Chiaramente

XXVI settimana T.O. –

La decisione degli abitanti di un innominato villaggio di samaritani che non accolgono il Signore Gesù e motivato: <perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme> (Lc 9, 53). Ma accanto a questa chiara presa di posizione che genera una reazione non molto diversa di Giacomo e Giovanni, c’è quella dell’Altissimo che non si lascia mai piegare né contaminare dalle nostre logiche elitarie ed escludenti. Lo possiamo cogliere nelle parole di Zaccaria dove troviamo un’affermazione di rara intensità e capace di dare un respiro assai nuovo al modo di sentire e considerare la relazione tra Israele e gli altri popoli: <Anche i popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’latro: “Su andiamo a supplicare il Signore…> (Zc 8, 20-21). La reazione del Signore Gesù alla richiesta di Giacomo e Giovanni di dare una bella lezione a quanti si sono rifiutati di accoglierli è assai forte: <Si voltò e li rimproverò> (Lc 9, 55). È necessario maturare nella capacità di rispettare non solo i cammini degli altri, ma di accettare che i tempi e i modi di questi cammini abbiano una ritmica diversa da quella che ci sembra giusta o cui siamo abituati da parte nostra.

Un testo del Concilio Vaticano II non solo si fa interprete di questo atteggiamento di apertura inclusiva e radicale verso l’altro, ma rimanda ad una necessaria conversione cui ogni giorno come discepoli siamo chiamati: <La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle religioni [non cristiane]. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano in essi. >1.


1. Nostra Aetate, 2-3.

Cooperare

Santi Arcangeli –

In una cultura e civiltà sempre più legata alla virtualità può essere assai interessante e terapeutico riscoprire e reinterpretare il ruolo e la presenza degli angeli nella propria vita di persone e di credenti. La realtà in cui viviamo e che accusiamo di materialismo è anche la più prossima alla realtà dell’invisibile: voci, suoni, immagini – in futuro – forse persino persone e cose, si muovono attraverso l’etere creando possibilità sempre nuove di comunicazione… ma non sempre di comunione. Su quest’ultimo punto ecco che la Chiesa, erede della tradizione ebraica e concorde in questo con altre tradizioni religiose, non ha mai smesso di venerare e chiedere l’aiuto degli angeli e in questo giorno festeggia gli Arcangeli: Michele, Gabriele e Raffaele. Ci si potrebbe domandare che senso abbia ipotizzare una “gerarchia” persino tra gli ordini angelici come avviene nella vita dell’ordine umano ma è un modo per indicare la particolare importanza di alcuni eventi di salvezza che sono veri e propri “archi” eventi.

La colletta di questa liturgia sgombra il campo col modo proprio della tradizione liturgica romana austera e asciutta da ogni inutile ricamo sul ruolo degli angeli nella vita della Chiesa e dell’umanità: <O Dio che chiami gli angeli e gli uomini a cooperare al tuo disegno di salvezza>. Angeli e uomini siamo chiamati a vivere nello e per lo stesso <disegno di salvezza>. E la visione apocalittica realizza come questa cooperazione non è una semplice passeggiata: <Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero> (Ap 12, 7-8). Questa immagine così battagliera fa cadere tutte le sdolcinature e le inutili dorature con cui ci immaginiamo gli angeli di Dio: il loro ruolo è proprio quello di aiutarci, sostenerci e guidarci nel combattimento spirituale che si oppone al compimento del mistero dell’incarnazione nella nostra vita. La parola del Signore Gesù che conclude il vangelo scelto per questa festa ci ricorda il mistero della scala che continuamente mette in relazione la vita di Dio con la vita dell’uomo: <In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo> (Gv 1, 51).

Mentre Natanaele in preda all’entusiasmo dichiara <Rabbì tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele> (1, 49), il Signore Gesù si identifica nel <figlio di uomo> (Dn 7, 13) di cui parla Daniele nella prima lettura. Gli angeli di Dio sono con e per <noi pellegrini sulla terra> (Colletta) non per de-incarnarci o “spiritualizzarci” ma per aiutarci ad essere fino in fondo e integralmente uomini e donne che in terra vivono di quella medesima logica di cui gli angeli vivono <in cielo>. Ci si potrebbe chiedere in che cosa la vita degli angeli e degli uomini è sostanzialmente simile: nel <servirti contemplando la gloria del tuo volto> che è nascosta in ogni volto umano e in ogni creatura sulla terra. Il criterio per discernere la bontà delle realtà invisibili – persino di quelle che conquistano il nostro spazio umano tenendolo sempre più collegato a quello siderale – è la capacità o meno di cooperare alla comunione universale. A Michele, Gabriele e Raffaele possiamo chiedere la <protezione> e la guarigione da tutto ciò che ci rende isolati e impalpabili per essere sempre più capaci – come gli angeli – di farci presenti in tutte le situazioni per cooperare alla gioia dei nostri fratelli, specialmente di quando hanno bisogno di un buon annuncio, di una buona parola, di un bel gesto. Gli angeli e gli arcangeli che la tradizione greca chiama psycopompi, ossia sostegno o custodi delle anime, sono gli antesignani degli psicologi moderni e forse i più efficaci. Freud racconta di un bambino che ha paura del buio e chiede: parla perché così mi sento meno solo! Gli arcangeli ci guariscono da ogni forma di solitudine perché ci fanno sentire in comunione con Dio stesso e ci rendono tutti responsabili di cooperare alla serenità di ciascuno.

Inferno

XXVI Domenica T.O.

Di certo il tema dell’inferno non è più tanto di “moda” e, grazie a Dio, tutta l’aneddotica tradizionale su questo luogo di <tormenti> (Lc 15, 23), descritto con dei particolarismi inquietanti e rivelativi di una fervida quanto rischiosa fantasia, ha ceduto il passo ad una maggiore austerità di immagini a vantaggio di una più profonda sensibilità della posta in gioco. E la posta in gioco è assai alta: il rischio è quello di fallire la propria vita nel tempo e nell’eternità. Questo senso di fallimento e questa coscienza di aver sprecato la propria grande occasione è il sentimento che brucia e consuma quel povero ricco che, alla fine, se fa pena a noi che leggiamo, chissà quanta pena fa al Signore Gesù che racconta questa parabola. Nel capitolo precedente del suo vangelo, Luca ci ha messo di fronte all’abisso della misericordia di Dio che si comporta come pastore che cerca la sua pecora smarrita, come donna che non si dà pace finché non ritrova la dramma perduta, come padre che non smette mai di essere tale. Ora ci pone di fronte all’altra faccia della medaglia: noi e il nostro modo di portare il mistero della vita in relazione a noi stessi, agli altri e a Dio. L’esortazione dell’apostolo ci rammenta l’orizzonte più degno per ciascuno di noi: <Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza> (1Tm 6, 11).

Nella parabola non si dice che il ricco fosse cattivo e il povero buono: semplicemente c’è questa <porta> (Lc 16, 20) in terra che diventa poi un <grande abisso> (16, 26) in cielo. Il vero problema del ricco è quello di non aver visto il povero e, in cielo, chiede di essere visto da chi – in questo caso Lazzaro – non potrebbe neanche riconoscerne il volto: quel volto che è rimasto sempre blindato all’interno, mentre si facevano <lauti banchetti> (16, 19). Il messaggio è chiaro e semplice: come si può pensare di vedersi e incontrarsi in cielo se non ci si è mai incontrati e nemmeno scontrati in terra. Il ricco non è un insensibile, vista la sua preoccupazione per i suoi cari <cinque fratelli> (16, 28), ma è un superficiale che ha dimenticato il “settimo” dei suoi fratelli che è appunto Lazzaro. Così a questo ricco si applica a pennello la parola del profeta: <sdraiati sui loro divani mangiano… Canterellano… bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano> (Am 6, 4-6). È come se non ci fosse il tempo per chiedersi che cosa stia avvenendo davanti alla <porta>, là dove ci sarebbe da imparare ad essere uomini persino dai <cani> (Lc 16, 21). Il ricco non vede nulla, non ha occhi per nessuno se non per se stesso!

Certo: la reazione di Abramo è forte, persino spietata, ma è un modo per mettere in guardia dal pericolo di cadere in una sorta di anestesia spirituale che ci può prendere ogni volta in cui non leggiamo più la nostra vita – nell’abbondanza e nella povertà – proprio e sempre <Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato> (1Tm 6, 13). Il rimedio all’anestesia spirituale è quello di <conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento> (6, 14) aprendosi così ad una “anastasìa” già qui in terra. Invece di starsene <sdraiati> (Am 6, 4) dobbiamo alzarci e oltrepassare quella <porta> blindata che rischia di essere la nostra pietra tombale per l’eternità rivelando, in realtà, a quale inferno ci siamo condannati da noi stessi con una tristissima incuria.

Enfer

XXVI Dimanche T.O. –

Bien sûr, le thème de l’enfer n’est plus vraiment «  à la mode » et, grâce à Dieu, tout l’anecdotique traditionnel sur ce lieu de «  tourments » ( Lc 15, 32 ), décrit avec des particularités inquiétantes et révélatrices  d’une fantaisie débordante et risquée, a cédé la place à une plus grande austérité d’images avec l’avantage d’une plus profonde sensibilité des enjeux. L’enjeu est assez haut : le risque est de rater sa propre vie en temps et en éternité. Ce sens de l’échec et cette conscience d’avoir gaspillé cette grande occasion est le sentiment qui brûle et consume ce pauvre riche qui, à la fin, nous fait même pitié, combien doit-il alors faire pitié au Seigneur Jésus qui raconte cette parabole. Dans le chapitre précédent de son évangile, Luc nous a mis face à l’abysse de la miséricorde de Dieu qui se comporte comme un berger qui cherche sa brebis perdue, ou comme une femme qui n’a de repos que lorsqu’elle retrouve la drachme perdue, et comme un père qui n’arrête jamais d’agir comme tel. Mais nous voici maintenant confronter à l’autre face de la médaille : nous et notre façon de porter le mystère de la vie en relation à nous-mêmes, aux autres et à Dieu. L’exhortation de l’apôtre nous rappelle l’horizon le plus digne pour chacun d’entre nous : «  Toi, homme de Dieu, fuis tout cela, poursuis, au contraire la justice, la pitié, la foi, la charité, à la patience, la douceur » ( 1 Th 6 , 11 ).

Dans la parabole, il n’est pas dit que le riche était méchant et le pauvre bon : simplement, il y a cette «  porte » ( Lc 16, 20 ) sur la terre qui devient ensuite un «  grand abysse » ( 16, 26 ) au ciel. Le vrai problème du riche est de ne pas avoir vu le pauvre et, au ciel, il demande à être vu, mais par qui – dans ce cas précis Lazare – dont il ne pourrait même pas reconnaître le visage : son visage  est toujours resté blindé à l’intérieur, pendant qu’il faisait « bombance » ( 16, 19 ) . Le message est clair et simple : comment peut-on penser se voir et se rencontrer au ciel si l’on ne s’est jamais rencontrés, ni même croisés sur la terre. Le riche n’est pas un insensible, vu sa préoccupation pour ses bien -aimés «  cinq frères » ( 16, 28 ), mais c’est quelqu’un de superficiel qui a oublié le « septième » de ses frères, qui est justement Lazare. Ainsi, pour se riche, s’applique à merveille la parole du prophète : « Allongés sur leur divan, il mangeaient… chantonnaient… buvaient le vin dans de larges coupes et s’enduisaient d’onguents les plus raffinés, mais ne se préoccupaient pas de la ruine de Joseph » ( Am 6, 4-6 ). C’est comme si l’on n’avait pas le temps de se préoccuper de se qui se passe devant «  la porte », là où l’on pourrait apprendre à être humains même pour les «  chiens » – Lc 16, 21 ). Le riche ne voit rien, n’a d’yeux pour personne sinon pour lui !

Certes : la réaction d’Abraham est forte, même sans pitié, mais c’est une façon de mettre en garde du danger de tomber dans une sorte d’anesthésie spirituelle que l’on utilise chaque fois que nous ne lisons plus notre vie  – dans l’abondance et la pauvreté – surtout et toujours «  face à Dieu qui donne vie à toute chose et à Jésus Christ qui a donné son beau témoignage devant Ponce Pilate «  ( 1 Th 6, 13 ). Le remède à l’anesthésie spirituelle est de «  conserver sans tache et de façon irréprochable le commandement » ( 6, 14 ), en nous ouvrant ainsi à une «  anastasie » déjà maintenant sur terre. Au lieu de rester allongés, ( Am 6, 4 ), nous devons nous lever et traverser cette «  porte » blindée qui risque d’être notre pierre tombale pour l’éternité, en révélant, en réalité, à quel enfer nous nous sommes condamnés nous-mêmes par une très triste négligence.

Misurare

XXV settimana T.O. –

La parola del profeta Zaccaria può aiutarci a leggere con un’intelligenza del tutto particolare le brevi, ma così intense parole del Signore Gesù che troviamo nel Vangelo. Continua, infatti, la catechesi ai discepoli attraverso cui il Signore cerca di aprire il cuore dei suoi al mistero pasquale: <Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini> (Lc 9, 44). Questa sorta di protesta da parte di Gesù, cerca di arginare l’entusiasmo delle folle cui certo non è estraneo il sentimento dei discepoli che non solo si sentono lusingati dal successo pastorale del loro Maestro, ma pure immaginano e desiderano di poter essere partecipi di un suo eventuale trionfo messianico. Il testo è particolarmente chiaro e mette in tutta evidenza il rischio – mai veramente superato – di un malinteso che minerebbe la stessa missione di Cristo venuto a rivelare un volto di Dio per nulla compiacente con le nostre immaginazioni su di Lui: <Mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva…> (9, 43b); il Signore ricorda ai suoi il dovere di <misurare> (Zc 2, 5), in tutte le sue dimensioni ed implicanze, il suo mistero pasquale.

Potremmo chiederci, alla luce delle parole del profeta Zaccaria, quale potrebbe essere la <fune> da tenere sempre <in mano> per non perdere il contatto con la verità e le implicanze di un’autentica interpretazione del mistero di Cristo. Nel passo del vangelo di Luca, che leggiamo oggi nella Liturgia, è chiaro che l’elemento discriminante, da parte di Gesù, è la coscienza e quasi la volontà di <essere consegnato> (Lc 9, 44). Laddove le folle e i discepoli immaginano e si aspettano, da parte del Signore, un atteggiamento di potenza attiva e propositiva che estenda e in certo modo amplifichi quasi all’infinito <le cose che faceva>, il Signore Gesù contrappone la sua coscienza che si fa scuola di coscienza per i suoi discepoli, di essere venuto al mondo per rivelare altro… per dire Dio in modo compatibile con la sua essenza che è un amore sempre più <consegnato>.

In quell’ <uomo con una fune in mano per misurare> (Zc 2, 5) possiamo identificare noi stessi. Alla risposta per certi aspetti sbarazzina: <Vado a Gerusalemme per vedere qual è la sua lunghezza e qual è la sua larghezza>, corrisponde un invito a misurare, in un altro senso, quello della profondità abissale che è la consegna di sé umile ed inerme. Per questo il profeta rettifica: <Gerusalemme sarà priva di mura, per la moltitudine di uomini e di animali che dovrà accogliere> (2, 8). Nessuna difesa, bensì una pura e così disarmata consegna di sé da essere disarmante. Forse anche noi, come e più dei discepoli, abbiamo <timore di interrogarlo su questo argomento> (Lc 9, 45). Nondimeno, prima o poi, la vita ci costringerà a farlo e, forse, duramente, per <misurare> il nostro grado di compatibilità con il mistero di Cristo Signore che per noi si è <consegnato>. Il mistero che vela tutto ciò non può essere svelato dalla comprensione fredda dell’intelligenza, ma solo da una condivisione – piena ed esistenziale – del medesimo cammino di Gesù che rivela il Padre.

Severamente

XXV settimana T.O. –

Sembra proprio che, a distanza, il Signore Gesù si lasci toccare – e quasi interpellare – dal desiderio che Erode nutriva di <vederlo> (Lc 9, 9). Come è stato evocato nella meditazione di ieri, questo desiderio sarà coronato al mattino della Passione, quando il Signore sarà condotto, per ordine di Pilato, davanti ad Erode che non sarà in grado di vedere in Lui nulla di quello che aveva immaginato. Il Signore Gesù, con la sua consueta e acutissima sensibilità, si rivela capace di prendere in seria considerazione persino il desiderio di Erode e ne fa l’occasione per interrogare i suoi discepoli sulla sua identità, dopo essersi interrogato,  profondamente e personalmente. Infatti, il contesto della domanda è esplicitamente e chiaramente delineato da Luca, come in altre occasioni importanti del suo ministero e della sua rivelazione al mondo, ed è sempre preceduto da una presa di coscienza personale: <si trovava in un luogo solitario a pregare> (9, 18).

Dalla preghiera e nella preghiera nasce la duplice domanda: <Le folle, chi dicono che io sia?> (9, 19) cui segue quella più diretta: <Ma voi chi dite che io sia?> (9, 20). Normalmente quando simili domande vengono poste, sia nel segreto e nell’intimità del cuore, come in modo pubblico, si presume che ci sia un bisogno di immagine e di visibilità. Per il Signore Gesù è esattamente il contrario: <Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno> (9, 21). La severità è di rigore, perché troppo facile è il rischio di cadere in qualche grave malinteso nella comprensione del mistero di Cristo e nell’esperienza dell’essere suoi discepoli. Ancora oggi non è raro che il sentimento religioso si ammanti di un’aura miracolistica e di manifestazioni sensazionali, non raramente pagate col prezzo di pratiche ascetiche assai esigenti, ma che rischiano di contraddire il senso profondo del mistero pasquale.

Pietro risponde alla domanda di Gesù con quel solenne e verissimo: <Il Cristo di Dio> (9, 20)! Se l’apostolo dice la verità sull’identità del Signore, usa comunque un linguaggio mai sufficientemente purificato da attese messianiche gloriose e risolutorie di problemi e di angosce che, in realtà, non potrebbe portare che a delusione. Mentre le folle, nella stessa logica mistificante ed empia, così simile a quella di Erode che dice come Gesù possa essere <uno degli antichi profeti che è risorto> (9, 19), il Signore Gesù afferma invece di dover <venire ucciso e risorgere il terzo giorno> (9, 22). In tal modo il Maestro apre gli occhi di suoi discepoli su un cammino che è tutto da vivere e da morire. Questo ha delle conseguenze assai importanti per la stessa vita dei discepoli che desideriamo diventare: la relazione con il Signore Gesù esige, anche per noi, un processo che non sta dietro alle nostre spalle, ma è davanti a noi e non può che essere percorso <severamente> (9, 21). Ciò che il profeta Aggeo dice in riferimento alla costruzione del Tempio, può essere applicato al lavoro interiore di conformazione al mistero pasquale di Cristo, un lavoro che esige molto più <coraggio> (Ag 2, 4).

Per mezzo

XXV settimana T.O. –

Per due volte troviamo, nella prima lettura, la sottolineatura del fatto che il Signore si rivolge al suo popolo <per mezzo del profeta Aggeo> (Ag 1, 1 e 3). Si respira, in un momento delicato come sicuramente fu il tempo della ricostruzione del Tempio a Gerusalemme, un’atmosfera non solo di operosità e di entusiasmo, ma soprattutto – e fondamentalmente – si avverte una non trascurabile sensibilità e docilità. Perché la storia possa andare avanti e il cammino proseguire felicemente verso la sua meta, è necessario accettare tutte le mediazioni che si rendono necessarie e a cui bisogna prestare attenzione perché si possa attuare un sereno e fattivo discernimento. La mediazione del profeta evocata per due volte, anche per ben due volte si fa esortazione ad un’attenzione che si tenga lontana da ogni distrazione: <Riflettete bene sul vostro comportamento…> (1, 5 e 7). Siamo così posti in quella che è l’attitudine giusta se non vogliamo smarrirci sulla strada dei nostri desideri e dei nostri bisogni: ogni giorno siamo chiamati a porci davanti al mistero della vita e alle sue esigenze con attitudine ricettiva e accettando di dialogare e lasciarci interrogare e plasmare da tutte le mediazioni che la vita pone sul nostro cammino di ricerca.

Il rischio di cadere nella trappola di Erode è, infatti, sempre in agguato: <E cercava di vederlo> (Lc 9, 9). Questo però Erode lo desidera senza accettare di essere aiutato e guidato a vedere in modo giusto. Ciò esige sempre la disponibilità a lasciarsi smascherare e purificare dall’incontro con l’altro che, se autentico, non può che rivelarsi a noi stessi manifestando la necessità di un processo interiore di indispensabile purificazione e crescita. Non si può certo escludere a priori, in Erode, un desiderio di capire chi è Gesù; come del resto ci è attestato che “egli” ascoltava volentieri, fino a lasciarsi turbare dalla predicazione del Battista. Nondimeno, alla fine, risulta chiaro che, se anche Erode è curioso, non è tuttavia disponibile a lasciarsi disturbare dall’incontro. Persino al mattino del giorno della Parasceve quando incontrerà finalmente Gesù, non sarà capace di aprirsi all’incontro con il profeta di Nazareth preferendo approfittare di questa occasione per rinsaldare i legami politici con Pilato.

Erode è una figura che sta agli antipodi di quella del discepolo, la cui personalità si va formando, pagina dopo pagina, nello scorrere del Vangelo. Se il discepolo è colui che si lascia incontrare fino a lasciarsi coinvolgere nel cammino del Maestro, Erode, per quanto appassionato, rimane spettatore. Eppure non va dimenticato qualcosa di importante: nessuna vita può veramente giocarsi senza realmente coinvolgersi e impegnarsi personalmente. L’inquietudine di Erode è un modo per sfuggire alla sua paura di trovarsi davanti ad un altro profeta che lo metta di fronte alla verità della sua vita. Il re non vuole conoscere, ma vuole semplicemente inquadrare Gesù per potersene difendere e rendere la sua parola innocua e irrilevante per la sua esistenza e i suoi traffici.

Asilo

XXV settimana T.O. –

Non saremo mai grati abbastanza e non faremo mai abbastanza nostre le parole dello scriba Esdra: <Ma ora, per un po’ di tempo, il Signore, nostro Dio, ci ha fatto una grazia: di lasciarci un resto e darci un asilo nel suo luogo santo, e così il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi e ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù> (Esd 9, 8). Così pure non saremo mai abbastanza docili ad accogliere la provocazione del Signore Gesù che affida anche a noi il mandato di cui sono investiti gli apostoli: <E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi> (Lc 9, 2). Il ruolo e la missione della Chiesa al cuore dell’umanità, è pensato e voluto dal suo Signore in vista dell’incremento della sua felicità che si identifica con la capacità di offrire ad ogni creatura un <asilo>. Così esortava il vescovo ausiliare di Parigi negli anni in cui la Chiesa – dopo il ’68 – vedeva trasformare radicalmente il proprio modo di presenza nel mondo, quasi costretta – dalla congiuntura culturale, politica ed economica – ad assumere un volto più evangelico: <La Chiesa di Gesù non ha niente altro da offrire se non la fede, la carità e la speranza dei primi discepoli che non hanno trasformato il mondo con il metodo dei politici, dei sapienti o dei filosofi. Ma hanno fatto di più, hanno annunciato al mondo la salvezza, e questo perché il Vangelo ha loro insegnato ciò che abita profondamente il cuore dell’uomo>1.

Proprio per crescere sempre di più in quella che potremmo definire una sensibilità a tutto ciò che è umano, il Vangelo non è – come spesso si sente dire e persino avvertiamo dentro di noi – una lunga serie di proibizioni etiche. Oggi la parola del Signore Gesù ci mette di fronte ad una serie di raccomandazioni perché mai, in noi, ci sia qualcosa che faccia da ostacolo alla luce del Vangelo: <Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche> (9, 3). Al cuore della consegna del Signore Gesù, affidata agli apostoli, non vi sono degli “interdetti” cui sottomettere gli altri, ma delle esigenze rigorose cui sottomettere se stessi per essere veramente in grado di aprire il cuore all’accoglienza della buona novella del regno di Dio. La condizione dell’annuncio sembra proprio essere una sorta di leggerezza interiore indicata da un passo così agile da suscitare gioia – e non timore – fin da quando si è  ancora lontani.

Gli apostoli sono uomini e credenti che non hanno nulla, se non quella realtà che portano dentro come un dono ricevuto da condividere,  le cui condizioni imprescindibili sono quelle di  una serena dipendenza dalla benevolenza degli altri e una gioiosa povertà: realtà queste che diventano il luogo possibile dell’incontro e della comunicazione dei doni. Talora tutto ciò può avvenire in modo assolutamente imprevisto tanto da trovare sulla bocca di Esdra parole commoventi: <ma nella nostra schiavitù il nostro Dio non ci ha abbandonati: ci ha resi graditi ai re di Persia, per conservarci la vita ed erigere il tempio del nostro Dio e restaurare le sue rovine, e darci un riparo in Giuda e Gerusalemme> (Esd 9, 9). Chi se lo sarebbe mai aspettato?!


1. D. PEZERIL, Sortez de votre sommeil, Paris 2001, p. 41.

Puri!

XXV settimana T.O. –

La dichiarazione del Signore Gesù potrà sembrare persino brusca; eppure, è fondamentale per la Chiesa di ogni tempo chiamata continuamente a risituare se stessa nel duplice riferimento a Cristo suo Signore e all’umanità di cui e per cui è sacramento di salvezza. <Mia madre e i miei fratelli sono questi…> (Lc 8, 21). Per capire ancora meglio cosa sia necessario vivere per fare parte di <questi>, senza rischiare di rimanere fuori da una relazione significativa con il Signore Gesù, nonostante si possa vantare un grado non trascurabile di vicinanza e di familiarità, la prima lettura sembra darci un quadro assai eloquente: <continuarono a costruire e a fare progressi> e ancora <portarono a compimento la costruzione per ordine del Dio d’Israele e per ordine di Ciro, di Dario e di Artaserse, re di Persia> (Esd 6, 14). Ciò che indica un reale grado di familiarità con il Signore è un riscontrabile livello di laboriosità che tiene conto, continuamente e sempre, di una relazione non esclusiva – nemmeno con Dio! – ma che obbedisce alla volontà del Signore accettando che essa passi – e ne sia come plasmata – attraverso le umane vicissitudini.

La ricostruzione e la dedicazione del Tempio di Gerusalemme è il risultato di una sorta di cospirazione tra il Dio di Israele e i re pagani. Questi ultimi sostengono il popolo nel suo progetto di riedificazione di un luogo che restituisce agli esiliati un’identità forte, nella coscienza ferma che essa rinasce in relazione e con l’aiuto insperato e inaudito di coloro che avevano tentato di annientarla. La nascita del Giudaismo come riscossa di un popolo che ritrova la sua terra e le sue abitudini e che è fortemente tentato di isolarsi fino a segregarsi per evitare ogni contaminazione, è frutto di una benevolenza e di una collaborazione con gli altri che non bisogna mai dimenticare. La nota finale secondo la quale <tutti erano puri> (6, 20) andrebbe forse intesa, o almeno desiderata e ricercata, nel modo più aperto e accogliente che si possa immaginare. Il gesto della mano del Signore che indica <questi> come <coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica> (Lc 8, 21), è lo stesso gesto evocato dalla parabola del seminatore: largo e dilatante, generoso e pieno di fiducia.

Se è vero che <andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla> (8, 19) è ancor più vero che l’unico modo di avvicinarsi veramente al Signore è quello di accettare di mescolarsi e non quello di distinguersi. Del resto, ciò che permette di riconoscere i membri di una medesima famiglia è il fatto che tutti ci si somigli in un qualche modo! Per cui non ci resta che assomigliare, visibilmente e nei fatti, al Signore Gesù assumendo il suo stile di universale familiarità. Essere discepoli del Signore Gesù non significa solo, e neppure prima di tutto, accogliere un insegnamento, ma assumere un atteggiamento da cui si possa riconoscere la scuola a cui siamo stati formati: quella di Cristo che ci rende puri da noi stessi e ci fa entrare in processo che potremmo definire di universale purificazione.

Salire

XXV settimana T.O. –

Nel più profondo della tenebra della disperazione dell’esilio che col tempo si è trasformata, nel cuore del popolo, in abitudine e rassegnazione, si leva – infine – una luce. Questa luce si incarna in un appello che non solo viene da lontano, ma proviene da dove nessuno se lo aspetterebbe né, tantomeno, lo spererebbe. Ciro, re di Persia, un re straniero e pagano si fa mediazione di un nuovo inizio per il popolo di Dio forse addormentato nel proprio dolore e la cui sofferenza – come accade anche a noi – rischia di indebolire la speranza e l’audacia: <Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e salga a Gerusalemme, che è in Giuda, e costruisca il tempio del Signore> (Esd 1, 3). Due verbi risuonano nell’appello regale ad un popolo ormai abituato ad essere rassegnato e, in molti casi, ben adattato ad una situazione di schiavitù e di sudditanza: salire e costruire!

Due verbi che invitano a riprendere coraggio e soprattutto che invitano a ritrovare un dinamismo di vita che rimette in cammino e riaccende la fantasia. Salire e costruire indicano un movimento interiore che accompagna la storia dell’umanità nei suoi momenti migliori. Questi verbi hanno lasciato il segno nella storia attraverso dei monumenti che sono testimonianza di ciò che l’uomo è capace quando riesce a sperare. Il Signore Gesù radicalizza questo invito con l’immagine della bellezza del fuoco – piccolo o grande che sia – il quale per sua natura va verso l’alto e diffonde attorno a sé un chiarore che permette alla vita di dilatarsi e di rivelarsi nella sua bellezza. Allora è chiaro che <Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce> (Lc 8, 16). Se il re Ciro invita il popolo a salire e a costruire, il Signore Gesù invita i suoi discepoli a vivere in modo luminoso e gioioso senza cedere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi o di rinchiudersi nella coltre di una paura che paralizza la vita.

Il segreto di questa luce, la sua scaturigine profonda che la rende invincibile, è la qualità dell’ascolto. Per questo il Signore Gesù esorta vivamente: <Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere> (8, 18). Il Signore Gesù fa del nostro modo di ascoltare un modo di essere e di stare al mondo che diventa, in modo del tutto naturale, un modo per donare. Ciascuno di noi ha ricevuto un dono di cui è responsabile non solo per se stesso, ma anche per ciò che esso può significare per gli altri, cosicché non possiamo soffocare la luce di cui siamo portatori e non possiamo privare noi stessi e gli altri della speranza di cui, in modo talora misterioso, siamo comunque testimoni. La conclusione della prima lettura potrebbe indicare il dinamismo che rianima i nostri cuori ogni mattina: <Allora si levarono… a tutti Dio aveva destato lo spirito, affinché salissero a costruire il tempio del Signore che è a Gerusalemme> (Esd 1, 5). Salire e costruire in ogni momento il tempio di una presenza di Dio in mezzo alla storia cominciando dalle nostre relazioni più quotidiane significa, infatti, sperare e far sperare.