Lacrime

XIV Settimana T.O. –

La raccomandazione del Signore <strada facendo> può diventare un invito che sta al cuore di ogni missione e di ogni annuncio del Vangelo: “facendo strada” che è un modo per dire “facendo vita”. Si tratta così di camminare lasciando cadere nel solco di ogni esistenza, nella sua realtà e nella sua contraddittorietà, l’annuncio che è capace di rimetterci in piedi e di ridare vigore al cammino: <il regno dei cieli è vicino> (Mt 10, 7). Simbolo magnifico dell’attitudine profonda del Signore Gesù che deve diventare quella di tutti i suoi discepoli è Giuseppe che davanti ai suoi fratelli ancora così induriti dalla paura: <andò in disparte e pianse> (Gen 41, 24). I dodici figli di Giacobbe sono come la profezia dei dodici discepoli del Signore ed è subito chiara la fatica ad essere fratelli. Chissà come avranno reagito i dodici discepoli nel sentire non solo il nome, ma quello degli altri la cui vita sarebbe diventata un compito e una quotidiana purificazione.

Il cammino della Chiesa comincia con uno sguardo del Signore Gesù sulla nostra umanità, uno sguardo pieno di compassione e capace di trovare la soluzione più adeguata perché tutti, a partire dalla propria realtà e dal proprio bisogno, possano sentirsi accolti e si sentano confermati in una speranza nuova. Per questo <Gesù diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e infermità> (Mt 10, 1). Se la missione della Chiesa, a servizio della speranza dell’umanità, comincia come servizio di compassione e di guarigione, il cammino del popolo di Israele continua con un salto nella lettura dei testi della Genesi, un salto che sottolinea quanto, nessuna storia, possa essere pensata e concepita come rettilinea. Infatti, ogni relazione tra persone – e persino con Dio – non può essere esente da difficoltà e da momenti anche difficili. Dopo aver contemplato la lotta solitaria di Giacobbe nella notte in cui si ritrova finalmente ad affrontare e ad assumere le sue paure, la liturgia pone sotto i nostri occhi la figura di Giuseppe, il figlio dei sogni, il figlio circondato da un amore di predilezione che diventa fonte di tribolazione.

Forse l’icona di Giuseppe è, per Israele, un modo di comprendere il mistero della propria elezione cui spesso, nella storia, si congiunge l’amara esperienza dell’umiliazione e della persecuzione. La conclusione della prima lettura ci offre un primo piano di Giuseppe assai significativo ed evocativo che può rappresentare una chiave per cogliere, profondamente e veramente, l’attitudine del cuore di Cristo davanti alla nostra umanità spesso tormentata e tormentante. Il pianto di Giuseppe rimanda alla decisione del Signore Gesù di inviare in missione i suoi discepoli proprio con l’intento di saper consolare ogni pianto e lenire ogni ferita. Molte di queste ferite nascono e crescono nella fatica di gestire le inevitabili differenze, unitamente alla fatica di assumere serenamente e umilmente il carattere unico e irripetibile – perciò spesso alquanto incomprensibile – della propria realtà personale e della propria storia. Quando il Vangelo elenca accuratamente <I nomi dei dodici apostoli> (Mt 10, 2) non fa altro che metterci di fronte al mistero della Chiesa come continuazione dello stesso mistero di Israele e dell’umanità intera ove è necessario credere che la salvezza può essere sperimentata solo nella differenza.

Pregate dunque

XIV Settimana T.O. –

Sembra che al Signore Gesù non resti da dire altro che: <Pregate dunque…> (Mt 9, 38). È l’unica risposta adeguata davanti all’estremo e sempre più grande bisogno di <compassione> (9, 36) da cui il Signore si sente sempre più sollecitato fino a sentirsene quasi accerchiato. Non si tratta solo della compassione nei confronti delle <folle> che erano <stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore> ma anche – forse soprattutto – per i farisei che non riescono a lasciarsi toccare dalla compassione perché li ferirebbe troppo e li destabilizzerebbe radicalmente. Con una insistenza malevola sembra che i farisei accerchiano il Signore in modo ben più pesante di quanto faccia la folla: <Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni> (9, 34). Pregare è il primo e il fondamentale modo per purificare il cuore e aprire gli occhi sul mondo in un modo diverso, in un modo radicalmente rinnovato e capace di lasciarsi toccare dalla sofferenza degli altri per imparare a lasciarsi trasformare in meglio dalla propria sofferenza.

L’icona di Giacobbe rimasto <solo> (Gen 32, 25) è stata assunta dalla tradizione come un esempio magnifico e inquietante di ciò che può capitare all’uomo quando incontra Dio al guado della propria esperienza di fallimento e nella calda memoria di una fraternità in qualche modo tradita. Solo allora l’Altissimo può essere incontrato come <un uomo> con cui si può e si deve lottare “da uomo a uomo” per poi scoprire che, in realtà, si tratta di ben altro <ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva> (32, 31). Salva e allo stesso tempo profondamente segnata: <Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca> (32, 32). Pregare è sempre un’esperienza notturna che cambia radicalmente la stessa vita che possiamo vivere nel giorno che non sarà mai come il giorno prima ed è capace di preparare sempre un futuro la cui condizione stessa di esistenza è la capacità di mettere in conto non solo di vincere, ma pure di perdere.

Marie-Dominique Molinié si chiede: <Perché la notte?> e risponde <perché in effetti il faccia-a-faccia di Giacobbe non è quello del cielo; la notte lo proteggeva dalla gloria intollerabile di Dio, come la mano di Dio proteggeva Mosè durante l’esodo. Per questo la lotta di Giacobbe è immagine di tutta la nostra vita che è come una lunga notte che prepara l’aurora della vita eterna>1. Non bisogna certo pensare semplicemente alla vita oltre la morte, ma a tutto ciò che dà alla nostra vita una qualità di eternità a partire dalla capacità di vivere relazioni radicate e per questo durevoli. Il luogo in cui Giacobbe sogna e lotta ha un nome: <Penuel>! La radice rimanda al termine che indica il volto di Dio <panim> che è un termine rigorosamente al plurale. Questo ricorda che non potremo mai vedere il volto di Dio se non avremo occhi per i volti in cui Dio si nasconde e attraverso cui si rivela per permettere a ciascuno di noi di manifestare il grado di compatibilità con i tratti dell’Altissimo che possiamo e dobbiamo saper ritrovare nei nostri fratelli e sorelle in umanità.


1. MARIE-DOMINIQUE MOLINIÉ, Le Combat de Jacob, Cerf, Paris, 2011, pp. 126-127.

Sognare

XIV Settimana T.O. –

Vi è il sonno di Giacobbe e vi è il sonno della ragazza appena morta, vi è pure il sonno di ciascuno di noi quando non siamo più in grado di sperare e di combattere per un di più di vita che sia promessa di un’esistenza più piena, più bella, più vera. La parola di Dio ci ricorda che persino il sonno non è poi lo stesso! C’è un sonno vuoto di sogni e invece c’è un modo di dormire che ritempra le forze del corpo e illumina, in un modo diverso – ma non meno importante ed incisivo – le energie dell’anima. In un momento assai difficile e particolarmente delicato, Giacobbe si abbandono al sonno del corpo e <Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa> (Gen 28, 12). Nel cuore di quel padre che ha appena visto morire sua figlia, la presenza del Signore Gesù è l’incarnazione e la speranza della possibilità di sperare ancora che la scala della vita, che congiunge continuamente la nostra vita alla sua origine divina, possa ancora permettere uno scambio di vita e di speranza. Così pure <una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello> (Mt 9, 20).

Le fatiche e le difficoltà della vita possono isolarci fino a farci percepire la vita come un’impresa fallita, oppure possono rimettere in piedi una comunicazione con la vita divina capace di ridare senso attraverso la restituzione di una speranza. Il fondamento della speranza, come intuisce Giacobbe, nel primo sogno della storia della salvezza, almeno così come è testimoniata dalle Scritture ebraico-cristiane, si basa su una speranza precisa che è quella di una comunione che si fa compagnia. Quando Giacobbe si risveglia dal suo sogno fece questo voto che è una sorta di programma di vita e una griglia di discernimento per comprendere il proprio stato di salute totale: <Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio> (Gen 28, 20-21). A queste parole di Giacobbe fanno eco quelle altrettanto intime e segrete della donna: <Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata> (Mt 9, 21).

Potremmo chiederci lungo questa giornata che cosa nutre e dà consistenza alla nostra speranza di vita. Il gesto che viene compiuto nell’intimità segreta della casa dove giace morta una fanciulla ci ricorda che il segreto della speranza è il tocco del Signore Gesù che può rianimare la nostra sensibilità facendo del nostro sonno un sogno che diventa segno: <egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò> (9, 25). L’evangelista aggiunge che <questa notizia si diffuse in tutta quella regione> (9, 26). Il sogno di uno di noi diventa segno per tutti e forse in quella <regione> che indica ogni situazione in cui gli uomini e le donne riprendono a combattere per la loro speranza, si ricominciò a sognare.

Sodoma

XIV Domenica T.O.

Siamo e saremo sempre pochi di fronte all’abbondanza della messe che è il frutto della divina abbondanza nei cuori. Come i discepoli siamo chiamati a vigilare sul nostro modo di compiacerci dei nostri “successi” a scapito della consapevolezza del fatto che, nei cuori, ogni annuncio è preceduto dalla presenza e dall’amore di Dio che fonda remotamente- e in modo segreto – ogni possibile risposta all’annuncio del Vangelo: <Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!> (Lc 10, 2). Il modo con cui il Signore Gesù ci chiede di annunciare – in forma testimoniale e non monumentale – il Vangelo, è quello  di farlo con passione e distacco. Si tratta di essere agili e liberi, profondamente coinvolti senza essere ossessionati e preoccupati. Al discepolo è chiesto di non giudicare la reazione all’annuncio di cui è umile e sereno portatore: <Se vi sarà un flgio della pace, la vostra pace scenderà su di lui> (10, 6). Al discepolo è chiesto di rimanere discreto e di non presumere troppo nel valutare e nel giudicare.

La croce di cui ci parla Paolo nella seconda lettura è l’unica cattedra che la Chiesa può conoscere ed è quella di una madre che allatta ogni creatura come un figlio, piuttosto che la predella da cui giudicare tutto e tutti. La parola di Paolo <quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo> (Gal 6, 14), si sposa con quella del profeta Isaia: <Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria> (Is 66, 11). A queste due immagini, dominate dalla logica del servizio e del dono, si oppone il riferimento a <Sodoma> (Lc 10, 12), la città evocata dal Signore Gesù per caratterizzare chiaramente ciò che si oppone alla logica del Regno e al mistero della sua crescita nel cuore della nostra umanità. Sodoma può ben indicare una civiltà che si chiude su se stessa. Sodoma è una città bella e sicura, oggi diremmo: moderna e funzionalissima. Lot vi si trasferisce con la sua famiglia nella speranza che le sue figlie possano accasarsi assicurandosi un futuro migliore. Abramo resta invece sotto le tende ed è qui che riceve la visita di Dio e l’annuncio della prossima distruzione delle città.

A Sodoma, come a Gomorra, tutto sembra funzionare bene, ma la ricchezza e il progresso non sono considerati un dono bensì una conquista, per cui è chiaro che il diritto viene negato a chi è straniero, pellegrino e ospite…: tre categorie di persone che possono essere indifferentemente rispettate o abusate. Questo è contrario alla logica del Vangelo che invece chiede al discepolo di farsi accogliere, di lasciarsi benevolmente ospitare senza presumere di avere nessun diritto e senza premunirsi in alcun modo, ma accettando, al contrario, che la sua vita sia interamente esposta: <Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali> (10, 3-4). Tutta l’attenzione e la cura sta nel rivelare come il Signore è più <vicino> (10, 9) di quanto riusciamo ad immaginare, perché egli ci <consola> (Is 66, 13) come una madre fa con un figlio… e noi siamo tutti fratelli, solo fratelli!

Sodome

XIV Dimanche T.O. –

Nous sommes et serons toujours peu face à l’abondance de la moisson, fruit de la divine abondance dans les coeurs. Comme les disciples, nous sommes appelés à veiller sur notre façon de nous complaire de nos «  succès » au détriment de la conscience du fait que, dans les coeurs, chaque annonce est précédée de la présence et de l’amour de Dieu qui fonde à distance – et de façon secrète – toute possible réponse à l’annonce de l’Evangile : «  Priez donc le Seigneur de la moisson, pour qu’il envoie des ouvriers à sa récolte ! » ( Lc 10, 2 ). La façon dont le Seigneur Jésus nous demande d’annoncer – de façon testimoniale et non monumentale – l’Evangile, est de le faire avec passion et distance. Il s’agit d’être agiles et libres, profondément impliqués sans être obsédés et préoccupés. Il est demandé au disciple de ne pas juger la réaction à l’annonce de celui qui en est l’humble et serein porteur : «  S’il y a un fils de la paix, votre paix descendra sur lui » ( 10, 6 ). Il est demandé au disciple de rester discret et de ne pas trop présumer en évaluation, ni en jugement.

La croix dont parle Paul dans la seconde lettre est l’unique chaire que l’Église peut connaître, celle d’une mère qui allaite chaque créature comme un fils, plutôt qu’un piédestal d’où juger tout et tout le monde. La parole de Paul : «  quant à moi, il n’y a pas d’autre motif de fierté que celui de la croix de notre Seigneur Jésus Christ par laquelle le monde a été crucifié pour moi et moi pour le monde » ( Gal 6, 1 4 ) fait écho à celle du prophète Isaïe : «  Vous serez allaités ainsi et vous serez repus au sein de ses consolations ; vous vous délecterez de ses délices de sa gloire » ( Is 66, 11 ). A ces deux images dominées par la logique du service et du don, s’oppose la référence à «  Sodome » ( Lc 10, 12 ), la ville évoquée par le Seigneur Jésus pour caractériser clairement ce qui s’oppose à la logique du Royaume et au mystère de sa croissance dans le coeur de son humanité. Sodome indique aussi une civilisation qui s’enferme sur elle-même. Sodome est une ville belle et sûre, l’on dirait aujourd’hui : moderne et très fonctionnelle. Lot s’y est transféré avec sa famille dans l’espérance que ses filles puissent s’y installer s’assurant un futur meilleur. Abraham reste au contraire sous les tentes et c’est là qu’il reçoit la visite de Dieu et l’annonce de la prochaine destruction de la ville.

A Sodome, comme à Gomorrhe tout semble bien fonctionner, mais la richesse et le progrès ne sont pas considérés comme un don, mais comme une conquête, dont il est clair, que l’étranger, le pèlerin ou l’hôte  ne bénéficie pas… : trois catégories de personnes qui peuvent être indifféremment respectées ou abusées. Ceci est contraire à la logique de l’Evangile qui demande au disciple de devenir accueil, d’être hospitalité, sans aucune prétention ni droit, mais en acceptant que sa vie soit entièrement exposée : «  allez : voici que je vous envoie comme des agneaux au milieu des loups, n’emportez ni bourse, ni sac, ni sandales » ( 10, 3 -4 ). Toute l’attention et tout le soin résident dans la révélation de la proximité du Seigneur si «  proche» ( 10, 9 ) que l’on n’arrive même pas à l’imaginer car il nous «  console » ( Is 66, 13 ) comme une mère le fait avec un fils…et nous sommes tous frères, seulement frères !

Vecchio

XIII Settimana T.O. –

Le parole di Isacco ci commuovono non poco e allo stesso tempo sono per noi un ammonimento: <Vedi, io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte. Ebbene, prendi le tue armi, la tua faretra e il tuo arco, va’ in campagna e caccia per me della selvaggina> (Gen 27, 2-3). L’ultimo desiderio di Isacco sembra proprio legato a mangiare un piatto di suo gusto e questo desiderio sembra ottenebrare ulteriormente lo sguardo del suo cuore non sapendo più riconoscere la differenza dei suoi due figli. Sembra che Isacco, fragilizzato dalla vecchiaia, sia reso vulnerabile dal suo desiderio di mangiare della cacciagione. Nulla di male in tutto ciò, eppure non dobbiamo mai dimenticare la necessaria vigilanza sui nostri desideri perché non ottenebrino la nostra capacità di discernimento. Da questo punto di vita la parola del Signore Gesù se relativizza l’ossessiva pratica del digiuno come performance religiosa, rammenta la sua utilità nel necessario processo di chiarificazione che accompagna sempre e tutta la nostra vita: <Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno> (Mt 9, 15).

A questa parola sul digiuno ne segue un’altra: <Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa del vestito e lo strappo diventa peggiore> (9, 16). Per comprendere appieno il senso di questo strappo cui fa riferimento il Signore Gesù possiamo rileggere con attenzione quello che avviene nella famiglia di Isacco. Giacobbe che, con la complicità di sua madre, carpisce la benedizione del padre imparerà dalle prove della vita che la benedizione non è una magia, ma è il primo passo di una trasformazione interiore che esige tutta la generosità del cuore poiché <si versa vino nuovo in otri nuovi> (9, 17). Il cammino di Giacobbe esigerà tempi lunghi di maturazione e di prova per imparare veramente a non rattoppare, ma a creare condizioni di vita adeguate alle necessità, alla libertà e alla dignità di ciascuno. Alla fine della sua vita riabbracciando il suo figlio Giuseppe, che aveva pianto a lungo come morto, forse avrà compreso ciò che stava a cuore ad Abramo nei confronti del figlio Esaù privato, con astuzia, della sua primogenitura.

Il digiuno di cui parla il Signore Gesù è propriamente il segno non di una semplice osservanza imposta dall’esterno come dovere religioso, ma il rimando ad un lavoro ben più ampio di guarigione e di rivitalizzazione interiore che obbedisce ad una sorta di regola inversa a quella che domina la vita dei farisei e persino dei discepoli di Giovanni: <Ma si versa vino nuovi in otri nuovi, e così gli uni e gli altri si conservano> (Mt 9, 17). Sembra che non basti risciacquare gli otri vecchi per riempirli di vino nuovo con il rischio che il profumo e la qualità si alterino, ma è necessario un rinnovamento che sia il più profondo possibile per fare spazio non alla ripetizione della devozione, ma alla novità di una relazione con Dio che rifonda continuamente la vita senza accontentarsi semplicemente di dare un altro <rattoppo> (9, 16).

Staccarsi

XIII Settimana T.O. –

Portiamo ancora nel cuore le emozioni forti di ciò che è avvenuto sul Moria e sentiamo tutto il dramma di una libertà da conquistare continuamente al cospetto non solo del proprio cuore ma persino nella propria relazione con Dio, ed ecco che vediamo Abramo misurarsi con la morte di Sara: <poi si staccò dalla salma e parlò agli Hittiti: “Io sono di passaggio in mezzo a voi.”> (Gen 23, 3-4). Ciò che Abramo ha imparato sul monte Moria è una lezione che segna e illumina tutta la sua vita: la capacità di sapersi staccare fino a permettere alla vita di andare oltre. E così il funerale di Sara sembra permettere finalmente il matrimonio del figlio tanto desiderato e finalmente liberato: <si prese in moglie Rebecca e l’amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della madre> (24, 67). Nel vangelo di seguito alla guarigione di un paralitico troviamo la chiamata di Matteo. Così spiega Ambrogio di Milano: <Dopo la guarigione del paralitico ecco la misteriosa vocazione del pubblicano. Il Cristo gli da l’ordine di seguirlo, non con un passo materiale, bensì col cambiamento del cuore. E quest’uomo, che fino a quel momento aveva tratto avidamente il suo profitto dalle merci, che sfruttava duramente le fatiche e i pericoli dei marinai, lascia tutto per una parola che lo chiama. Lui che prendeva i beni altrui, abbandona i propri beni. Lui che stava seduto dietro il suo ‘terribile’ banco, cammina con tutta l’anima dietro il Signore. E prepara un grande banchetto: l’uomo che riceve il Cristo nella sua dimora interiore viene saziato di delizie senza misura, di sovrabbondanti gioie. Quanto al Signore, entra volentieri nella sua casa e si mette alla tavola apparecchiata dall’amore di colui che ha creduto. Ma ecco che si accende la cattiveria degli increduli… e nello stesso momento si rivela la differenza fra i sostenitori della Legge e i discepoli della grazia. Fermarsi alla Legge è come provare una fame senza rimedio, essendo a digiuno; accogliere interiormente il Verbo, la Parola di Dio, riceverla nell’anima, è essere rinnovati dall’abbondanza del cibo e della sorgente eterni>1.

Il Signore Gesù è venuto ad accompagnare la vita concreta e non a confermare dei modelli tanto ammirabili quanto astratti e supponenti.


1. AMBROGIO, Commento al Vangelo di Luca, 5, 16.

Oltre

San Tommaso –

La professione di fede pasquale di Tommaso rappresenta l’apice di tutto il quarto vangelo che sembra, sin dalle prime battute del Prologo, voler essere un lungo processo di passaggio interiore dal vedere per credere al credere per vedere. Questo verbo tanto amato dall’evangelista Giovanni va inteso nel senso ampio del greco che significa comprendere in profondità. Alla fine del suo personale esodo pasquale che lo obbliga ad attraversare il dubbio e una sorta di necessaria incredulità che purifica fino a rettificare il proprio cammino di discepolanza, l’apostolo Tommaso può dire infine: <Mio Signore e mio Dio!> (Gv 20, 28). Il testo non ci dice se Tommaso ha steso la sua mano fino a toccare il fianco aperto del suo Maestro e Signore, ma sappiamo che il discepolo si è lasciato toccare fino ad essere radicalmente trasformato nel suo modo di relazionarsi al Signore risorto, ma pure ai suoi fratelli nel discepolato. Dapprima Tommaso sembra esigere un segno straordinario per credere alla risurrezione e chiede di poter passare attraverso una sorta di manipolazione del corpo di Cristo. Questo suo bisogno viene preso talmente sul serio dal suo Signore tanto da metterlo quasi in difficoltà: <Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani: tendi la tua mano e mettila nel mio fianco> (20, 27).

Il Risorto è come un bambino che non ha nessuna paura di essere toccato nel suo corpo, ma è come se volesse aiutare Tommaso e ciascuno di noi a non fare affidamento su ciò che è straordinario, ma sulla ritrovata intimità nell’ordinarietà di una familiarità che non dovrebbe avere bisogno di prove. Come il re Acaz, sembra proprio che Tommaso davanti alla presenza risorta del suo Maestro non ne voglia più sapere di segni (cfr Is 7, 12). Mentre prima pensava di avere bisogno di toccare per credere, lo splendore della presenza del Risorto lo mette subito in contatto con il cuore nuovo del Risuscitato totalmente orientato al compimento della volontà del Padre che si rivela in una compassione estrema che permette al Signore Gesù di fare ancora quel primo passo verso di noi che ci permette, infine, di fare un passo oltre noi stessi. Ciò che accade nel Cenacolo <Otto giorni dopo> (20, 26) è la risurrezione del discepolo che è frutto della risurrezione del Maestro attraverso una ricomposizione di quell’intimità e di quell’amore ferita dal dramma pasquale.

Nell’esodo pasquale la debolezza e la fragilità dei discepoli è stata come compensata dall’indicibile sovrabbondanza di donazione amorosa del Signore. Il Risorto non è semplicemente il redivivo, ma è il corifeo che apre ancora la strada nel mare del dubbio, del rammarico, della vergogna e ci fa passare oltre… oltre noi stessi per ripartire, ancora una volta, dall’Altro <per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito> (Ef 2, 22). Ogni volta che siamo come divorati dal bisogno di vedere e toccare per credere, il Signore ci apre la porta di una possibilità più profonda di credere per imparare a vedere e a toccare: farci vedere e farci toccare dalla vita e dalla grazia della risurrezione che esige la capacità di passare fino in fondo attraverso la morte e il fallimento.

Furiosi

XIII Settimana T.O. –

L’evangelista Matteo raddoppia sempre quello che gli altri evangelisti invece presentano singolarmente e, nella pericope odierna, ci mette di fronte a <due indemoniati> che <uscendo dai sepolcri, gli vennero incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva più passare per quella strada> (Mt 8, 28). Nella prima lettura ci troviamo di fronte a due donne – Sara e a Agar – che hanno avuto ambedue un figlio da Abramo. Ma Sara è veramente “furiosa” con Agar perché suo figlio Ismaele <scherzava con il figlio Isacco> (Gn 21, 9) e si potrebbe analogamente dire che nessuno <poteva più passare per quella strada>(Mt 8, 28). Infatti – e per la seconda volta – Sara dice ad Abramo <scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco> (Gn 21, 10). In questo modo di sentire e di parlare di Sara vi è qualcosa di inquietante che ci fa avvertire la presenza di qualcosa di impuro capace di entrare in risonanza con quella che potremmo definire – se mai ciò fosse possibile – la preghiera dei démoni che chiedono al Signore Gesù: <se ci scacci, mandaci in quella mandria> (Mt 8, 31). Sembra che il Signore abbia pietà di quei demoni a cui dice <Andate> (8, 32) e come non avrebbe dovuto avere pietà di Agar e di suo figlio, come non lasciarsi commuovere profondamente da una donna usata dalla sua padrona e che dice: <Non voglio vedere morire il fanciullo!> (Gn 19, 16). Questo sentimento di Agar interpreta lo stesso sentire del cuore di Dio il quale non ha bisogno di scacciare per sentirsi più al sicuro o mettere al sicuro le realtà che maggiormente ama, bensì è sempre capace di trovare una via di fuga persino per i <demoni> (Mt 8, 31).

Davanti all’imbarazzo di Abramo a cui la decisione furiosa di Sara <dispiacque molto> (Gn 21, 11), il Signore reagisce spalancando i suoi occhi – prima di aprire quelli di Agar perché vedesse <un pozzo d’acqua> (19, 19) – su un possibile futuro per tutti con queste parole: <ascolta la voce di Sara… Ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava perché è tua prole> (21, 13). Laddove per Sara sembra non ci sia nessun’altra soluzione se non quella di mettere in pericolo la stessa vita di Ismaele, imponendo al cuore materno di Agar una sofferenza sproporzionata a quel gesto di scherzare con il fratello più giovane e sicuramente dal carattere molto più pacifico e casalingo, il Signore osa allargare lo spazio della speranza e della vita: <E Dio fu con il fanciullo, che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco> (21, 20). Si potrebbe dire che Dio non avrebbe voluto la nascita di Ismaele ma avrebbe gradito la paziente fede di Sara e di Abramo in attesa del compimento delle promesse. Ismaele è il frutto della disperazione e dell’intrigo di Sara… ma il Signore non si tira indietro e si prende cura anche di questo figlio facendo anche di lui <una grande nazione> (21, 18).

Così pure il Signore Gesù non è certo venuto per scendere a compromesso con i demoni, ma davanti alla possibilità di sollevare la vita di questi due uomini <tanto furiosi> (Mt 8, 28) non esita a lasciare che la mandria di porci si precipiti <dal dirupo nel mare> (8, 32) pur di evitare che da quel dirupo, in preda al loro intimo tormento, si buttino questi due sfortunati. Ma non ci è facile capire il modo di agire di Dio anzi talora ci può sembrare persino sconveniente. Che non ci capiti di fare come i Gadareni i quali <lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio> (8, 34) forse resi <furiosi> per la perdita dei loro porci… e – senza saperlo – avendo così dato un nuovo asilo a quei demoni!

Salvaci!

XIII Settimana T.O. –

I due testi della Liturgia ci offrono – in grande e in piccolo – la descrizione di due situazioni assai difficili, ma ci mettono di fronte a modi diversi di reagire. Davanti allo <sconvolgimento> (Mt 8, 24) che sballotta la barca dei discepoli, la reazione di questi ultimi è immediata e semplice: <Salvaci, Signore siamo perduti!> (8, 25). Stranamente nulla di tutto ciò avviene nelle <città della valle> (Gen 19, 29). Quando <il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco> e <Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo> (19, 23-24) nessuna preghiera sembra levarsi verso il cielo poiché la catastrofe, non solo coglie impreparati, ma persino così distratti da non rendersi affatto conto di ciò che sta avvenendo. Invece, la preghiera accorata di Abramo, che aveva avuto il coraggio di contrattare a lungo con Dio senza raggiungere un chiaro accordo, viene esaudita. Sembra che l’Altissimo non abbia trovato neppure quei <dieci giusti> su cui il dialogo con Abramo sembrava essersi arenato, nondimeno gli angeli <fecero premura a Lot> (19, 15) che viene invitato a salvarsi dall’imminente catastrofe con tutta la sua famiglia.

La risposta del Signore Gesù, che sembra avere gli occhi ancora assonnati ma il cuore vigile, ci richiede una risposta che nemmeno i discepoli seppero dare: <Perché avete paura, gente di poca fede?> (Mt 8, 26). Mentre gli apostoli si sbracciano angosciati per non affondare, il Signore Gesù invece di correre subito ai ripari prima li interroga, svelando così il motivo della minaccia di affondamento che è la paura che crea <sconvolgimento>. Del Signore Gesù si dice che <dormiva> (8, 24)! In un antico testo troviamo questa spiegazione: <Dormiva perché voleva rendere i suoi apostoli attenti e vigili. Sforziamoci di vegliare sempre, di esultare nel Signore e di chiedere a Lui la grazia della salvezza con forti grida. Colui che si è abbandonato al sonno e colui che ha detto: “Io dormo, ma il mio cuore veglia” (Ct 5, 2>[1].

Lo <sconvolgimento> sul lago è profezia di quello che, secondo il Vangelo di Matteo, accompagnerà la risurrezione del Signore e che lascerà i soldati uguali a se stessi proprio come gli abitanti di Sodoma e Gomorra che vivono la catastrofe senza viverla, ma morendoci dentro. Vi è una nota che accomuna nell’apparente contrasto Gesù e Abramo. Quest’ultimo <andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sodoma e Gomorra> (Gen 19, 27-28). Sembra che Abramo abbia passato la notte in bianco avendo intuito la distruzione imminente e ripete lo stesso gesto di contemplazione che era stato già dell’Altissimo che è un modo di partecipare, di sperare e, infine, di accettare. Il sonno placido del Signore non è così diverso dalla premura mattiniera di Abramo: si tratta di accompagnare la storia lasciando che le cose avvengano e i cuori si rivelino soprattutto che si manifesti la <poca fede> (Mt 8, 26) perché possa crescere.


1. PSEUDO-ORIGENE, Omelie, 54.