Soddisfatti

XXVII Domenica T.O.

Di certo la parabola che il Signore Gesù racconta come risposta all’invocazione dei discepoli che chiedono il suo aiuto può anche turbarci. Infatti, a prima vista, questa parabola non può che essere fastidiosa con l’immagine di un padrone che sembra poter e voler spadroneggiare sui suoi servi cosicché questi debbano, più o meno serenamente, sottomettersi ed essere persino soddisfatti, senza nessun rispetto per se stessi e il loro lavoro. L’ordine finale è perentorio: <dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”> (Lc 17, 10). La domanda accorata dei discepoli è anche la nostra: <Accresci in noi la fede!> (Lc 17, 6). La risposta di Gesù che evoca l’immagine di un padrone alquanto prepotente nei confronti della servitù, certo contrasta fortemente con tutto ciò che siamo abituati a sentire nelle parole e nei gesti del Signore, come rivelazione dell’immagine di Dio. In realtà, a ben pensarci, la parabola non parla dell’Altissimo, ma, forse, parla proprio di noi.

Il soggetto dominante della parabola – che è la risposta del Maestro alla domanda sulla fede posta dai discepoli – non è il padrone con il suo comportamento, ma il servo – ciascuno di noi – con l’atteggiamento che maturiamo nei confronti della vita in relazione a Dio, a noi stessi e al mondo che ci circonda e di cui siamo custodi. Per riprendere l’esortazione dell’apostolo, la fede non sarebbe qualcosa che Dio ci può donare solo da parte sua, ma esige il lavoro appassionato di ogni giorno nel <ravvivare il dono di Dio> (2Tm 1, 6). Il profeta Abacuc che descrive lo scontro paradossale tra le due superpotenze del polo orientale che, al declino Assiro vede sorgere il nuovo impero babilonese, ricorda ai figli di Israele di non lasciarsi impressionare dalla forza e dalla potenza degli strapoteri mondani, ma di rimanere saldi aggrappandosi, per così dire, alle radici dell’Alleanza con Dio. Così, la conclusione del profeta, è una sorta di antidoto alla paura e, al contempo, alla tentazione di competere con l’avversario, usando gli stessi metodi della forza. Al contrario: <Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede> (Ab 1, 4).

Questo versetto ampiamente e radicalmente citato dall’apostolo Paolo, per fondarvi la sua teologia della grazia (Rm 1, 17; Gal 3, 11), conferma la parola del Signore Gesù, il quale ricorda ai suoi discepoli che la fede non va aumentata, ma va radicalizzata: <Se aveste fede quando un granello di senape…> (Lc 17, 6). Questa condizione assoluta diventa, nel seguito del testo, l’evocazione di questo servo che non fa le cose che gli sono richieste in uno spirito di asservimento, ma con una sorta di soddisfazione e di gioia. Il rapporto tra Dio e l’uomo non è quello di un datore di lavoro e di un salariato, ma è piuttosto quello dell’amore nuziale che si dona senza calcolare ed è tanto più felice quanto più si può dare con intensità e gratuità. Così il dono della fede è sempre pieno, come lo sono i gesti di un amore autentico. Si tratta di una pienezza che non è data una volta per tutte ma, per sua natura, è continuamente in crescita e lo è – prima di tutto e soprattutto – nella linea della profondità. Sempre uguale a se stessa, la fede, non potendosi accrescere quantitativamente, si può sempre approfondire in un dinamismo di perenne novità… proprio come l’amore.

Satisfaits

XXVII Dimanche T.O. –

La parabole que le Seigneur Jésus raconte pour répondre à l’invocation des disciples qui  lui demandent son aide peut certainement nous perturber aussi. En effet, à première vue, cette parabole ne peut qu’être fastidieuse avec l’image d’un patron qui semble pouvoir et vouloir imposer sa loi sur ses serviteurs de telle façon que ceux-ci doivent, plus ou moins sereinement, se soumettre et être même satisfaits, sans aucun respect pour eux ni pour leur travail. L’ordre final est péremptoire : « dites : ‘Nous sommes des serviteurs inutiles. Nous avons fait ce que nous devions faire’ » ( Lc 17, 10 ). La demande implorante des disciples est aussi la nôtre : «  Augmente en nous la foi ! » ( Lc 17, 6 ). La réponse de Jésus qui évoque l’image d’un patron plutôt autoritaire face à l’asservissement, contraste bien sûr fortement avec tout ce que nous sommes habitués à entendre à travers les paroles et les gestes du Seigneur, comme révélation de l’image de Dieu. En réalité, après réflexion, la parabole ne parle pas du Très-Haut, mais, peut-être parle-t-elle vraiment de nous.

Le sujet dominant de la parabole – qui est la réponse du Maître à la question sur la foi posée par les disciples – n’est pas le patron avec son comportement, mais le serviteur – chacun de nous – par l’attachement que nous développons face à la vie en relation à Dieu, à nous-mêmes et au monde qui nous entoure et dont nous sommes les gardiens. Pour reprendre l’exhortation de l’apôtre, la foi ne serait pas quelque chose que  seul Dieu peut nous donner, mais elle exige un travail passionnant de chaque jour pour «  raviver le don de Dieu » ( 2 Th 1, 6 ). Le prophète Habacuc qui décrit le choc paradoxal entre les deux super puissances du pôle oriental qui, voit surgir le nouvel empire babylonien au déclin d’Assyrie, rappelle aux fils d’Israël de ne pas se laisser impressionner par la force et la puissance des surpuissants mondains, mais de rester solides en s’agrippant, pour ainsi dire, aux racines de l’Alliance avec Dieu. Ainsi, la conclusion du prophète est une sorte d’antidote à la peur et, en même temps, à la tentation de rivaliser avec l’adversaire, en usant les mêmes méthodes de force. Au contraire : « Voici que succombe celui qui n’a pas l’âme droite, alors que le juste vivra par la foi » ( Ha 1, 4 ).

Ce verset amplement et profondément cité par l’apôtre Paul, pour y fonder sa théologie de la grâce ( Rm 1, 17 ; Ga 3, 11 ) confirme la parole du Seigneur Jésus qui rappelle à ses disciples que la foi n’augmente pas, mais s’approfondit : «  Si vous aviez de la foi grosse comme un grain de sénevé… » ( Lc 17, 6 ). Cette absolue condition devient, dans la suite du texte, l’évocation de ce serviteur qui n’accomplit pas les choses qui lui sont demandées dans un esprit d’asservissement, mais avec une sorte de satisfaction et de joie. Le rapport entre Dieu et l’homme n’est pas celui d’un employeur et d’un salarié, mais plutôt celui de l’amour nuptial qui se donne sans calculer et est d’autant plus heureux lorsqu’il peut se donner avec intensité et gratuité. Ainsi le don de la foi est toujours intégral comme le sont les gestes d’un amour authentique. Il s’agit d’une plénitude qui n’est pas donnée une fois pour toute, mais, par sa nature même, elle est en continuelle croissance  et cela – avant tout et surtout – dans le sens de la profondeur. Toujours égale à elle-même, la foi, ne pouvant croître quantitativement, peut toujours s’approfondir dans un dynamisme d’éternelle nouveauté…tout comme l’amour.

Piccolino

San Francesco –

Alla fine del suo testamento Francesco parla di sé come <piccolino> e in questo modo rivela quanto la parola del Vangelo abbia formato la sua vita trasformandola radicalmente. Come la goccia che scava persino la roccia, lo scalpello della parola del Vangelo ha permesso allo scultore divino, con mano ferma e dolcissima, di spogliare, giorno dopo giorno, quest’uomo offertosi interamente all’Amore, di tutto ciò che era in più per liberare l’uomo nuovo, l’uomo vero, l’uomo recuperato alla bellezza di un’armonia ritrovata. Le parole del Signore Gesù si sono magnificamente compiute in Francesco: <hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli> (Mt 11, 25). Sul giaciglio di morte Francesco si fa portare, in un codice che contiene tutta la Bibbia, il Vangelo perché lo possa ascoltare ancora una volta. Non riceve come Benedetto il viatico dell’Eucaristia, ma quello del Vangelo e, sacerdote del Nuovo Testamento senza essere ordinato presbitero, assolve oltre che benedire i suoi fratelli. In tal modo Francesco rivela, alla fine della sua vita, la consapevolezza di una conformazione a Cristo di rara profondità che gli permette di fare sue le parole dell’apostolo: <quando a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo> (Gal 6, 14). Una vita conformata che diventa capace di confermare nella fede i propri fratelli.

In Francesco possiamo contemplare e imparare la via di una conformazione discepolare a Cristo Signore che comincia sempre con il passo necessario della spoliazione da tutto ciò che fa da schermo alla luce trasformante del Vangelo al cui calore siamo chiamati a far sciogliere tutto ciò che in noi rende vana la logica trasformante della croce di Cristo. Claudel, in uno dei suoi tre inni dedicati al santo di Assisi, lo definisce <un uomo ebbro>. Si tratta dell’ebrezza di un amore ritrovato dopo essere stato a lungo cercato che permette a Francesco di riconciliarsi col suo essere <piccolino> fino ad accettarsi serenamente come una creatura tra altre creature. Dopo aver vaneggiato la gloria del cavaliere fino a rischiare lo squilibrio della mente, del corpo e dello spirito, Francesco ha sposato la sua povertà di creatura trovando la gioia e la pace che non si possono acquistare, ma che sempre si possono condividere con tutti. Sempre Claudel dice che <Dio lo fa passeggiare come in paradiso nel mistero delle creature naturali>. In Francesco possiamo ammirare e desiderare la possibilità sempre aperta di ritrovare in noi stessi il neonato e lo sposo.

Solo dopo aver sposato la sua povertà ed essersi riconciliato con la sua vulnerabilità Francesco ha cominciato a danzare la vita in una pienezza, da sempre desiderata e finalmente trovata. Sposata la propria umanità, il piccolino d’Assisi ha conosciuto la gioia impagabile di essere stato sposato dall’amore dell’Altissimo. Paul Claudel lo dice magnificamente: <è requisito perché serva nella sua carne al Crocifisso>. 

Se…

XXVI settimana T.O. –

Il Signore Gesù si rivolge in modo diretto alla città che ha scelto come sua dimora e lo fa con un tono che ha tutte le caratteristiche dell’amore tradito e della predilezione umiliata: <E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!> (Lc 10, 15). Il seguito del discorso di Gesù non è semplicemente un invito all’obbedienza, ma una vera e propria riproposizione di uno stile che fa dell’incontro, dell’ascolto, della reciproca accoglienza la propria legge e il proprio respiro: <Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato> (10, 16). Questo versetto invocato infinitamente per giustificare e fondare teologicamente l’obbedienza nel corpo ecclesiale, in realtà rivela come l’unico modo per aprirsi al dono di una vita sempre più piena è quello di accettare le varie mediazioni della vita senza sognare interventi e avvenimenti straordinari.

Nelle parole del Signore possiamo sentire una sorta di capovolgimento di ruoli a partire dal quale è Dio che supplica la nostra umanità di fargli e dargli un po’ di spazio che gli permetta di ricolmarci dei suoi doni. È il tipico movimento dell’amore che comporta sempre una certa dose – normalmente eccedente – di vulnerabilità: <Perché se a Tiro e Sidone fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite> (10, 13). L’invocazione del salmista può e deve diventare la nostra ardente preghiera: <liberaci e perdona i nostri peccati a motivo del tuo nome> (Sal 78, 9). Abbiamo veramente bisogno di essere liberati dalla scorza e dalla corazza che ci rende insensibili e per questo irraggiungibili dagli appelli della grazia che, in realtà, non ci richiede nulla se non di lasciare che la nostra vita divenga un prodigio di tenerezza e di amore per noi stessi e per gli altri.

Il profeta Baruc con un testo di lamentazione e di ardente richiesta di perdono ci rivela quale sia il difetto dominante della nostra vita di discepoli: <non abbiamo ascoltato la voce del Signore, nostro Dio, che diceva di camminare secondo i decreti che il Signore ci aveva messo dinanzi> (Bar 1, 18). L’obbedienza cui siamo chiamati non è quella di una sottomissione paralizzante, ma il dinamismo di una vita che si sappia rimettere ogni giorno seriamente e amorevolmente in cammino. Questo comporta ed esige il quotidiano <uscire> (1, 19) da tutto quel sistema di immaginazione e di richiesta di <prodigi> (Lc 10, 13) che invece di arricchire rischia di impoverire sempre di più i passi della nostra conversione. Lasciamoci raggiungere dal desiderio del Signore Gesù che vuole fare della nostra vita la sua casa e cerchiamo di farlo sentire a casa accogliendone la presenza con sentimenti di gratitudine e nella gioia di poter camminare per i sentieri di una intimità capace di illuminare e scaldare la vita. Ascoltare è sempre il primo passo per cogliere l’importanza dell’altro e accoglierla come dono di grazia.

Trasgressione

Santi Angeli Custodi –

Il Catechismo della Chiesa Cattolica non dimentica di parlare degli angeli e lo fa in questi termini: <Gli angeli, come gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino per una libera scelta e un amore di preferenza>1. Il Concilio Vaticano II, parlando della Chiesa, a sua volta non dimentica di evocare queste figure e lo fa con queste parole: <in comunione con tutta la Chiesa pellegrinante veneriamo gli angeli e innalziamo lodi a Dio che ci conceda il loro potere di intercessione>2. Sembra dunque che gli angeli non siano poi così distanti da noi e che non siano poi così diversi da noi per quelle realtà essenziali che fanno la nostra umana avventura. Come loro, dobbiamo camminare verso una capacità sempre più matura di scegliere e costruire il nostro destino, perché sia segnato da <un amore di preferenza> che non può mai e in nessun modo venire imposto, ma ha bisogno di essere continuamente riscelto. Inoltre, la loro intercessione ci assicura della loro comprensione. Gli angeli comprendono il nostro cammino e la nostra fatica di fedeltà e di amore e si offrono a noi non solo come esempi, ma come alleati e complici del nostro pellegrinaggio di fede, di speranza e di amore. In una parola ci sostengono nel travaglio di corrispondere alla nostra vocazione fondamentale di creature capaci di conservare la memoria del loro Creatore e di vivere secondo la logica del dono di creazione. Questo dono esige l’impegno personale per tutto ciò che ha bisogno di attenzione, di cura, di comprensione… in una parola di custodia.

Nell’Esodo troviamo una parola forte che ci permette di comprendere il senso profondo di questa relazione invisibile e al contempo così sensibile: <Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui; egli, infatti, non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui> (Es 23, 21). Il Signore Gesù conferma questa parola rivolta dall’Altissimo al suo popolo mentre è in cammino nel deserto e diventa un invito chiaro ad evitare con sommo impegno la più terribile delle trasgressioni: quella di voler primeggiare e di non prendersi cura di ciò che è più piccolo. Con una parola così solenne, il Signore Gesù sembra ricordarci che bisogna stare sempre dalla parte dei più piccoli: <Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli> (Mt 18, 10). Questo stare dalla parte di ciò che è piccolo significa impegnarsi in un cammino di continua conversione per evitare di cadere nella trasgressione madre di tutte le trasgressioni che si esprime in quella domanda dei discepoli che abita pure il nostro cuore di discepoli: <Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?> (Mt 18, 1). La memoria degli angeli ci aiuta a non proiettare sul cielo le nostre domande e le nostre angosce, ma ad accogliere sulla terra delle nostre relazioni la logica di cui gli angeli vivono in cielo partecipando così alla loro serenità e alla loro gioia.


1. Catechismo della Chiesa Cattolica, 311.

2. Lumen Gentium, 49.

Adatto

XXVI settimana T.O. –

La domanda che il re pone a Neemia in partenza per la terra di Israele dove cercherà di rimettere in piedi non solo il tempio e la città, ma anche tutto quello che essi simbolicamente rappresentano in realtà riguarda ciascuno di noi: <Quanto durerà il tuo viaggio?> (Nee 2, 6). Possiamo considerare che questo viaggio sia il nostro cammino di discepolato che esige l’interezza del dono e dell’impegno della nostra vita in tutto il meglio che essa ha e che può dare. Il viaggio interiore del nostro diventare, giorno dopo giorno, discepoli del Signore Gesù che ci richiede di chiederci fino a che punto il nostro cammino sia <adatto per il regno di Dio> (Lc 9, 62). Uno degli elementi di discernimento che il Vangelo sembra offrirci è proprio la capacità di vivere all’altezza del proprio desiderio. Non basta solo dire <Ti seguirò dovunque tu vada> (Lc 9, 57). Bisogna anche essere all’altezza e nella disposizione di vivere nella forma del futuro, in un atteggiamento di propensione e sincera accoglienza di ciò che sta per venire senza lasciare nessuno sguardo per il proprio passato per quanto sia chiaramente imprescindibile per il nostro presente come può essere la propria famiglia di origine. 

Il discepolo è chiamato a farsi in tutto simile al Maestro e per questo capace di guardare decisamente e fermamente avanti senza mai volgersi <indietro> (Lc 9, 62). Non si può essere veramente discepoli senza volgersi risolutamente verso l’avvenire che non significa oblio ma orientamento e consapevolezza. Il punto focale della parola del Signore Gesù, che riceviamo attraverso il Vangelo, non è l’invito a rifiutare i propri cari o a sentirsi esentati dai doveri più sacri dell’amore e delle pietà, ma è un invito a guardare con attenzione e con spietata onestà al nostro cuore per sapervi discernere il filo rosso dell’amore autentico e quello nero di un egoismo e narcisismo mascherati.

Diverso ed esemplare è l’atteggiamento di Neemia che, al cospetto del re, è capace di dichiarare con tutta umiltà e verità i suoi progetti e i suoi desideri tanto da fare esperienza della <mano benefica> (Nee 2, 8) di Dio che ne benedice le risoluzioni proprio perché, in prima persona, si è assunto tutta la responsabilità di ciò che ritiene buono e giusto. Di fatto la richiesta di Neemia comporta il lasciarsi alle spalle, la sicurezza e l’agiatezza della vita di corte per riprendere il cammino verso la terra dei padri per ricostruirvi il Tempio che diventa il simbolo della nostra vita continuamente da ricostruire alla luce delle esigenze del Vangelo. Questa fedeltà esige sempre il coraggio di non fare troppi calcoli o troppe previsioni, ma di mettersi in cammino con decisione ferma e disponibilità al rischio perché: <Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio> (Lc 9, 62). Questa parola così forte del Signore Gesù non è una minaccia, e non è certo un modo per difendere se stesso, ma è il segno di un’attenzione ad ogni discepolo che viene preso sul serio in quello che è il suo desiderio ed è messo di fronte a tutte le conseguenze con serietà. Tre sfide che sono tre doni: la libertà dalle cose, dalle persone e, soprattutto, da se stessi.