Pregato

XIX settimana T.O. –

La reazione del padrone con il servo di cui ha avuto pietà risuonano anche nel nostro cuore come sottile rimprovero che ci ammutolisce: <Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato> (Mt 18, 32). Il seguito del testo dà a questa parola del Signore Gesù un peso importante perché la pone come conclusione di una sezione del vangelo secondo Matteo: <Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano> (19, 1). Il lungo e articolato cammino che il Signore Gesù fa fare ai suoi discepoli per prendere coscienza di quella che è la logica in cui vivere i loro rapporti fraterni e che fa della Chiesa un vero e delicato laboratorio di umanità, termina con un rimando alla vita interiore e più specificatamente alle condizione e alle conseguenze della nostra preghiera. Come il popolo varca le porte della terra promessa attraversando il Giordano, così il Signore – sempre attraverso il Giordano – entra in Giudea avvicinandosi così al suo mistero pasquale in cui l’Innocente si farà icona del Padre che ama fino alla fine e per questo non può che perdonare oltre ogni fine.

Nella preghiera, infatti, presentiamo al Padre quelle che sono le nostre necessità e, ancor più spesso, mettiamo davanti a Lui le nostre fragilità e le nostre impotenze. Proprio nella preghiera ci è dato di fare esperienza non sempre di essere esauditi – almeno per quelle che sono le nostre aspettative immediate e i nostri tempi di realizzazione immediata – ma sempre facciamo esperienza di essere accolti. Secondo la parola del Signore Gesù tutto ciò dovrebbe dare al nostro cuore una capacità crescente di fare altrettanto con i nostri fratelli e sorelle in umanità. Per questo persino quando non possiamo esaudire, dobbiamo sempre accogliere il mistero della debolezza e del bisogno dell’altro che si fa preghiera: <Abbi pazienza con me e ti restituirò> (18, 29).

Nella vita di ciascuno di noi, come discepoli, e nella missione della Chiesa quale segno di salvezza per l’umanità, tutta la preghiera che si fa perdono radicale in quanto ci aiuta ad assumere fino in fondo la realtà impotente dell’altro si fa rivelazione. Si tratta di una rivelazione di presenza – quella di Dio – che ci strappa alle nostre paure di proseguire e osare nonostante tutto il viaggio nelle terre sempre sconosciute e un po’ selvagge della relazione. La parola che il Signore Dio rivolge a Giosuè, alla vigilia del passaggio del Giordano che segna la fine dell’esodo e l’inizio della sedentarizzazione nella terra promessa, può valere ogni volta che osiamo entrare nella terra – necessariamente diversa – della relazione con l’altro: <Da ciò saprete che in mezzo a voi vi è un Dio vivente…> (Gs 3, 10). Il popolo di Israele si aspetta che Dio scacci tutti gli altri proprio come noi ci auguriamo di non doverci confrontare troppo con gli altri. Per questo, attraverso la preghiera, impariamo ad assumere l’atteggiamento di Dio stesso che condona a tutti a ciascuno il <debito> (Mt 18, 32) della propria realtà umana normalmente per quanto diversamente povera e indigente. L’arca che i sacerdoti introducono nella terra degli altri per renderla santa e riconosciuta come ormai la propria, può essere assunta quale simbolo di quel lavoro quotidiano della preghiera in cui impariamo a perdonare <di cuore> (18, 35) dopo aver sperimentato il dono incommensurabile di essere stati perdonati più che di cuore dal Padre. 

Accordare!

XIX settimana T.O. –

La parola del Signore Gesù su quella che comunemente chiamiamo “correzione fraterna” porta, in realtà, alla luce il legame indissolubile che la creazione ha istituito tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e il cosmo. La parola del Signore rivolta a tutti <i suoi discepoli> risuona forte e chiara: <tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo> (Mt 18, 18). Si può certamente fondare su questo versetto la necessaria potestà che si esercita competentemente nella Chiesa, ma su questa parola solenne del Signore affonda le sue radici la verità di ogni relazione non solo col <fratello> (18, 15) ma col cosmo intero. Ciò che si fa all’altro, ciò che si vive con l’altro, ciò che si affronta per l’altro non si risolve <sulla terra> ma ha la sua conseguenza e, per certi aspetti, raggiunge la sua pienezza di senso <in cielo>. Un monaco così commenta l’imprescindibile legame che intercorre tra Cristo e la Chiesa, tra ciascuno e ogni suo simile: <Tutto è comune tra lo Sposo e la sposa: l’onore di ricevere la confessione e il potere della remissione. Come Sposo umile e fedele, non vuole fare niente senza la sposa. Guardati bene dal separare il capo dal corpo; non impedire a Cristo di esistere interamente; perché Cristo non è mai intero senza la Chiesa, e nemmeno la Chiesa lo può essere senza Cristo. Cristo totale, integro è il capo e il corpo>1. Di questa integrità siamo tutti responsabili e artefici attraverso la correzione e il perdono.

Partendo da questo orizzonte prima che arrogarsi il diritto di ammonire l’altro in tanti modi è necessario premunirsi dal rischio di pensare che persino le realtà che vanno affrontate <fra te e lui solo> (18, 15) hanno una conseguenza <in cielo> e quindi una valenza eterna e che riguarda tutti e tutto perché aumenta o impoverisce quell’armonia che è principio e condizione della vita piena. Il Signore ci assicura solennemente che <se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà> (18, 19). Ac-cordarsi per chiedere nella preghiera non può che essere il segno e il frutto di una con-cordia nel vivere fino a <dare la vita> (Gv 15, 13). E questo è possibile solo – come ama ripetere Chiara Lubich – se accettiamo e amiamo di mettere di <mezzo> (Mt 18, 20) e al centro assoluto delle nostre relazioni umane il Signore Gesù e la sua logica pasquale. In questa medesima logica: <Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab…> (Dt 34, 5) in adempimento sereno della terribile parola: <Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!> (34, 4).

Eppure, la morte di Mosé non crea, per molti aspetti, nessun vuoto, ma subito <Giosué figlio di Nun> (34, 9) è in grado di prendere il suo posto e di assicurare serenamente la continuazione e il coronamento dell’esodo. Il grande Mosè <con il quale il Signore parlava faccia a faccia> (34, 10) ha vissuto con-cordemente non solo con Dio ma anche con Giosué il quale <era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui> (34, 9). Mosè occupa interamente il suo posto e onora il suo ruolo ma con la grande capacità di essere serenamente sostituibile perché assolutamente accordato sulla volontà di Dio come fosse uno strumento musicale nella mani dell’artista. Forse il grande dramma che si nasconde sotto ogni <colpa> (Mt 18, 15) che rompe la comunione è proprio la fatica ad accordare lo strumento del nostro cuore prima di farlo suonare e talora, ahimé, stonare!


1. ISACCO DELLA STELLA, Omelie, 11, 13.

Cammina

XIX settimana T.O. –

La promessa con cui il Signore Dio sigilla la sua storia con il popolo appena salvato suona in questi termini: <perché il Signore, tuo Dio, cammina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà> (Dt 31, 6). Questo è il testamento spirituale di Mosè e questo sarà il testamento del Signore Gesù alla fine del vangelo di Matteo: <Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo> (Mt 28, 20). Pertanto, questa promessa diventa ancora più chiara alla luce delle parole dello stesso Signore Gesù nel vangelo di quest’oggi in cui si incrociano due discorsi. Il primo verte sull’accoglienza del Regno con in cuore l’atteggiamento di un <piccolo> (Mt 18, 4). Il secondo ci riporta all’immagine stupenda del buon pastore che si fa rivelazione del cuore stesso di Dio: <Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda> (18, 14). Sant’Ambrogio così supplica: <Vieni, senza farti aiutare, senza farti annunciare; ora, sei tu che io attendo. Non prendere la frusta. Prendi il tuo amore; vieni con la dolcezza del tuo Spirito. Non esitare a lasciare sui monti queste tue novantanove pecore. Sulle cime dove le hai poste, i lupi non hanno accesso>[1].

Mettendo insieme le suggestioni di questi testi possiamo dire che non abbiamo nulla da temere perché il Signore non solo cammina con noi, ma continuamente cammina pure davanti a noi e, come il buon pastore che va in cerca della pecora perduta, non solo ci fa strada, ma adatta il suo passo a quello della pecora più lenta… al passo del più <piccolo>. Proprio come quando si va a passeggio con un bambino si è naturalmente portati a seguire il suo ritmo per renderlo felice e insegnargli a gioire del fatto di poter camminare. Così il Signore si comporta con ciascuno di noi. Mentre Mosè si rende conto di avere portato a compimento la sua missione presso il popolo non trova da dire altro se non questo: <Io oggi ho centovent’anni. Non posso più andare e venire…> e aggiunge che se egli non potrà attraversare il Giordano con il popolo nondimeno <Il Signore, tuo Dio, lo attraverserà davanti a te> (Dt 31, 1-3).

Le parole che Mosè rivolge al titubante Giosuè sono rivolte, in realtà, a tutti i piccoli: <Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo> (31, 8). Come fanno notare i rabbini, nelle Scritture l’invito a non temere e ad avere fiducia ricorre per 365 volte, una per ogni giorno dell’anno! Non temiamo di essere piccoli, non temiamo neppure i nostri inevitabili e talora necessari smarrimenti, il Signore ci cerca, ci trova, ci consola… non abbiamo che da fidarci fino ad affidarci. Questa esperienza di un Dio che cammina non solo con noi, ma persino davanti a noi non solo dovrebbe radicalmente rassicurarci, ma pure dovrebbe darci la forza e la gioia di condividere questo dono di consapevolezza di una radicale compagnia con tutti coloro che fanno strada con noi.


1. AMBROGIO, Commento al Salmo 118, 22, 27.

Insieme

XIX settimana T.O. –

Il Vangelo si apre con una nota che non va sottovalutata: <mentre si trovavano insieme in Galilea> (Mt 17, 22). Le cose importanti avvengono quando si sta insieme e sono da accogliere e da riflettere insieme nella speranza risoluta di poter prendere in modo condiviso delle decisioni come pure di onorarle nel concreto della vita. L’annuncio della passione è qualcosa di importante che esige la presenza di tutti come quando si fa un annuncio importante in una famiglia. Ed è questa comunione che permette poi di accogliere insieme la sfida di quanti <riscuotevano la tassa per il tempio> (17, 24). Il Signore Gesù non reagisce alla richiesta circa la tassa da pagare da solo, ma fa appello a Simon Pietro con cui sembra voler condividere il rischio di una risposta che è, volutamente, condivisa: <Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?> (17, 25). 

Un lungo cammino è necessario per sentire e portare le conseguenze di ciò che viene ricordato dal Deuteronomio: <Ecco, al Signore, tuo Dio, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene> (Dt 10, 14). Questo senso della maestà e della magnificenza di Dio dovrebbe renderci capaci di relativizzare radicalmente tutti i nostri “mercatini religiosi” sia interiori che esteriori. Nel Deuteronomio viene continuamente insistita l’esortazione a ritrovare e ritornare all’essenziale: <Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra cervice> (10, 16). A questa parola sembra fare eco quella del Signore Gesù: <Ma per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce viene su…> (Mt 17, 27). Sembra proprio che il Signore Gesù ci rammenti la necessità di non complicare la vita agli altri mettendo in crisi inutilmente le loro credenze da cui traggono le loro sicurezze.

Nondimeno, il Signore Gesù pur pagando la tassa per il tempio non tace la verità che va ricordata persino alle orecchie di quanti amministrano le cose di Dio: <Quindi i figli sono liberi> (17, 26). Proprio perché questa libertà sia un’esperienza condivisa da tutti e quasi rischiata continuamente insieme: <Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini> (17, 22). È come se gli esattori del tempio comparissero dal nulla e, invece, sono là a ricordare al Signore e ai suoi discepoli che la <tassa> (17, 24) da pagare non sarà altro che la sua stessa vita donata come offerta testimoniale di quanto ogni uomo e donna siano chiamati a libertà. Il dono della libertà non può mai essere un privilegio, ma è sempre un dono da condividere tanto che il Deuteronomio ammonisce severamente: <Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto> (Dt 10, 19). Immenso dono quello della libertà, che ogni giorno va riconquistato e vissuto in piena armonia con tutti coloro che condividono il nostro cammino sulla terra e che esige una bella complicità con la natura: <vi troverai una moneta d’argento>!

Coraggio

XIX Domenica T.O.

Siamo come bambini cui è stata fatta una promessa e che attendono il ritorno della mamma o del papà in attesa di scoprire concretamente di quale dono si tratti. L’unica cosa che i bambini, a cui è stata fatta la promessa di un dono, non riescono a pensare – anche quando nell’attesa ciondolano dal sonno – è che il papà non torni e che la promessa si possa rivelare, in realtà, un inganno: <siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito> (Lc 12, 36). All’immagine dei bambini che attendono fiduciosi il concretizzarsi delle promesse, il Vangelo accosta quella di servi che – in una gioia contagiosa – attendono trepidi il ritorno del loro padrone dalle nozze. Del resto, cosa mai non si è capaci di dare quando si è innamorati e si vive l’ebrezza di un amore coronato, in questa attesa fatta di certezza irremovibile? Alla fine, è molto difficile distinguere se la cosa più importante sia il dono atteso o la conferma che ci si può fidare della parola di chi si è legato a noi nell’alleanza di una promessa scambiata, tanto da non poter minimamente dubitare della sua parola. Noi tutti, sin dalla più tenera età e talora fino al penultimo respiro, ci dibattiamo in questo combattimento della fiducia nell’altro, questa fiducia è l’anima dello stesso combattimento della fede come promessa di compimento: <Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno> (Lc 12, 32).

La fede di cui si parla nella seconda lettura è il viaggio di cui si parla nella prima. Ma come dimenticare che la fede non è qualcosa che riguarda noi, ma che è riguarda prima di tutto e soprattutto Dio stesso? È come quando si parte in montagna: i nostri cammini sono sempre incerti, faticosi e, non raramente, si ha la tentazione di fermarsi. Nondimeno, la certezza che la montagna non si sposti e resti dove è ad attenderci, dà la sicurezza della meta all’incerto e faticoso cammino.  Se le montagne si spostassero… allora la cosa sarebbe disperante perché ogni passo potrebbe rivelarsi inutile fino ad esasperare ogni speranza di poter raggiungere la meta. La Sapienza esorta ardentemente facendo memoria: <La notte della liberazione fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà> tanto che <i figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli> (Sap 18, 6.9).

Di questi <successi e pericoli> troviamo un’evocazione litanica nel capitolo undecimo della Lettera agli Ebrei di cui leggiamo una parte nella liturgia di questa domenica. La cifra riassuntiva di Abramo, come archetipo dell’uomo di fede, è che <Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso> (Eb 11, 10). È in questa fiducia irremovibile nella promessa di un altro che si basa la capacità di attendere e di vegliare. L’invito alla fiducia del Signore è un invito alla laboriosità e alla veglia festosa e serena poiché <A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più> (Lc 12, 48). Ci trovi il Signore al posto del nostro desiderio e, nel frattempo, vigiliamo e lavoriamo perché esso trovi il suo giusto posto nel quotidiano <coraggio> dell’esodo quotidiano.

Courage

XIX Dimanche T.O. –

Nous sommes comme des enfants à qui l’on fait une promesse et qui attendent le retour de la maman ou du papa pour découvrir concrètement de quel cadeau il s’agit. La seule chose dont les enfants, à qui l’on à promis un cadeau, n’arrivent pas à penser – même si pendant l’attente ils tombent de sommeil – est que le papa ne revienne pas et que la promesse se révèle être, en réalité, une plaisanterie : « soyez semblables à ceux qui attendent leur maître lorsqu’il revient des noces, afin que, lorsqu’il arrive et frappe à la porte, vous lui ouvriez tout de suite » ( Lc 12, 36 ). A l’image des enfants qui attendent avec confiance la concrétisation des promesses, l’Evangile fait référence à celle des serviteurs qui – dans une joie contagieuse – attendent anxieusement le retour des noces de leur maître. D’ailleurs que n’est-on capables de donner lorsque l’on est amoureux et que l’on vit l’enivrement d’un amour partagé, dans cette attente faite de certitude inébranlable ? A la fin, il est très difficile de distinguer si la chose la plus importante est le don attendu ou la confirmation que l’on peut se fier à la parole de celui qui s’est lié à nous par l’alliance d’une promesse échangée, jusqu’à ne pas pouvoir douter, même un peu, de sa parole. Nous tous, depuis notre plus jeune âge et forcément jusqu’à notre dernier souffle, nous nous débattons dans ce combat de la confiance dans l’autre, cette confiance est l’âme du même combat de la foi comme promesse d’accomplissement : «  Ne crains rien, petit troupeau, car il a plu à votre Père de vous donner le Royaume » ( Lc 12, 32 ° ;

La foi dont nous parle la seconde lecture est le voyage dont l’on parle dans la première. Mais, comment oublier que la foi n’est pas quelque chose qui nous regarde personnellement, mais qui concerne d’abord et surtout Dieu lui-même ? C’est comme lorsque l’on part en montagne : nos chemins sont toujours incertains, difficiles et l’on a souvent la tentation de s’arrêter. Pourtant, la certitude que la montagne ne se déplace pas et reste là à nous attendre, renforce la sécurité de l’incertain et difficile chemin qui mène au but. Si les montagnes se déplaçaient…alors les choses seraient désespérantes car chaque pas pourrait se révéler inutile jusqu’à exaspérer toute espérance de pouvoir rejoindre le but. La Sagesse exhorte ardemment en nous rappelant : «  la nuit de la libération fut prédite à nos pères, pour qu’ils aient le courage, sachant bien par quelles promesses ils avaient prêté fidélité » car «  les fils saints des justes offraient des sacrifices en secret et s’imposaient ensemble cette loi divine : partager de la même manière les succès et les dangers » ( Sag 18, 2, 9 ).

De ces «  succès et dangers » nous trouvons une évocation dans la litanie du  onzième chapitre de la Lettre aux Hébreux dont nous lisons une partie dans la liturgie de ce dimanche. Le résumé de la nombreuse descendance d’Abraham en tant qu’archétype de l’homme de foi, est que «  Ils attendaient en fait la ville d’une fondation solide, dont l’architecte et le constructeur est Dieu lui-même » ( He 11, 10 ). C’est dans cette confiance inébranlable de la promesse d’un autre que se base la capacité d’attendre et de veiller. L’invitation  du Seigneur à la confiance, est une invitation à l’assiduité et à la veille festive et sereine  car «  A celui qui a reçu beaucoup, il sera demandé beaucoup ; à celui à qui l’on aura confié beaucoup, l’on demandera beaucoup plus » ( Lc 12, 48 ). Que le Seigneur nous trouve à la place de notre désir, et, en même temps, veillons et travaillons afin que le «  courage » de l’exode quotidien y trouve aussi, chaque jour, sa place.          

Benedetta

Santa Teresa Benedetta della Croce –

La scelta della Liturgia ci aiuta non solo a contestualizzare, ma pure ad aprire nuovi orizzonti di comprensione all’esperienza umana e spirituale di Teresa Benedetta della Croce che non ha mai smesso, nonostante l’assunzione del nome monastico, di essere fino in fondo Edith Stein. Il testo del profeta Osea è una chiave di lettura per intuire il mistero di una vita travagliata e di una ricerca intellettuale tanto rigorosa quanto capace di rinunciare a se stessa per amore non servile ma sponsale della verità: <Ecco, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto> (Os 2, 16-17). Sicuramente questa parola è stata vissuta in pienezza dalla martire Edith Stein nel momento della sua immolazione condivisa con milioni di ebrei saliti verso il Signore attraverso le ciminiere dei forni crematori. Chissà se il fumo di questi forni di disumanità saliva diritto verso il cielo senza subire tentennamenti dovuti ai venti come avveniva per l’olocausto perenne offerto nel Tempio? È più probabile che il fumo dei forni crematori salisse al cielo in modo assai più vorticoso di quello del Tempio.

Ma ogni martirio, ogni testimonianza di vita piena e consapevole, non può mai essere improvvisato come non s’improvvisa mai l’amore, ma lo si prepara remotamente. Allora possiamo ben immaginarci Teresa Benedetta della Croce come una delle cinque vergini sagge che <insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi> (Mt 25, 4). Non si può improvvisare l’amore, non si può improvvisare la vita, non si può improvvisare la “martyrìa” se non vogliamo rimanere fuori dalla <porta> (25, 10). Tutta la nostra vita è una lenta crescita nella capacità di fare della nostra esistenza una risposta esistenziale alla chiamata di Dio. Il primo passo perché questo possa avvenire è, certamente, la disponibilità piena a lasciarsi interrogare autenticamente senza sottacere nessuna domanda che viene posta dentro e fuori di noi. La filosofa autentica che fu Edith Stein fu la remota e degna preparazione della discepola Teresa Benedetta della Croce fedele a se stessa, a Dio, al suo popolo e all’umanità fino alla fine.

Come ricorda Giovanni Paolo II: <L’incontro di Edith Stein col cristianesimo non la portò a ripudiare le sue radici ebraiche, ma piuttosto gliele fece riscoprire in pienezza. In realtà, tutto il suo cammino di perfezione cristiana si svolse all’insegna non solo della solidarietà umana con il suo popolo d’origine, ma anche di una vera condivisione spirituale con la vocazione dei figli di Abramo, segnati dal mistero della chiamata e dei “doni irrevocabili” di Dio (cfr Rm 11, 29)>[1]. Ciò che è stato vissuto da questa donna, pienamente donna che seppe fare del pensiero un luogo di conversione, siamo chiamati a viverlo anche noi facendoci sensibili all’appello del Signore che ci scuote dal nostro sonno domgatico-esistenziale: <Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora> (25, 13).


1. GIOVANNI PAOLO II, Spes aedificandi, § 9

Litigare

XVIII settimana T.O. –

Dopo il pane la cui mancanza era stata drammaticamente lamentata dal popolo nella lettura di ieri, ecco che ci troviamo davanti alla mancanza di <acqua> (Nm 20, 2). Questa penuria sembra essere aggravata dalla morte e dalla sepoltura di <Maria> (20, 1) il cui nome evoca il mistero materno e generante delle acque come pure è un ricordo perenne delle acque compassionevoli del Nilo nella cui corrente aveva custodito il cestello che portata, come in una tomba-culla, il suo bellissimo fratello che, salvato dalle donne, avrebbe salvato tutti. La morte di Maria è come se esasperasse il popolo che si scaglia <contro Mosè e contro Aronne> (20, 3). Il popolo, esasperato dal difficile apprendistato di una vita nuova fuori dalle coordinate schiavizzanti ma rassicuranti dell’Egitto, pensa di prendersela con Mosè e Aronne e, invece, quasi inconsapevolmente a motivo della cecità proprie dell’angoscia e della paura <litigarono con il Signore> (20, 13) cui non resta che una dura decisione: <voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do> (20 12).

Se nella prima lettura assistiamo ad un litigio che ha gravi conseguenze, nel Vangelo le cose non sono certo meno gravi. La reazione alla reazione di Simon Pietro ci addolora e ci interpella poiché ci viene del tutto naturale comprendere le parole e i sentimenti protettivi dell’apostolo. La risposta del Signore alle “cure” di Simon Pietro suona come una lama affilatissima: <Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!> (Mt 16, 23). Il popolo esasperato dalla lunga marcia nel deserto in attesa di poter godere di una libertà che, in realtà, si rivela tutta ancora da costruire, e i discepoli attorno al Signore Gesù che sono chiamati a comprendere il suo mistero pasquale tutto ancora da scoprire sono per noi un monito a rimetterci ancora in cammino, con umiltà e con pazienza.

Come ricorda Joseph Stricher: <Col passare del tempo e nel cammino che porta dal primo al secondo Testamento, la nozione di Figlio di Dio si affina. Così finisce per indicare Gesù nella sua realtà più alta, nel suo stretto legame al Padre. Ma evoca ugualmente la dignità dei credenti, diventati in Cristo Gesù figli adottivi di Dio>. Per accogliere il dono dell’acqua, per riconoscere il Gesù il Cristo, è necessario scavare un vuoto perché il dono sia accolto e condiviso senza mai pensare di controllarlo e dirigerlo a nostro piacimento. La <pietra> (Mt 16, 18) che Simon Pietro diventa per il mistero e il ministero della Chiesa prima di essere pietra di fondazione è pietra fondata su un’intuizione di verità che esige il cammino di discepolanza fino alla fine per essere non più solo intuitiva, ma esistenziale. Questo processo ineludibile comporta anche momenti di fatica, di incomprensione e persino di litigio. I testi della Liturgia non ci tramandano né la reazione del popolo né, tantomeno, quella di Simon Pietro e questo forse perché sono molto più interessati alla nostra reazione.

Estasi?

Trasfigurazione del Signore –

Un testo di Raniero Cantalamessa ci fa cogliere tutta la portata del mistero della Trasfigurazione nella sua duplice dimensione di eccezionalità e di estrema quotidianità: <In quel giorno il Signore andò in estasi! Quella dell’estasi sembra essere la categoria meno adeguata per descrivere ciò che il Signore ha vissuto sul Tabor. Si tratta, infatti, di un’estasi particolare perché, di fatto, Gesù è l’unica persona che non ha bisogno di “uscire da sé” per entrare in Dio. Si potrebbe dire che si tratti di una sorta di cortocircuito interiore tra divinità e umanità. L’”isolante” che era la sua carne umana per così dire si è fuso tanto da diventare energia e luce. […] Tutto il torrente di gioia debordò allora dal vaso che è l’umanità di Cristo>1.

L’estasi di Adamo nella creazione di Eva raggiungerà il suo compimento nell’estasi del Crocifisso che ricrea la nostra umanità in un’estasi amorosa in cui piacere e dolore si mescolano senza negarsi e indicando così la strada per ciascuno di noi che siamo chiamati ad entrare nel medesimo dinamismo pasquale di trasfigurazione senza temere nessuna defigurazione necessaria. La festa della trasfigurazione è un tripudio dei sensi che ci rendono capaci attraverso il corpo di percepire la forza dell’elemento spirituale che ci abita e ci anima. Dalla vista all’udito fino al “tocco” finale di una strabiliante intimità: <E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro> (Mc 9, 8). Proprio in forza di questa esperienza di intimità siamo chiamati ad essere <testimoni oculari della sua grandezza> (1Pt 1, 16) attraverso una vita capace di farsi illuminare dalla grandezza di Dio che vuole manifestarsi attraverso la pienezza del nostro essere <a sua immagine> (Gn 1, 26).

Il Padre proclama il Figlio come <l’amato> (Mc 9, 7) e con questo incontenibile bisogno di esprimersi Dio manifesta la sua essenza che è l’amore che lo rende eternamente innamorato e per questo capace di trasfigurare in ammirazione tutto ciò che vede e tutto ciò che – col suo sguardo creatore – tocca. Avere occhi illuminati significa avere un cuore innamorato che trasfigura ogni cosa riportando ogni frammento di creazione e, soprattutto, di umanità al suo originale divino splendore. Anche noi siamo invitati come il profeta Daniele a continuare a <guardare> (Dn 7, 9) proprio perché <tenendo fisso lo sguardo su Gesù> (Eb 12, 2) il nostro modo di vedere si muti nel modo di vedere di Dio. Come scrive Lev Gillet, facendo eco a tutta la tradizione: <Se sei stato per molto tempo a fissare il sole, la tua retina si è bruciata, e ovunque guardi vedi una macchia nera. Se sul monte della trasfigurazione hai contemplato immerso nella grande Luce, quando scendi a valle sei diverso: dovunque lasci cadere i tuoi occhi, vedi lui, il Riflesso dell’uno, riverberato in ogni creatura, in ogni volto, in ogni altro uomo>. Ma questo cammino non è facile ed esige tutta una conversione del nostro essere per cui non ci resta che affinare i nostri sensi per poter aprire gli occhi del nostri cuore sul mistero di Cristo Signore per imparare a sentire – ad occhi chiusi e senza vedere – il profumo delle sue <vesti> e saper affrontare le notti della nostra vita senza sentirci mai troppo soli. 


1. R. CANTALAMESSA, Le Christ de la Transfiguration, St Augustin, Paris 2000, pp. 30-31.

Riconoscere

XVIII settimana T.O. –

Ancora una volta vediamo e contempliamo il Signore Gesù che si lascia toccare dal bisogno di tutti coloro che incrociano la sua strada e chiedono il suo aiuto. Il vangelo di quest’oggi ci offre due quadretti assai belli: uno più intimo in cui vediamo Simon Pietro vacillante sulle acque che si lascia afferrare dalla <mano> (Mt 14, 31) del Signore, l’altro più popolare e che conclude la pericope odierna: <la gente del luogo, riconosciuto Gesù, diffuse la notizia in tutta la regione; gli portarono tutti i malati, e lo pregavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello> (14, 35-36). Il Signore Gesù dà fiducia e aiuta tutti a prendere coscienza dei propri bisogni e ad assumere le proprie impotenze come luogo da offrire alla relazione con lui. Alla richiesta un po’ avventata di Pietro, il Signore risponde con estrema generosità: <Vieni!> (14, 29). Al bisogno della folla che lo attornia, il Signore risponde con un sereno e pronto esaudimento: <E quanti lo toccarono, furono guariti> (14, 36). Attorno al Signore si respira un’atmosfera di fiducia e di attenzione all’altro che viene accolto con tutta la zavorra delle sue paure (14, 30) e delle sue necessità.

Ciò che scatena la gelosia di Aronne e Maria verso l’amatissimo fratello (cfr. Es 2, 1-10 e 4, 10-17) sembra il frutto di una scelta di Mosè non condivisa: <aveva sposato una donna etiope> (Nm 12, 1). Non essendo rimasto quindi nel chiuso del clan, con tutti gli annessi e connessi, colei che lo ha accompagnato verso la salvezza – Maria – (Es 2, 4) e colui che è stato per lui <come bocca> – Aronne – (Es 4, 16) sentono talmente in pericolo il loro ruolo e la loro situazione di preferenza da reclamare un posto analogo non potendo contare più sulla partecipazione piena <Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè?> (Nm 12, 2). In questo modo, Aronne e Maria si mostrano insensibili alla vita di Mosè e al suo personale cammino per questo la sorella si ritrova ad essere <lebbrosa> (12, 10). La malattia rivela esteriormente il male del suo cuore incapace di accogliere l’altro in tutto il suo mistero anche quando mi sfugge o mi turba. Malati cercano di fare i medici, ciechi cercano di fare da guide e <tutti e due cadranno in un fosso> (Mt 15, 14), quel fosso che fa guardare all’altro come posto da un’altra parte e quindi potenzialmente contrario a me e di conseguenza nemico. Questo atteggiamento di invidia fa sì che <la nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa> (Nm 12, 10).

La lebbra non fa altro che esternare lo stato del cuore di Maria tanto che il suo essere, pensato per vivere in relazione, comincia a putrefarsi. San Gregorio Magno dice che <l’invidia è capace come la ruggine di consumare anche il ferro> e la sua origine è sempre da cercare nello sconcerto davanti al fatto che, oltre a noi stessi e a quelli che ci assicurano di essere noi stessi, vi sono pure gli altri con cui ci si può persino “<sposare>” (12, 1). Davanti a tutto ciò non c’è molto da fare né da dire, ma solo da gridare: <Dio, ti prego, guariscila!> (12, 13). Ma prima di pregare per la guarigione degli altri dobbiamo cercare di non affondare noi stessi e, come Pietro, gridare: <Signore, salvami> (Mt 14, 30). Si tratta di riconoscere – come la folla (Mt 14, 35) in Gesù la nostra salvezza.