Intimità

Santa Maria Maddalena –

Un testo di Maurice Zundel ci aiuta ad entrare nel mistero di questa memoria così pasquale di Maria di Magdala: <L’appuntamento con Gesù Cristo si dà prima di tutto in incontro comunitario. Sembra dire il Risorto a Maria di Magdala: “Se mi vuoi sentire, bisogna passare attraverso l’universale di una presenza comunitaria. Altrimenti mi ridurresti alla tua misura e mi trasformeresti in un idolo. Se vuoi veramente entrare in relazione con me, bisogna farlo in apertura a tutta l’umanità. Questo perché tu potrai stringermi veramente, quando il tuo cuore si sarà dilatato alla misura del mio stesso cuore”>1. La memoria di Maria Maddalena ci riporta alle emozioni del mattino di Pasqua, ma in questo giorno siamo chiamati a concentrare l’attenzione del nostro cuore non tanto sul fulgore del Risorto, ma sulle nostre piccole e grandi tenebre che hanno bisogno di lasciarsi inondare e rischiarare dalla luce pasquale che, come all’inizio della creazione, rimette in moto la vita e la rende ancora più piena e felice.

In Maria di Magdala, discepola del Signore, possiamo cogliere il cammino di ogni discepolo chiamato a diventare apostolo. Si tratta di vivere un’intensità di intimità che non si ripiega in un intimismo autoreferenziale, ma si apre ad una testimonianza ad amplissimo raggio. Il cammino di Maria di Magdala va dalle lacrime alla corsa testimoniale. Nell’intimità di ciò che avviene davanti alla tomba vuota, la Maddalena diventa capace di portare una parola: <… e ciò che le aveva detto> (Gv 20, 18). Come ogni apostolo, anche Maria di Magdala non si accontenta di riportare ad altri la parola udita dal Signore, ma se ne testimonianza con tutta la propria vita e con tutta la propria passione. Solo l’intimità fonda la testimonianza, nondimeno per dire qualcosa che sia credibile e affidabile è necessario aver vissuto un’esperienza di profonda partecipazione al mistero pasquale. Una partecipazione che esige un amore non solo grande ma che, non potendosi improvvisare, ha bisogno di una lunga e remota preparazione.

Questo amore è certamente quello che è sbocciato nella frequentazione tra la discepola e il Maestro, ma esso ha dato frutto, nel momento della partecipazione, a quel dono pasquale che, caduto dalla croce come un frutto maturo, ha diffuso tutto il suo profumo nel giardino della risurrezione ove Maria è divenuta nostra madre nella fede amorosa di chi sa attraversare ogni <notte> (Ct 3, 1) senza temere nessun <buio> (Gv 20, 1): né dentro il proprio cuore né dentro le pieghe più dolorose della storia. Tutti i vangeli attestano che ai piedi della croce era presente quel gruppetto fedele di donne che avevano seguito e assistito il Signore Gesù ponendosi al suo servizio nel periodo della sua predicazione. Fra di loro, Maria di Madgala viene nominata per prima. Le parole e i tenerissimi gesti di Cristo avevano suscitato in lei una fede capace di liberarla dal male oscuro del suo travaglio interiore, fino a condurla a rispondere all’amore con altrettanto amore.


1. M. ZUNDEL, Avec Dieu dans le quotidien, Saint Augustin, p. 113.

Cammino

XVI Settimana T.O. –

Non possiamo certo non condividere non solo la <grande paura> (Es 14, 10) che stringe il cuore dei figli di Israele unitamente a tutti coloro che si sono uniti alla loro speranza di libertà e di nuove prospettive di vita. Non meraviglia certo la paura per la pressione di <seicento carri scelti e tutti i carri d’Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi> (14, 7) che spingono il popolo, inerme e disarmato, nelle fauci del mare il quale sembra aspettarli come si attende pazientemente una preda ignara nella trappola preparata da tempo. Anche noi avremmo gridato, anche noi rimpiangiamo le schiavitù che conosciamo e cui siamo abituati, anche noi ci pentiamo di aver intrapreso entusiasmanti cammini di libertà che ci pongono di fronte alla sfida esigente della nostra solitudine e responsabilità. La reazione di Mosè davanti al più che comprensibile sconcerto del popolo è di fargli coraggio: <Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore> poiché <il Signore combatterà per voi> (14, 13-14). Da parte del Signore, invece, c’è una risposta non facile da comprendere in un momento così difficile in cui il panico attanaglia i cuori, le menti, paralizzando con la paura i passi e i pensieri: <Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino> (14, 15).

Questa parola rivolta dal Signore Dio al suo servo Mosè ci aiuta a comprendere ancora meglio la risposta che il Signore Gesù dà agli scribi e ai farisei evocando gli esempi di Giona e della <regine del Sud> che <venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone> (Mt 12, 42). Giona e la regina del sud sono due persone che alla fine hanno accettato, pur con tutto il combattimento vissuto dal profeta, di porsi in cammino e di andare oltre i proprio giudizi e preconcetti e perfino oltre le proprie ricchezze e sicurezze per aprirsi a un di più di conoscenza del cuore di Dio e del cuore dell’uomo, a un di più di sapienza e di vita. Mentre gli scribi e i farisei dicono <da te vogliamo vedere un segno> (12, 38), sembra che il Signore Gesù risponda: “Da voi voglio vedere un segno!”. Infatti, il segnale che permette ai segni di manifestarsi e di essere accolti è proprio quello di scomodarsi come fece contro voglia Giona e così appassionatamente la regina del sud.

Solo il fatto di mettersi e rimettersi continuamente in <cammino> permette al Signore di farsi non solo compagno di strada, ma di rivelarsi vero e ardito apripista come avvenne nel mare e come avverrà per quarant’anni nel deserto. Così pure il Signore Gesù non può darci nessun <segno> se non gli facciamo segno di volere veramente aprirci al dono della sua presenza lasciandoci scomodare e proiettare più in là di ciò che abbiamo messo in conto di voler vedere per poter così finalmente aprire gli occhi su ciò che vuole essere visto e accolto dalla nostra vita per rimetterla ogni mattina in <cammino>. Si tratta del cammino della memoria di quanto già il Signore ha compiuto per noi per riaprirsi alla fiducia e rafforzarla sapendo rinunciare all’assurda pretesa che l’amore si dimostrato e la bontà di Dio continuamente provata… basta solo continuare il <cammino> guardando sempre avanti e mai indietro.

Visitati

XVI Domenica T.O.

La domanda che si pone il salmista: <Signore, chi abiterà…> (Sal 14, 1) illumina la lettura del vangelo di questa domenica. Questo testo non va letto in modo isolato, ma imprescindibilmente legato al testo che abbiamo letto e meditato la scorsa domenica. Il Signore Gesù che si presenta come il buon samaritano, capace di chinarsi sulle ferite di quell’uomo che <scendeva da Gerusalemme a Gerico> (Lc 10, 30) e lo conduce alla locanda perché possa essere curato fino a ristabilirsi, si fa oggi ospitare nella casa di Marta e di Maria. Il Signore Gesù si fa ospite, ma in realtà siamo noi ad avere bisogno della sua visita, più di quanto egli abbia bisogno della nostra accoglienza. Per interpretare il testo del Vangelo, la consueta sapienza della Liturgia ci mette nella giusta direzione, ridandoci la possibilità di leggere uno dei testi più belli delle Scritture Ebraiche: l’accoglienza, da parte di Abram, della visita dei misteriosi viandanti. L’attitudine più forte e più significativa che troviamo in lui è la sua prontezza che, ben prima di farsi fretta nel servire – e nel chiedere alla moglie Sarai e al suo servo di servire – è attesa vigilante <all’ingresso della tenda> perfino <nell’ora più calda del giorno> (Gn 18, 1). 

La cosa più importante non è la nostra accoglienza e il nostro modo di accogliere, bensì il fatto che Dio ci visita e il modo con cui egli lo fa. Con la sua consueta raffinatezza letteraria l’evanglista Luca fa seguire l’accoglienza nel <villaggio> (Lc 10, 38) di Betania, alla parabola del samaritano compassionevole. Quasi a dire che solo l’esperienza di una radicale compassione può renderci ospitali verso gli altri. Non solo, la presenza di Maria e il suo sedersi <ai piedi del Signore> per ascoltare la <sua parola> (10, 39), ci ricorda che, per quanto possiamo accogliere Gesù nella nostra vita cercando di rispondere ai suoi bisogni e necessità, è sempre Lui a darci le cose più importanti e a donarcele in pienezza. In tal modo il dittico del buon Samaritano che si ripropone in Marta, viene completato da quello di Maria e ci dà così una sorta di mappa interiore della vita del discepolo, il cui desiderio è quello di poter vivere, in prima persona, ciò che viene evocato dall’apostolo Paolo: <Cristo in voi, speranza della gloria> (Col 1, 27)

Il gesto così fine dell’accoglienza di Abramo e di Marta che si completa nell’atteggiamento più che accogliente di Maria, apre uno spazio di pace in cui il cuore di tutti – compreso quello dell’Altissimo – si rinfranca affinché tutti possano riprendere più serenamente il cammino della storia: una storia chiamata ad ospitare il cuore stesso di Dio che ci accoglie lasciandosi accogliere. Il questo modo non solo si rivela <il mistero nascosto da secoli e da generazioni> (Col 1, 26), ma questo mistero diventa il modello stesso della nostra vita in una libertà e in una carità non solo crescenti, ma sempre più profonde e serene. La parola del Signore Gesù ci aiuta a non dimenticare che libertà e carità non possono che essere l’espressione più pura di ogni personalità che, come l’amore, è sempre unica e quindi impossibile a ripetersi.

Visités

XVI Dimanche T.O. –

La question que se pose le psalmiste : «  Seigneur, qui habitera… » ( Ps 14, 1 ) illumine la lecture de l’évangile de ce dimanche. Ce texte n’est pas lu de manière isolée, mais lié indissociablement au texte que nous avons lu et médité dimanche dernier. Le Seigneur Jésus qui se présente comme le bon samaritain, capable de se pencher sur les blessures de cet homme qui «  descendait de Jérusalem à Jéricho » ( Lc 10, 30 ) et le conduit à l’auberge pour qu’il puisse être soigné jusqu’à son rétablissement, devient, aujourd’hui l’invité dans la maison de Marthe et Marie. Le Seigneur Jésus se fait inviter, mais s’est nous qui, en réalité, avons besoin de sa visite, bien plus qu’il n’a besoin de notre accueil. Pour interpréter le texte de l’Evangile, la sagesse habituelle de la Liturgie nous met dans la bonne direction, nous redonnant la possibilité de lire l’un des plus beaux textes de l’Ecriture Hébraïque : l’accueil de la part d’Abraham de la visite des mystérieux voyageurs. L’attitude la plus forte et la plus significative que nous trouvons en lui est la promptitude qui, bien avant de devenir rapidité dans le service  – et dans la demande à sa femme Sarah et à son serviteur de servir – est une attente vigilante «  devant l’entrée de la tente » même «  à l’heure la plus chaude du jour » ( Gn 18, 1 ).

La chose la plus importante n’est pas notre accueil et notre façon d’accueillir, mais bien le fait que Dieu nous visite et la manière dont il le fait. Par son habituel  raffinement littéraire, l’évangéliste Luc fait poursuit l’accueil dans le «  village » ( Lc 10, 38 ) de Béthanie, après la parabole du samaritain compatissant. Comme pour dire que seule l’expérience d’une réelle compassion peut nous rendre hospitaliers envers les autres. Non seulement la présence de Marie et son assise «  aux pieds du Seigneur » pour écouter «  sa parole » ( 10, 39 ), nous rappelle que, même si nous pouvons accueillir Jésus dans notre vie en cherchant de répondre à ses besoins et ses nécessités, c’est toujours Lui qui nous donne les choses les plus importantes en plénitude. Ainsi, le diptyque du bon Samaritain reproposé en Marthe, est complété par celui de Marie nous donnant ainsi une sorte de plan intérieur de la vie du disciple, dont le désir est  d’abord de pouvoir vivre par soi-même, ce qui est évoqué par l’apôtre Paul «  Christ en vous, espérance de la gloire » ( Col 1, 27 ).

Le geste si délicat de l’accueil d’Abraham et de Marthe complété par l’attachement plus que par l’accueil de Marie, ouvre un espace où le coeur de tous – y compris celui d’Abraham – se rafraîchit pour que tous puissent  reprendre le chemin  de l’Histoire plus sereinement : une Histoire appelée à inviter le coeur même de Dieu qui nous accueille  en nous laissant accueillir. Ainsi se révèle, non seulement «  le mystère caché depuis des siècles et des générations » ( Col1, 26 ), mais ce mystère devient aussi le modèle même de notre vie dans une liberté et une charité, non seulement croissantes, mais toujours plus profondes et sereines. La parole du Seigneur Jésus nous aide à ne pas oublier que liberté et charité ne peuvent qu’être l’expression la plus pure de toute personnalité qui, comme l’amour, est toujours unique et donc impossible  à se répéter.

Tempo

XV Settimana T.O. –

L’autore del libro dell’Esodo non ha peli sulla lingua e ci fa percepire in tutta la sua crudezza ciò che avviene dopo il lungo processo di purificazione che viene coronato dall’uscita dall’Egitto: <infatti erano stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio> (Es 12, 39). Sembra proprio che l’esodo possa e debba cominciare in tutta la sua grandiosa drammaticità quasi per costrizione: come Israele era sceso in Egitto a motivo della costrizione della carestia, lascia l’Egitto perché – dopo essere stati a lungo trattenuti – i suoi figli vengono scacciati in tutta fretta. Con questa nota così chiara possiamo comprendere l’Esodo come un atto di obbedienza alla vita che manifesta le sue esigenze in un intreccio misterioso tra i nostri desideri e le nostre scelte e tutta una serie di spinte e di obbligazioni che sono fuori dalla nostra portata e dal nostro controllo e sembrano quasi costringere lo stesso Signore a piegarsi sulla storia per poterla poi dirigere verso un compimento di salvezza.

La prima lettura ci fa contemplare l’inizio dell’esodo dei figli di Israele cui si unisce, quasi conquistata da questa drammatica speranza di un futuro migliore per quanto tremendamente incerto, <una grande massa di gente promiscua> (Es 12, 38). Da parte sua, il Vangelo ci mette di fronte ad una dura constatazione: <i farisei uscirono e tennero consiglio contro Gesù per farlo morire> (Mt 12, 14). L’esodo del popolo di Israele, che risale dall’Egitto verso la terra dei padri, diventa così cifra dell’esodo del Signore da questo mondo al Padre con cui è stata aperta per tutti noi la strada della terra promessa e la porta del Regno. Come l’Egitto scacciando Israele sembra chiudersi alla condivisione di una storia di salvezza, così la chiusura dei farisei è come se permettesse a <molti> (12, 15) di seguire il Signore Gesù che <li guarì tutti>! Ogni cammino di liberazione è come un processo di guarigione per questo si rende necessaria la collaborazione attiva e generosa del malato oltre alla dedizione e alla capacità medica del terapeuta.

Proprio mentre l’evangelista rivela la chiusura del cuore dei farisei, ci fa sentire il profumo sottile di una promessa amorosa che nessun odio piò spegnere: <nel suo nome spereranno le nazioni> (Mt 12, 21). La speranza senza mai essere febbrile e precipitosa è, per sua natura, dolcemente affrettata per correre senza distrazione, né inutili rimandi verso il fine del proprio cammino. In ogni modo non si può e non si deve dimenticare che ogni processo per essere autentico e duraturo ha bisogno del tuo tempo: <La permanenza degli Israeliti in Egitto fu di quattrocentotrent’anni>. Questa constatazione temporale sembra stare particolarmente a cuore all’agiografo che sente il bisogno di riprenderla e di sottolinearla: <Al termine dei quattrocentotrent’anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dalla terra d’Egitto> (Es 12, 40-41). Da parte sua, l’evangelista annota con precisione e arguzia: <perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta…> (Mt 12, 17). Anche noi siamo in cammino e talora ci sentiamo costretti al cammino e quasi scacciati: diamo tempo al tempo e non perdiamo nessuna occasione per compiere il passo richiesto dalla vita che è sempre il passo necessario per la vita.

Pasqua

XV Settimana T.O. –

La lettura liturgica del libro dell’Esodo ci fa fare un salto di vari capitoli ed è come se ci portasse direttamente all’epilogo del lungo percorso di purificazione. Questo lungo processo è ritmato dalle “piaghe d’Egitto” attraverso cui il Signore Dio cerca di curare fino a guarire il popolo dell’Egitto che diventa simbolo del nostro stesso cuore bisognoso di essere liberato dalle malattie dell’anima. Perché questa guarigione possa realmente avvenire è necessario far suppurare il veleno di quell’egoismo che, chiudendoci agli altri, in realtà uccide il meglio di noi stessi: <Mosè e Aronne avevano fatto tutti questi prodigi davanti al faraone; ma il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone, il quale non lasciò partire gli israeliti dalla sua terra> (Es 11, 10). L’ostinazione rende necessario un di più di rivelazione che <è la Pasqua del Signore> (12, 12). Visto che i segni non convincono, allora è il passaggio del Signore che permetterà al popolo di vivere la Pasqua della libertà.

Nel Vangelo vediamo spuntare la categoria del <lecito> (Mt 12, 3) cui il Signore Gesù contrappone quella della libertà non come opposizione alla Legge. La libertà del cuore da ogni tendenza all’egoismo e al ripiegamento è il fine della pedagogia della Legge il cui filo conduttore dovrebbe formare le coscienze ad una libertà che si fa rispetto e promozione della libertà anche degli altri. Del resto, è proprio questo ciò che tutti i profeti continuano a ricordare tato da essere solennemente ripreso dal Signore Gesù: <Misericordia io voglio e non sacrifici> (12, 7). Il Signore Gesù non si presenta come un rivoluzionario anarchico, ma come Maestro della Legge che esige la capacità di essere maestri nella Legge che ha il compito di far crescere rettamente e armoniosamente la libertà di tutti che implica il dovere di una libertà per tutti.

Il primogenito è, letteralmente, “colui che fende il seno materno” per questo rappresenta la quintessenza del vigore dell’uomo e il mistero di una delle trasformazioni più radicali nella vita di una donna che è il passaggio verso la maternità. Con questo simbolo siamo richiamati al cuore stesso del Vangelo che è la capacità e la volontà di attraversare e vivere le continue e rinnovate pasque della vita per un di più di verità, di libertà, di gioia. In questo senso il Signore Gesù restituisce a tutti, a partire dai suoi discepoli, il senso della dignità di essere re come Davide e sacerdoti come quelli che officiano nel tempio e non semplici esecutori, o peggio ancora, vittime della Legge, ma, al contrario, protagonisti consapevoli di una storia di libertà e di pienezza. L’interrogazione fatta agli scribi e i farisei è valida anche per noi: <O non avete letto nella Legge…?> (12, 5). Ciò che il Signore ci richiede è la capacità di una lettura della Parola di Dio racchiusa nelle Scritture capace di andare oltre la semplice intelligenza del testo, per aprirsi ad un di più dell’intelligenza della vita che è sempre capacità di riconoscere e attraversare le inevitabili e necessarie pasque della vita: <Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore> (Es 12, 13).

Umiliazione

XV Settimana T.O. –

Il dialogo tra l’Altissimo e il suo servo Mosè non solo continua, ma si approfondisce ulteriormente mentre si chiarisce il contenuto e il modo della missione: <Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto> (Es 3, 16). Il Signore Dio non si accontenta di dare uno sguardo di sfuggita alla condizione dei suoi figli, ma il suo vedere fa tutt’uno con il suo decidere: <Vi farò salire dall’umiliazione> (3, 17)! Questa decisione fondamentale di Dio per la nostra vita raggiunge la sua pienezza di rivelazione e di esperienza in Cristo Gesù che va oltre. Invece di farci semplicemente <salire dall’umiliazione>, il Verbo eterno del Padre è sceso con noi e come noi nell’esperienza dell’umiltà più vera ed esigente che si fa invito a condividere la stessa sorte per maturare il medesimo stile di vita: <Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro> (Mt 11, 28). A questa promessa di consolazione e di refrigerio si accosta un invito chiaro e pressante: <Prendete il mio giogo sopra di voi> (11, 29).

Sembra che il Signore ci voglia dire che il peso talora insopportabile del giogo che siamo noi stessi per noi stessi, può essere radicalmente alleviato dal fatto di uscire da noi stessi e lasciare che il peso di Cristo sulle nostre spalle con la sua ineguagliabile leggerezza diventi la dima per rivedere e riconsiderare tutto ciò che ci è di peso nella vita e ci fa essere di peso per gli altri. Se i rabbini insistono sul giogo della Legge da portare con fedeltà e quasi da sopportare in silenzio, il Signore Gesù ci parla del giogo dell’amore che, per quanto pesante, è sempre e solo leggero. Quando il Signore Gesù ci invita a imparare da Lui ci chiede, appunto, di apprendere questa sapienza amorosa che si fa leggerezza coraggiosa senza mai rinunciare alle inevitabili esigenze – talora persino dure ed austere – che vengono dalla scelta di vivere secondo la logica del Vangelo.

Quando il Signore rivela a Mosè il suo nome: <Io sono colui che sono> (Es 3, 14) non fa altro che aprire il cuore del suo profeta e amico alla sorpresa quotidiana di una relazione che segna e trasforma l’esistenza. Va sottolineato che l’Altissimo non si accontenta semplicemente di presentarsi a partire dalla sua essenza ontologica, ma subito chiarisce il suo intento salvifico e per questo aggiunge: <Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi>! Così l’essenza della vita di Dio invece di isolarLo in una divina e inviolabile beatitudine si rivela nel suo compromettersi appassionatamente con l’esperienza dei nostri cammini e, prima di tutto, con la fatica che sperimentiamo a motivo delle umiliazioni che la vita ci impone e che, talora, imponiamo a noi stessi. Dinanzi alla nostra fatica di vivere e di sperare sempre l’Altissimo rinnova la sua decisione di compromettersi fino in fondo e senza risparmio: <Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo di che egli vi lascerà andare> (3, 20). Questa decisione si rinnova e si radicalizza nella parola e nel dono pasquale del Signore Gesù: <Sono mite e umile di cuore> (Mt 11, 29).

Rivelazioni

XV Settimana T.O. –

La memoria della rivelazione del nome e della vita di Dio a Mosè nel deserto del Sinai ci riporta al mistero delle “rivelazioni” di Dio che se sono parte del bagaglio della nostra memoria credente sono, al contempo, la nostra speranza per ogni passo futuro della nostra esistenza e del combattimento della nostra fede. Se l’Altissimo si rivela a Mosè come <Io sono> si rivela in Gesù come Dio <Amore> (1Gv 4, 8). L’Altissimo si rivela a noi nel dono della creazione che continua in ogni intervento di ri-creazione che noi chiamiamo esperienza di redenzione e di liberazione proprio nella logica di quell’esodo guidato da Mosè il quale continua nella storia di ogni popolo, di ogni uomo e donna in ogni tempo e in ogni luogo. Davanti alla fatica di Mosè chiamato ad entrare in una relazione salvifica capace di farsi mediazione di salvezza, la parola dell’Altissimo è una rassicurazione di presenza: <Io sarò con te> (Es 3, 12). La presenza di Dio nella nostra vita che si fa sua sensibilità alla nostra vita è motivo di esultazione e di lode per il Signore Gesù: <perché ai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli> (Mt 11, 25).

Questa parola di Gesù è incandescente quanto e come il roveto che <ardeva> ma <non si consumava> (Es 3, 2). Il Signore >ci fa percepire quale sia stato l’esodo interiore vissuto da Mosè che lo rese capace di farsi mediazione di salvezza per tutto il popolo: riconoscere la vanità della propria sapienza per assumere la realtà e la sfida di essere uno dei <piccoli> (Mt 11, 25) cui è data la grazia di sperimentare la salvezza che viene dall’Altissimo e che ci fa passare da un servizio schiavizzante – come quello imposto al popolo dal Faraone – ad un servire Dio liberante <su questo monte> (Es 3, 12). Il monte abitato da Mosè diventa un luogo di appuntamento per ricevere la Legge che libera dall’abuso di un potere assoluto e irrispettoso e lo ritroviamo come il <monte> (Mt 5, 1) da cui il Signore Gesù proclama le beatitudini ed apre il cuore dei suoi discepoli ad una comprensione ancora più ampia ed esigente della Legge data per mezzo di Mosè.

La lucidità sulla realtà testimoniata dalle parole benedicenti di Gesù è una promessa ed una forma di salvezza. La salvezza passa sempre attraverso la relazione: <Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo> (Mt 11, 27). La parola rivolta a Mosè <Io sarò con te> (Es 3, 12) si è fatta carne in Gesù prendendo i tratti di una compagnia quotidiana che fa della nube dell’esodo una presenza continua nella vita di ogni uomo e di ogni donna. Si dice che l’Altissimo si è rivelato a Mosè <mentre stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero> (3, 1) e il volto di un Dio che cammina con noi si rivela continuamente nella prossimità ancora più forte del Signore Gesù che si fa compagno di ogni strada. Gesù nostro Salvatore e ci chiede di farci compagni di vita per ogni uomo e sorella perché la salvezza possa essere sperimentata veramente da tutti. Per questo e a partire da questo ognuno di noi è chiamato a diventare per l’altro <angelo del Signore> (3, 2).

Giudizio

XV Settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù sembrano non lasciarci tregua: <nel giorno del giudizio, la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te> (Mt 11, 24). Il giudizio del Signore riguarda sempre la nostra capacità o meno di aprirci ad un’accoglienza dell’altro il cui primo passo e il cui primo segno è quello di dare credito alla parola che, proprio attraverso l’altro, scuote ed interpella il nostro cuore talora troppo duro e troppo chiuso. L’evocazione della città di Sodoma è cifra di tutte quelle realtà chiuse in se stesse e su se stesse tanto da diventare insensibili alla vita e persino una minaccia di vita per chi ha bisogno di <compassione> (Es 2, 6) e di cura. L’icona della figlia del faraone è una luce di speranza assieme a quelle altre donne (le due levatrici, la madre e la sorella) che in un modo o nell’altro salvano e custodiscono la piccola vita di Mosè chiamato a salvare la vita di molti altri piccoli, poveri, oppressi, minacciati nella stessa possibilità di sopravvivere alle angherie del faraone. La memoria di una salvezza assicurata dalla compassione come sensibilità alla bellezza (2, 2) è incisa a fuoco nel cuore e nell’inconscio di Mosè che non può sopportare l’ingiustizia fino a mettersi in un certo modo contro la “giustizia”.

Il <giudizio> di cui parla il Signore Gesù è profetizzato dal modo in cui Mosè si lascia toccare fino a farsi intimamente interpellare dalla sofferenza degli altri. Eppure, la compassione stessa deve crescere, maturare e purificarsi per non cadere, pur con le migliori intenzioni, nella logica stessa che domina la mentalità di <Sodoma>. Così la prima lettura ci mette di fronte a quelle che potremmo definire le nascite di Mosè: la prima è quella che avviene nel segreto e nello stupore della sua famiglia in cui ciò che è <bello> viene tenuto <nascosto per tre mesi>. Poi avviene la nascita attraverso le sponde da parto del fiume Nilo che porta il cestello tra le braccia della figlia del faraone che si prende cura di un <piccolo> che <piangeva> (2, 6) e gli assicura la vita. Una volta <cresciuto in età> (2, 11) Mosè deve nascere ancora una volta attraverso una maturazione di consapevolezza la cui passione che si fa violenza. Lo stesso Mosè avrà bisogno di un tempo di ulteriore crescita interiore che lo porterà dal farsi giustizia ad essere garante di ciò che è giusto a partire non da se stesso ma confrontandosi con le Dieci Parole di Dio. Per questo <fuggì lontano dal faraone e si fermò nel territorio di Madian> (2, 15).

I segni operati da Gesù sono per la conversione e non per la condivisione di un potere. La compassione è inizio e indizio di autentica conversione il cui cammino è eminentemente personale tanto che nessuno può percorrerlo al posto di un altro. L’immagine, peraltro così poetica, riportata dall’Esodo può diventare simbolo di ciò che è richiesto a ciascuno di noi per non cadere nella logica di Sòdoma: <Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella vide il cestello…> (Es 2, 5). Si tratta ogni giorno di scendere verso le sponde del grande fiume della storia per avere occhi e cuore per tutto ciò che è <piccolo> (2, 6) e ha bisogno della nostra compassione e della nostra cura.

Profeta

XV Settimana T.O. –

Ad introdurci nella lettura liturgica del libro dell’Esodo è una parola forte del Signore Gesù: <Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto> (Mt 10, 41). Il dramma dell’esodo con tutte le sofferenze e il sangue che saranno necessari nel processo di liberazione del popolo sembrano scatenarsi proprio dall’incapacità del nuovo Faraone di accogliere la profezia di una presenza come quella del popolo di Israele che cresce in mezzo agli Egiziani, ma non necessariamente li minaccia. Il testo comincia con una nota che non va mai dimenticata lungo la lettura dell’esodo: <sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe> (Es 1, 8). La figura e la storia di Giuseppe sono memoria continua di come nessuno è autosufficiente né le persone né i popoli! Il figlio di Giacobbe è accolto in Egitto e, in un certo senso, viene salvato dall’accoglienza del sovrintendente del Faraone e dal Faraone stesso, ma è lui che subito dopo salverà il popolo dell’Egitto dalla carestia.

La parola del Signore Gesù che getta le basi e dà le regole di una sana e fruttuosa evangelizzazione diventa la chiave di lettura per ogni reale cammino di integrazione e di vicendevole solidarietà: <Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa> (Mt 10, 42). Eppure, questo non è affatto possibile se si perde la memoria tanto da trasformare il bicchiere d’acqua da offrire in una minaccia di morte tanto che <Il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: “Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere ogni femmina”> (Es 1, 22). La violenza, che faraone usa contro i piccoli di un popolo già oppresso dalla schiavitù e dall’eccesso di fatica, diventa nelle parole del Signore Gesù una <spada> (Mt 10, 34) che non deve mai essere usata contro alcuno se non contro se stessi per discernere in modo così autentico da saper anche rinunciare: <Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia la troverà> (10, 39).

Essere <degno di me> (10, 37) non ha niente a che vedere con una purità di ordine puritano, ma è il segno di una disposizione profonda e fattiva ad agire nella stessa linea e nella stessa logica del Vangelo in una capacità piuttosto a dare che non a prendere la vita. Quando, prima della comunione, ripetiamo le commosse parole del centurione: <… io non sono degno…>, dobbiamo sempre ricordarci che questo ci riporta più che all’impedimento dei nostri peccati e delle nostre fragilità, alla grande fatica quotidiana di conformare la nostra vita alle esigenze di donazione che ci vengono dal Vangelo. Quando si entra in questa obbedienza evangelica nulla può rimanere come prima ed è del tutto naturale sperimentare il prezzo salato di una <pace> (Mt 10, 34) che germoglia nello stesso solco della <croce> (10, 38). Come spiega padre Carré bisogna ricordare che <la parola croce non indicava prima di tutto il supplizio degli schiavi ma, con l’utilizzazione di una lettera ebraica a forma di croce – il tau francescano che conosciamo noi! – rappresentava una nota, una sorta di sigillo. Come quando si mette una croce per segnare un oggetto e riempire le caselle di un questionario. Ogni volta che ci segniamo o segniamo con il segno della croce ricordiamo di doverla portare sulle nostre spalle, ma questo segno indica la liberazione, il perdono, la salvezza ed è un invito a rendere grazie nella gioia>1.


1. A.-M. CARRÉ, Tout m’est buisson ardent, Cerf, Paris 1997, p. 126.