causa del Vangelo fino a mettere a rischio, in senso ampio, la propria vita e, parimenti, in un’essenzialità di esigenze che va continuamente rimessa a punto. Lo stesso testo degli Atti ci offre anche un criterio per comprendere se le cose funzionano o meno, proprio a partire dal frutto che l’esercizio dell’autorità nella Chiesa non solo produce come effetto di obbedienza, ma, ancor di più, lascia come senso di sollievo quasi fosse una scia di profumo: <Quando l’ebbero letta, si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva> (15, 30). Nel Vangelo tutto questo viene confermato e rafforzato dalle parole del Signore Gesù che sono il presupposto e il punto di partenza continuo di ogni esercizio del servizio di autorità nella comunità credente: <Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli un gli altri come io ho amato voi> (Gv 15, 12). Il punto di partenza non è un principio dottrinale astratto, ma l’esempio concreto di un modo di stare al mondo che è quello rivelatoci nella carne del Verbo.

Ancora una volta è il Signore stesso a darci il criterio per capire se il nostro viaggio nella vita si sta svolgendo nella giusta direzione: <Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici> (15, 13). Ma per dare la vita per i propri amici, prima di tutto bisogna avere degli amici! Sembra che al Signore questo stia radicalmente a cuore quando dice: <Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi> (15, 15). La conclusione dell’unico messaggio che ci viene dall’incrocio delle letture della Liturgia può essere riassunto così: nella Chiesa nessuno deve essere trattato da “suddito”, ma da amico; da parte della Chiesa nessuno deve essere considerato nemico, ma amico, persino e soprattutto quando è un leale avversario.

Il tuo nome è Invece, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

L’apostolo Pietro non si lascia bloccare dalla paura del cambiamento e della novità che sembra paralizzare la prima comunità dei credenti di fronte alla libertà che viene dal Vangelo, una libertà la cui caratteristica principale è di essere non più un privilegio riservato ad alcuni, ma un dono che è di tutti e per tutti. Le parole di Pietro, soprattutto perché vengono dalla bocca di un uomo e di un apostolo perlopiù famoso per la sua paura e i suoi timori, assumono un peso ancora più grande: <Ora dunque, perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare? Noi invece crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo stati salvati, così come loro> (At 15, 10-11). Si può ben dire che buona parte della fatica della prima comunità, che si stringe attorno al Signore Gesù, è legata alla difficoltà di accettare una dilatazione assoluta e incondizionata dei confini di appartenenza e di esperienza di salvezza. Questa fatica fu dapprima del piccolo nucleo degli apostoli attorno al Signore Gesù, divenne la fatica del primo gruppo allargato dei discepoli e delle discepole che si aprono alla fede in Cristo dopo la sua Pasqua, ma è pure la fatica della Chiesa di sempre.

Non è, infatti, facile, rinunciare ad una immagine di comunità di fede il cui principio sarebbe proprio quello di una sorta di privilegio e di esclusività e questo crea e continua a creare <una grande discussione> (15, 7). Tutte le precomprensioni e i preconcetti sembrano destinati a cadere davanti ad un elemento nuovo e dirimente che viene rammentato da Pietro con chiarezza esigente: <E Dio, che conosce i cuori, ha dato testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi> (15, 8). Questo dono, ricevuto da tutti e condiviso con tutti, non permette più nessun tipo di <discriminazione> (15, 9). Pertanto, la fine di ogni <discriminazione> non è mai facile da digerire e da metabolizzare perché comporta una radicale ricomprensione di se stessi. Le parole del Signore Gesù nel Vangelo ci permettono di andare a scoprire il fondamento remoto e radicale di questo nuovo modo di sentire e di agire: <Come Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore> (Gv 15, 9).

Siamo radicalmente esortati a non pensare in termini di diversità elitaria, ma, ogni giorno, siamo invitati a ripartire invece dal “come” dell’agire di Dio, il quale non fa preferenze e riversando i suoi doni con larghezza su tutti, apre la strada per un modo nuovo di sentirci reciprocamente. Il Signore Gesù con le sue parole ci porta ben oltre ogni <discussione> per aprirci ad un discernimento radicale: <Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena> (15, 11). La gioia che ci viene dal Vangelo, la forza che ci viene dalla Pasqua è legata a questa possibilità inedita di non lasciarsi intrappolare in definizioni e atteggiamenti troppo chiari e troppo distinti, ma rimanendo disponibili all’imprevedibilità della grazia che ci sorprende e ci chiede di dare ogni giorno una possibilità alla grazia nella nostra vita e in quella degli altri.

Il tuo nome è Frutto, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

Siamo abituati a leggere e gustare le parabole con cui il Signore narra del regno di Dio che viene, ma siamo sempre commossi quando attraverso delle immagini Gesù parla di se stesso. Quando il Signore si racconta, in realtà, non racconta mai se stesso in modo narcisistico e isolato, ma sempre in relazione: per parlare di sé, Gesù parla sempre del Padre e parla sempre anche di noi. Per fare questo ricorre alle immagini più poetiche e più efficaci come: <Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto> (Gv 15, 1-2). La fecondità dei discepoli è intimamente ed essenzialmente legata al loro essere legati al loro Maestro e Signore, ma questo modo di concepire la fede come legame personale e non semplicemente come l’essere incastonati in un sistema religioso, per quanto generoso e salvifico, non può non creare qualche problema: <Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati> (At 15, 1). Nella sequenza interpretativa della storia che troviamo negli Atti degli Apostoli, questo non è certo il primo <problema> (15, 6) che la Chiesa deve affrontare. Infatti, si è dovuto trovare una soluzione al problema spinosissimo della sostituzione di Giuda nel collegio degli Apostoli, come pure di come far sì che le mense fossero servite in modo uguale senza distinzioni tra credenti provenienti dal giudaismo e quelli provenienti dai gentili… ma quello della circoncisione è, di certo, il più grave.

Paolo e Barnaba, ci racconta Luca nel secondo volume della sua opera, <dissentivano e discutevano animatamente contro costoro> (15, 2). La posta in gioco è la novità del Vangelo di Cristo Gesù, a partire dal quale ciò che assicura la salvezza non è la ritualità, ma la relazione personale da cui sgorga e attraverso cui deve essere autenticata ogni ritualità. Paolo e Barnaba viaggiano attraverso le Chiese mentre si recano a Gerusalemme: <raccontando la conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli> (15, 3) così pure, una volta giunti alla Chiesa madre della città santa <riferirono quali grandi cose Dio aveva compiuto per mezzo loro> (15, 4). Sembra proprio che nel cuore degli apostoli più aperti alla novità di quel Vangelo che ha radicalmente cambiato la loro vita, risuoni la parola essenziale del Signore Gesù che ha tutto il tono di una supplica amorevole e appassionata: <Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla> (15, 5).

Per otto volte ritorna il verbo <rimanere> che sembra misteriosamente non contrapporsi, ma portare a compimento il verbo <circoncidere>. Ciò che per i padri nella fede era espresso da questo gesto rituale della circoncisione che taglia e in certo modo espone, attraverso la nudità assoluta, alla memoria della propria fragilità, il Signore Gesù sembra volerlo esprimere con questo senso di appartenenza assoluta. Questo senso profondo di appartenenza fa sentire come una cosa sola il discepolo con il Maestro e i discepoli tra di loro che diventano il frutto maturo di una radice condivisa.

Il tuo nome è Partire, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

La vita della Chiesa è contrassegnata, già all’inizio della sua avventura nella storia, da quella che si potrebbe definire una naturale alternanza di accoglienza e di rifiuto. Ciò che fa la differenza e assicura un futuro al cammino della prima comunità – e di ogni comunità che si voglia autenticamente fedele al suo Signore – è la capacità di partire e ripartire continuamente. Nonostante Paolo sia stato lapidato e trascinato <fuori della città> e persino sia stato creduto <morto> (At 14, 19) il suo slancio evangelico non soccombe. Infatti, mentre verrebbe già da pensare al funerale ecco che il testo continua perché la vita continua: <Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli si alzò ed entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe> (14, 20). A partire da questo, così denso degli Atti degli Apostoli, possiamo dire che la vita della Chiesa si fonda su due movimenti che rappresentano la sua struttura fondamentale: partire e ripartire <insieme> (14, 27). Per vivere questo dinamismo, che fa il mistero stesso della Chiesa e del suo ministero a favore della gioia di tutti la parola del Signore ci assicura dell’unica cosa necessaria: <Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi> (Gv 14, 27).

Il segreto di una pace interiore è ciò che rimette continuamente in piedi i discepoli del Signore dando loro la forza di partire e di ripartire: <Attraversata poi la Pisidia, raggiunsero la Panfilia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attalia; di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto> (At 14, 25-26). Questo viaggio attraverso terre e mari non è che l’espressione di un viaggio verso l’interiorità. Non solo sta ad indicare l’intensità di una relazione altamente significativa espressa dal Signore Gesù in termini toccanti: <bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco> (Gv 14, 31). La lettura dei capitoli giovannei che precedono e preparano la pasqua del Signore sono una sorta di immersione nel mistero di intimità che intercorre tra il Padre e il Signore Gesù così forte da farsi dono per noi nella promessa di quello Spirito Consolatore che continua in noi ciò che fa la vita e la gioia del Cristo.

Il Signore Gesù sa e sente che il cuore dei discepoli è sconvolto e turbato, e questo lo induce a parlare loro di <pace>. Una pace che non significa affatto ripiegamento sui propri timori, ma un’apertura sempre più ampia alle sfide di un’esperienza così profonda da farsi annuncio e condivisione. Le parole appassionate del Signore Gesù, che preparano se stesso e i suoi discepoli alla sua Pasqua, sembrano farsi gesto e risoluzione nella vita dei discepoli che non si arrendono davanti a nessuna esperienza di persecuzione e di rifiuto quasi per una fedeltà insopprimibile ad un movimento interiore che li spinge ad andare avanti… sempre avanti. Quella della prima generazione di discepoli rappresenta una vera sfida per la Chiesa del nostro tempo, un modello di coraggio quasi infantile che sorprende e ammonisce. Sì, come dei bambini che si azzuffano, ma che si rialzano per continuare a giocare e ad azzuffarsi piuttosto che starsene fermi e immobili. Non è certo un caso che il Maestro continua ad esortare i suoi discepoli ad avere il cuore di un bambino… che non si arrende mai davanti alla possibilità di giocare… di mettersi in gioco.

Il tuo nome è Ritto, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

L’opera del Signore Gesù continua attraverso le parole e i gesti degli apostoli. Le parole di Paolo al <paralizzato> non fanno altro che rinnovare il dono originale della creazione per ogni uomo e per ogni donna: <Alzati, ritto in piedi!> (At 14, 10). La celebrazione del mistero pasquale si protrae per tutto questo tempo gioioso fino a Pentecoste e sembra essere una lunga meditazione su Cristo Signore. Egli è l’Agnello immolato e vivente che, nel mistero della sua offerta pasquale, pur ferito e sgozzato, sta <ritto> (Ap 5, 6; 14, 1) al centro della storia per conferirle il senso più autentico e profondo. Il desiderio e il disegno dell’Altissimo per ognuna delle sue creature e per ciascuno dei suoi figli è che possiamo raggiugere la pienezza della nostra statura nell’esercizio di quella libertà di movimento non solo delle gambe, ma soprattutto, del cuore nella libertà che ci rende suoi figli e icona della sua presenza nel mondo e nella storia. La lettura del Vangelo di Giovanni ci aiuta già a preparare non solo liturgicamente, ma prima di tutto esistenzialmente, il dono di una rinnovata Pentecoste: <Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto> (Gv 14, 26).

Il dono dello Spirito del Risorto non fa che rinnovare e dilatare quel dono fondamentale della creazione che ci ha messi in piedi e in movimento fin dalla creazione del mondo. Pertanto, non basta essere creati, è necessario ogni giorno fare il balzo della libertà, della creatività, di una certa capacità di essere pronti all’avventura come quel paralitico che, sulla parola di Paolo, che rinnova la forza della parola originaria del Creatore, <balzò in piedi e si mise a camminare> (At 14, 10). Come insegna Paolo agli abitanti di Listra il punto di partenza per questa rimessa in movimento è la memoria di quel <Dio vivente, che ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano> (At 14, 15). Il Signore Gesù ci ricorda che l’opera della creazione non è un’opera di potenza, ma un dinamismo di amore: <Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui> (Gv 14, 23).

Al cuore di quel paganesimo interiore che abita il nostro stesso cuore e spesso vediamo abitare il mondo in cui viviamo, il Signore Gesù ci chiede di fare un passo decisivo nella comprensione del mistero di Dio che corrisponde alla giusta comprensione del nostro stesso mistero: amare è il segreto della vita, perché l’amore è l’essenza stessa di Dio. Da parte sua lo Spirito Santo, ci ricorda il Signore Gesù, <vi insegnerà e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto> (14, 26). Lo Spirito Santo sembra avere uno scopo primario nel suo abitare il nostro cuore: insegnarci a ricordare. Ricordare è una delle espressioni più durevoli e necessarie dell’amare. Eppure, non basta ricordare, è necessario che la memoria scavi nel cuore del discepolo uno spazio di reale disponibilità a rimettersi in gioco, senza cedere al comodo di una vita semplicemente assistita e tristemente compianta.

Il tuo nome è Vela, alleluia!

V Domenica di Pasqua –

La conclusione della prima lettura di questa domenica, che ormai già ci fa pregustare il fuoco della Pentecoste e la struggente nostalgia che segna il cammino dei credenti a partire dal momento dell’Ascensione del Signore che ritorna presso suo Padre, ci sospinge verso il largo: <di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto> (At 14, 26). Il Signore Gesù nel Vangelo ci aiuta a capire meglio cosa sia questa vela che è capaci di portare la nostra vita sempre di più al largo permettendoci di avanzare sicuri e gioiosi sull’abisso del mare. La sua parola è semplice, essenziale, fondamentale: <Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri> (Gv 13, 34). L’evangelista tiene a specificare come il Signore Gesù abbia atteso che Giuda fosse <uscito> (13, 31) prima di dare ai suoi discepoli il mandato di essere più che apostoli, dei veri riflessi della sua stessa unione con il Padre: <Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per altri> (13, 35).

Un segno distintivo dell’amore è la capacità di rispettare e, per certi aspetti, di amare persino il rifiuto dell’amore! Per questo il Signore lascia partire nella <notte> (13, 30) della sua scelta e del suo cuore uno dei suoi apostoli, senza imporgli inutilmente il fardello di un appello ad amare cui ormai la vita di Giuda si è completamente chiusa… una chiusura che non può essere forzata dall’amore se non nella forma dell’assoluto rispetto del non-amore. Come scriveva e continuava a dire Raoul Follerau: <La carità è l’ordine che regna nella stessa vita di Dio e si fa riflesso per noi della sua eternità> e aggiunge <solo così potremo diventare veramente umani>. Pertanto, la nostra umanità è come la nave evocata nella prima lettura: essa può avanzare sfidando le correnti e le onde o accondiscendendo ai venti solo nella misura in cui spiega la propria vela al soffio dello Spirito.

Ciò che Giovanni attesta di vedere nell’Apocalisse è ciò che noi tutti attendiamo di vedere: <un nuovo cielo e una terra nuova> (Ap 21, 1). Questo nuovo cielo, questa nuova terra non possono che essere il frutto dell’accoglienza piena e generosa di quel <comandamento nuovo> (Gv 13, 32) che sta sulle labbra del Signor Gesù proprio come l’invito ad accoglierlo come <sposo> (Ap 21, 2) della nostra vita per farci iniziare all’arte dell’amore. E l’amore è sempre contemporaneo al desiderio che viene colto e accolto dall’occhio del cuore capace di vedere così in profondità da andare oltre ogni apparenza. L’amore è sempre <Ora> (Gv 13, 31) ed è nella forza di un presente assoluto capaci di dare futuro ad ogni memoria. L’amore è l’unica realtà che può rendere Dio <glorificato> dalla e nella nostra vita. Perché amando diamo spazio e peso al disegno di Dio sulla nostra umanità facendo del nostro umano cammino una tappa della sua rivelazione. Di fatto non c’è nulla di nuovo nel comandamento del Signore, ma ciò che fa tutto completamente nuovo è quel <come io> (13, 34) che fa del nostro cammino un continuo riflesso del suo essere in mezzo a noi: <Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio con loro> (Ap 21, 3). Questa presenza asciuga ogni <lacrima> e supera ogni <morte> attraverso il fuoco dell’amore che gonfia e sospinge la vela del cuore.

Ton nom est Voile, alléluia !

V Dimanche de Pâques –

La conclusion de la première lecture de ce dimanche, qui est déjà un avant-goût du feu  de la Pentecôte  et la poignante nostalgie qui marque le chemin des croyants à partir du moment de l’Ascension du Seigneur qui retourne près de son Père, nous pousse vers le large : «  de là, ils firent voile pour Antioche, d’où ils étaient partis recommandés à la grâce de Dieu pour l’oeuvre qu’ils venaient d’accomplir » ( Ac 14, 26 ). Dans l’Evangile, le Seigneur Jésus nous aide à mieux comprendre ce qu’est cette voile qui est capable de porter notre vie toujours plus loin en nous permettant d’avancer sûrs et joyeux sur l’abysse de la mer. Sa parole est simple, essentielle, fondamentale : «  Je vous donne un commandement nouveau : aimez-vous les uns les autres, comme je vous ai aimés, ainsi, aimez-vous aussi les uns les autres » ( Jn 13, 34 ). L’évangéliste tient à préciser que le Seigneur Jésus attendit que Judas fut «  sorti » ( 13, 31 ) avant de donner à ses disciples le mandat d’être plus que des apôtres, de véritables reflets de sa propre union avec le Père : «  A ceci tous vous reconnaîtront pour mes disciples : à cet amour que vous aurez les uns pour les autres » ( 13, 35 ).

L’un des signes distinctifs de l’amour est la capacité de respecter, et d’une certaine façon, d’aimer jusqu’au refus de l’amour ! Pour cela, le Seigneur laisse partir dans la «  nuit » ( 13, 30 ) selon son choix et son coeur, l’un de ses apôtres, sans lui imposer inutilement le fardeau d’un appel à aimer car, désormais, la vie de Judas s’est complètement fermée…une fermeture qui ne peut être forcée par l’amour si ce n’est par la forme de l’absolu respect du non-amour. Comme l’écrivit et continua à dire Raoul Follereau : «  La charité est l’ordre qui règne dans la vie même de Dieu et elle s’en fait reflet pour nous dans son éternité » et, il ajoute : « ainsi seulement nous pourrons devenir vraiment humains ». En attendant, notre humanité est comme le bateau évoqué dans la première lecture : celui-ci peut avancer défiant les courants et les eaux ou bravant les vents, seulement dans la mesure où sa propre voile se plie au souffle de l’Esprit.Ce que Jean prétend voir dans l’Apocalypse et ce que nous attendons tous de voir  est : «  un ciel nouveau et une terre nouvelle » ( Ap 21, 1 ). Ce ciel nouveau, cette terre nouvelle ne peuvent qu’être le fruit du plein accueil généreux de ce «  commandement nouveau » ( Jn 13, 32 ) qui est sur les lèvres du Seigneur Jésus tout comme l’invitation à l’accueillir comme « l’époux » ( Ap 21, 2 ) de notre vie pour nous initier à l’art de l’amour. Et l’amour est toujours contemporain au désir qui est recueilli et accueilli par l’oeil du coeur capable de voir si profondément jusqu’à pénétrer au-delà de toute apparence. L’amour est toujours «  Maintenant » ( Jn 13, 31 ) et se trouve dans la force d’un présent absolu capable de donner un futur à toute mémoire. L’amour est l’unique réalité qui peut «  glorifier » Dieu par et dans notre vie. Car, en aimant nous faisons de la place et donnons du poids au destin de Dieu pour notre humanité en faisant de notre chemin humain une étape de sa révélation. En fait, « il n’y a rien de nouveau dans le commandement du Seigneur, mais ce qui le rend complètement nouveau est ce «  comme moi » ( 13, 34 ) qui fait de notre chemin un reflet continu de sa présence au milieu de nous : « Voici la demeure de Dieu parmi les hommes ! Il aura sa demeure avec eux et ils seront son peuple avec Lui » ( Ap 21, 3). Cette présence essuie toute «  larme » et dépasse toute «  mort » à travers le feu de l’amour qui gonfle et  pousse la voile du coeur. 

Il tuo nome è Salvezza, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Gli apostoli devono far fronte alla <gelosia> dei Giudei, i quali si sentono feriti dal fatto che una <moltitudine> (At 13, 45) riceve la parola del Signore attraverso la testimonianza dei discepoli di quel Gesù che essi avevano ucciso. La minaccia, per così dire, dell’amore predicato e patito dal Signore Gesù sembra non dare pace ai Giudei. La presa di posizione da parte degli apostoli è molto forte e al contempo assai semplice: <Era necessario che fosse proclamato prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani> (13, 46). Nessuno viene escluso dall’esperienza e dal dono della salvezza, ma nessuno può essere costretto ad accogliere il dono di una salvezza che non può mai essere né una costrizione né un’evidenza, ma è il frutto di una scelta di consenso libero e gioioso. In questo passaggio epocale testimoniato dal testo degli Atti degli Apostoli non siamo di fronte ad una esclusione dei Giudei dal piano della salvezza, ma si ribadisce che la salvezza è un dono di cui non si può essere gelosi, ma che, per sua natura, esige di essere partecipato e condiviso. Il segno di tutto ciò è che i <discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo> (13, 52). 

Le parole che il Signore rivolge ai suoi discepoli, mentre si prepara il tempo della separazione e dello scandalo pasquale della sua umiliazione, sembrano un vero testamento. Il sigillo di questo testamento non è né la nostalgia né la gelosia, ma la certezza che la vita è più forte di ogni morte; la speranza che la gioia di un amore condiviso non si può spegnere nemmeno nella bufera e nell’uragano dell’odio più tremendo: <Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro credetelo per le opere stesse> (Gv 14, 11). Il Signore Gesù non vive con gelosia la sua relazione con il Padre, ma con un amore la cui intensità e autenticità è direttamente proporzionale alla sua possibilità di partecipazione e di incremento: <In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre> (14, 12). L’esodo pasquale di Cristo non crea un vuoto, ma diventa premessa e possibilità di una crescita, di quella che potremmo definire una vera espansione della grazia il cui segno è l’approfondimento e la dilatazione della gioia senza rimandi e senza diminuzioni: <Chi ha visto me, ha visto il Padre> (14, 9). Non c’è nessuno spazio per nessuna forma di <gelosia>!

Il Signore Gesù non attira a se stesso, ma, attraverso di sé, ci porta verso il Padre con una gioia che diventa uno stile e un sigillo. Laddove Filippo chiede di essere ammesso, per così dire, alla contemplazione e alla fruizione dell’infinito, Gesù gli ricorda e ci ricorda che l’assoluto di Dio si dà a vedere nella finitudine dell’uomo-Gesù, in cui e per cui la nostra finitudine di uomini diventa porta del cielo. Non solo, è come se abituandoci a riconoscere il volto invisibile del Padre in quello ben definito di Cristo Signore, ci si abiliti a scorgere un riflesso della presenza divina in ogni creatura con rinnovato stupore e con accresciuta gratitudine.

Il tuo nome è Casa, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Il tempo pasquale diventa sempre di più un tempo di meditazione e di interiorizzazione del mistero di Cristo Signore. Mentre ci sprofondiamo nella contemplazione di ciò che ci è stato rivelato nella carne del Verbo, ci sentiamo sempre più a casa, ci sentiamo sempre più accolti, percepiamo la verità di noi stessi sempre più in legame ad una relazione di intimità e di familiarità. Ciò che i discepoli di Emmaus hanno sperimentato la sera stessa del giorno di Pasqua non è altro che la realizzazione della promessa fatta dal Signore alla vigilia della sua passione: <Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore> (Gv 14, 1). Proprio a questa parola del Signore possiamo affiancare la parola esultante dell’apostolo Paolo: <E noi vi annunciamo che la promessa fatta ai padri si è realizzata, perché Dio l’ha compiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù> (At 13, 32-33).

Il dono che ci viene dalla risurrezione di Cristo è di aver ritrovato una casa, ciò che il Signore ci ha conquistato con la sua offerta pasquale è di poterci sentire tutti a casa. Uno dei segni distintivi del “sentirsi a casa” è di non avere paura. Il segno che ci garantisce di aver trovato finalmente il nostro <posto> (Gv 14, 3) è di sentirci finalmente “a posto” in una pace del cuore che permette alla nostra vita di avanzare in modo sereno. Il fondamento di questa pace e di questa serenità è una fiducia condivisa che potremmo definire ellittica e va da noi a Cristo fino al Padre e si riversa nelle nostre relazioni umane rendendole sempre più fraterne. La domanda di Tommaso non solo non deve sorprenderci, ma può diventare la nostra stessa domanda: <Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?> (14, 5). La risposta del Signore ci indica la via di casa, ci spiana davanti la strada per tornare a casa: <Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me> (14, 6).

Realizzare le promesse ricevute significa infine trovare casa nel cuore di Cristo che è una casa aperta, accogliente, calda di misericordia e di tenerezza divine. Da questa casa possiamo ripartire ogni mattina per vivere la nostra avventura umana quotidiana, in quella casa possiamo rientrare ogni sera per condividere le gioie e la fatiche della nostra giornata e, infine, trovare il riposo dell’intimità e del riposo. La certezza di avere una casa da cui uscire al mattino in cui rientrare alla sera ci permette di avere il coraggio e la semplicità di assumere la precarietà della vita con le sue incognite senza che questo ci crei turbamento, anzi rinnovando ogni mattina una sorta di curiosità nei confronti della vita e dei suoi percorsi inediti. Non possiamo certo dimenticare che uno dei primi gesti del Risorto è stato proprio quello di restituire al Cenacolo in cui i discepoli si erano asserragliati pieni di paura la sua dimensione di <casa> in cui stare insieme, pregare insieme, attendere insieme e, prima di tutto, perdonarsi reciprocamente. Potremmo dire che la casa che continuamente il Signore edifica per noi si fonda sul perdono.