Misura

XXI settimana T.O. –

Il Signore Gesù non ci lascia nell’indecisione e sbarra la strada ad ogni illusione: <Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri> (Mt 23, 31-32). L’unico modo per uscire da questo turbine che rischia di inghiottire il nostro buon desiderio è di aprirsi ad un modo completamente diverso di vivere in relazione a se stessi e agli altri: <come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio> (1Ts 2, 12). La <maniera> degna di Dio che ci fa suoi figli è il non avere misura non solo nel compiere il bene, ma nel compierlo nel modo più generoso e con la dedizione più assoluta: <Vi ricordate, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio> (1Ts 2, 9).

Se si entra in questa logica di scambio di doni, allora non è possibile cadere nella trappola del calcolo che si fa automaticamente ricerca del comodo. Il primo segno di essere scivolati in questa tendenza è l’incapacità a prendersi le proprie responsabilità senza scaricare sugli altri ciò che, in ogni modo, almeno in parte, dipende dalla nostra scelta e dal nostro impegno. L’invettiva del Signore Gesù continua con una certa forza, ma non ha come scopo quello di spaventarci, ma piuttosto quello di svegliarci dal sonno dell’ipocrisia che ci fa scivolare nella morte interiore tanto che, pensando di costruire tombe e mausolei, diventiamo noi stessi dei <sepolcri imbiancati> (Mt 23, 27). La descrizione che ne fa il Signore non manca certo di efficacia: <all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume>!

In realtà, l’immagine non è solo efficace, ma è pure alquanto inquietante tanto da non ammettere nessuna giustificazione a posteriori richiedendo, invece, una presa di posizione che stia alla base di scelte precise che siano dominate dalla piena disponibilità a dare la propria vita piuttosto che limitarsi a sottilizzare sul <sangue> (23, 30) già versato. Le parole del salmo esprimono bene in cosa consista la sfida di una misura così piena di consapevolezza che sia capace di animare scelte chiare, consapevoli, concrete con cui lottare contro il virus dell’ipocrisia: <Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza?> e ancora <nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno> (Sal 138, 11-12).

Le apparenze, infatti, possono anche dare buona coscienza, ma la buona coscienza viene da un cuore sincero e buono. L’apostolo Paolo si è presentato alla comunità di Tessalonica in tutta verità tanto da ricordare che <l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti> (1Ts 2, 13) e se la lasciamo realmente operare, allora sarà capace persino di trasformare il <marciume>. 

Coraggio

XXI settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo sono le più giovani delle Scritture Cristiane e per questo le più ardenti: <Ma, dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte> (1Ts 2, 2). Quelle cui si riferisce l’apostolo Paolo sono ancora le <lotte> che vengono piuttosto dall’esterno della comunità e non ancora dall’interno delle comunità dei discepoli le cui divisioni e contrapposizioni faranno soffrire così tanto Paolo e i suoi collaboratori. Questa stessa parola <Vangelo> (2, 4) è ancora così giovane da essere assolutamente nuova non solo come contenuto di annuncio ma anche come forma e stile di comunicazione: <non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori> (2, 4). A distanza di due millenni dal risuonare del Vangelo nel mondo, attraverso l’annuncio della Chiesa, dobbiamo riconoscere che le parole del Signor Gesù pronunciate per stigmatizzare il modo di comportarsi dei farisei rischiano di essere purtroppo meritate anche dai nostri comportamenti: <Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumino e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, misericordia e la fedeltà> (Mt 23, 23).

A questo <guai> che già basterebbe a metterci in crisi fino ad indurci a rivedere radicalmente il nostro modo di essere discepoli e di testimoniare insieme come Chiesa il Vangelo di Cristo, se ne aggiunge un altro: <Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza> (23, 25). Possiamo solo immaginarlo ma osiamo farlo come aiuto a ciò che, in ogni modo, è richiesto a noi. Chissà quante volte l’apostolo Paolo deve aver riflettuto sulla sua <condotta di un tempo> (Gal 1, 13) lasciandosi toccare e purificare dal fuoco di quel Vangelo che ha trasformato radicalmente la sua vita. Se qualcuno dei discepoli che conservavano e trasmettevano i detti del Signore gli avrà trasmesso anche quello con cui si conclude la pericope odierna, sicuramente il cuore di Paolo deve esserne stato profondamente toccato nel duplice senso dell’esserne ferito e guarito al contempo: <Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!> (23, 26).

Operazione quella richiesta dal Signore Gesù che possiamo presumere abbia impegnato tutta la vita di Paolo e nella quale siamo chiamati a dare noi stessi il meglio delle nostre energie. Ciò che traspare dalle parole della prima lettura può e deve diventare pure il nostro cammino di conversione profonda: <siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre che ha cura dei propri figli> (1Ts 2, 7). Si compie fino alla sua pienezza in tal modo l’esortazione del Signore: <Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle> (Mt 23, 23). E se non fosse chiaro, è l’esempio dell’apostolo a dirci praticamente che cosa questo significhi: <Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari> (1Ts 2, 8). Invece di filtrare il <moscerino> e ingoiare <il cammello> (Mt 23, 24) come ci accade di fare molto più spesso di quanto desideriamo e immaginiamo, siamo chiamati a prenderci cura dei minimi dettagli dell’amore e della cura con quel coraggio e quella resistenza che dimostrano i cammelli nelle lunghe traversate del deserto per portare il carico dei doni con immutata pazienza. Sì, ci serve il coraggio e l’ostinazione del cammello per non fare del vangelo un semplice annuncio, ma uno stile riconoscibile e desiderabile.

Grazia e pace

XXI settimana T.O. –

L’augurio dell’apostolo <a voi, grazia e pace> (1Ts 1, 1) può essere accolto come fosse il riassunto di ciò di cui abbiamo tutti bisogno e di ciò che il Signore ci dona ogni giorno come viatico per la nostra vita. La grazia e la pace, che ci vengono donate, sono il segno di quanto siamo <amati da Dio> tanto da essere stati <scelti da lui> (1, 4). L’inizio di quello che chiamiamo Nuovo Testamento e di cui la prima lettera ai Tessalonicesi è il testo più antico precedente persino alla redazione dei Vangeli, è circonfuso di un’aura di serenità, di entusiasmo, di gratitudine: <Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presente l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza> (1, 3). A partire da questo testo potremmo dire che il Nuovo Testamento si apre all’insegna di un’ammirazione la quale sembra essere propriamente uno stile con cui si guarda e si valuta il reale a partire da un atteggiamento fondamentalmente positivo e fiducioso.

Le parole dell’apostolo rasentano la lusinga: <La vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne> (1, 8). Al contrario l’atteggiamento dei farisei e dei notabili del tempo di Gesù sembra dominato da una nota di disprezzo verso gli altri che rende il rapporto non segnato da un dinamismo di crescita nella fiducia, ma da un atteggiamento che è al contempo dominato dal disprezzo e dal bisogno di controllo in cui si manifesta una necessità di avere qualcuno che faccia da scena e da pubblico alle proprie esibizioni. Le parole del Signore Gesù sono particolarmente dure non per un disprezzo analogo a quello descritto, ma per l’indignazione che crea il vedere un modo di considerare gli altri con il quale si umilia ogni possibilità di incremento di grazia, di pace, di speranza: <chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare> (Mt 23, 13).

Detto questo il Signore Gesù si lancia in una lunga invettiva che talora raggiunge dei toni particolarmente amari. In realtà la durezza e la chiarezza del modo di argomentare del Signore è un invito a lasciarsi, come i Tessalonicesi, alle spalle i propri <idoli> (1Ts 1, 9), per aprirsi ad un cammino di relazione nella verità della carità. Quello che Paolo evoca con una punta di santo orgoglio <il nostro Vangelo> (1, 5) deve diventare ogni giorno nella concretezza della nostra vita un vangelo vivente.

Chi passa?

XXI Domenica T.O.

Potremmo riformulare la domanda che questo tale – di passaggio – pone al Signore Gesù trasformandola in una domanda scolastica. È come se uno studente chiedesse: <Chi passa questo esame?>. Normalmente una domanda di questo tipo è un tentativo per esorcizzare la paura di non essere in grado di superarlo! Continuando ad immaginare, potremmo ipotizzare come risposta la seguente: <Ma lo superano tutti con quel professore!>. Se la paura, di fronte a questa risposta, di certo diminuirebbe, verrebbe meno anche la stima per se stessi, in quanto si penserebbe di aver superato un esame che passano tutti senza troppa fatica. Non basta passare l’esame! Se l’esame non è una vera prova, sarà poi la vita a bocciare. Se invece l’esame è un’iniziazione, una <porta> per la vita professionale, allora sarà molto diverso tanto da essere fieri non solo di averlo passato, ma soprattutto di averlo patito. Al Signore Gesù non interessa minimamente fare della contabilità escatologica!

Ciò che sta a cuore al nostro Maestro e Signore è di rivelarci come entrare e rimanere nella logica del Regno. Il riferimento alla <porta stretta> (Lc 13, 24) non è per scoraggiare, bensì per rammentare che il Regno, se è un dono di Dio offerto e… offerto a tutti, nondimeno esige che sia conquistato da ognuno, e non a forza di assalti e brecce, ma con la forza del desiderio e della passione, atteggiamenti interiori che esigono anche una buona dose di lavoro e di investimento personale. Insomma, il regno di Dio non è una questione di privilegi né tantomeno è una questione di fortune, ma è – piuttosto – una realtà che ci appartiene così profondamente da possederci altrettanto intimamente. La Lettera agli Ebrei non esita a dissipare ogni possibile equivoco: <Figlio mio non disprezza la correzione del Signore e non ti perdere d’animo> (Eb 12, 5).

Una volta si insisteva molto sui <pochi> (Lc 13, 23) che si sarebbero salvati, oggi invece insistiamo ancora di più sul fatto che tutti siamo salvati. Nell’uno e nell’altro caso l’intento è pedagogico: animare e sostenere il desiderio di entrare e di gioire insieme nella vita del Regno di Dio. Il Regno di Dio è offerto a tutti come casa spaziosa e accogliente tanto che sarebbe veramente un peccato se rimanesse vuota per mancanza di interesse e di desiderio da parte di molti a prendere posto al banchetto del regno… possibilmente di tutti. La prima lettura ci ricorda che il desiderio di ognuno si fa invito per tutti e per ciascuno: <Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di Gerusalemme> (Is 66, 20). La seconda lettura ci rammenta che nulla di prezioso e di valido può essere ottenuto senza esercizio, senza passione e senza correzione. È come se uno pagasse delle lezioni private di latino o di pianoforte o di basket chiedendo all’insegnante o all’allenatore di non correggerlo nei suoi difetti, ma solo di blandirlo… Forse con il Regno di Dio siamo un po’ così ed è per questo che talora ci sentiamo così fuori dai suoi recinti. Il motivo è dato dal fatto che non siamo entrati nella sua logica. Il primo passo allora è quello di snellire la nostra boria di voler essere migliori degli altri. La preghiera comporta quella cardioterapia che dilata in noi la disponibilità a non avere bisogno di escludere nessuno per sentirci un po’ esclusivi.

Qui passe ?

XXI Dimanche T.O. –

Nous pourrions reformuler la question posée au Seigneur Jésus par ce personnage – de passage -, en la transformant en un cas d’école. C’est comme si un étudiant demandait :  « Qui passera cet examen ? ». Normalement, une question de ce genre est une tentative pour exorciser la peur de ne pas être capable de le réussir ! En continuant d’imaginer, nous pourrions émettre une hypothèse par la réponse suivante : « Mais tout le monde le réussit  avec ce professeur ! ». Si face à cette réponse la peur diminuait, l’estime de soi s’amoindrirait car l’on pourrait penser pouvoir réussir un examen que tout le monde passe, sans trop de difficulté. Il ne suffit pas de passer l’examen ! Si l’examen n’est pas une véritable épreuve, la vie risquera ensuite d’échouer. Si, par contre, l’examen est une initiation, une «  porte » pour la vie professionnelle, alors, tout devient très différent, car nous serons fiers, non seulement de l’avoir passé, mais, surtout de l’avoir enduré. Pour le Seigneur Jésus, cela importe peu de faire de la comptabilité eschatologique !

Ce qui tient à coeur de notre Maître et Seigneur est de nous révéler comment entrer et rester dans la logique du Royaume. La référence à la «  porte étroite » ( Lc 13, 24 ) ne cherche pas à nous décourager, mais, au contraire à nous rappeler que le Royaume, s’il est un don offert par Dieu… et offert à tous, exige, non seulement d’être conquis par chacun, et non à force du poignet, mais avec la force du désir et de la passion, attachements intérieurs qui exigent aussi une bonne dose de travail et d’investissement personnel. En somme, le Règne de Dieu n’est pas une question de privilèges, encore moins une question de fortune, mais – plutôt- une réalité  qu’il nous appartient de posséder si profondément  même intimement. La Lettre aux Hébreux n’hésite pas à dissiper chaque équivoque possible « Mon fils, ne méprise pas la correction du Seigneur, et ne te décourage pas quand Il te reprend » ( He 12, 5 ).

Il fut un temps où l’on insistait beaucoup sur le «  petit nombre » ( Lc 13, 23 ) qui serait sauvé, aujourd’hui, par contre, nous insistons encore d’avantage sur le fait que nous sommes tous sauvés. Dans l’un et l’autre cas l’intention est pédagogique : animer et soutenir le désir d’entrer et de jouir ensemble de la vie du Règne de Dieu. Le Règne de Dieu est offert à tous comme une maison spacieuse et accueillante et ce serait vraiment dommage de la laisser vide par manque d’intérêt ou de désir d’un grand nombre refusant de prendre place au banquet du règne…désintérêt peut-être de tous. La première lecture nous rappelle que le désir de chaque personne est une invitation pour tout un chacun : « Et, ils ramèneront tous vos frères du milieu de toutes les nations  sur des chevaux, sur des chars, en litière, sur des mulets et des dromadaires, en offrande au Seigneur, sur ma montagne sainte de Jérusalem » ( Is 66, 20 ). la seconde lecture nous rappelle que rien de précieux et de valable ne peut être obtenu sans exercice, sans passion et sans correction. C’est comme si quelqu’un payait des leçons privées de latin ou de piano ou de basket, en demandant au professeur ou à l’entraîneur de ne pas le corriger dans ses erreurs, mais seulement de le cajoler… Sans doute, nous sommes – nous un peu ainsi  avec le Règne de Dieu et c’est pour cela que nous  nous sentons, alors , hors circuit. Le motif en est que nous ne sommes pas entrés dans sa logique. Le premier pas est alors d’atténuer notre arrogance de vouloir être meilleurs que les autres. La prière comporte cette cardiothérapie qui dilate en nous la disponibilité à ne pas avoir besoin d’exclure quiconque pour nous sentir un peu exclusifs.

Compiere

XX settimana T.O. –

Per il Signore Gesù il compimento non è possibile se non a partire da un adempimento personale che impegni le energie migliori di ciascuno per dare carne e corpo a ciò che si sente, si pensa, si crede. L’esperienza di Rut conferma e anticipa profeticamente lo stile e la predicazione del più illustre tra i suoi discendenti che è il Verbo fatto carne e nato a Betlemme. Il compimento non è semplicemente frutto di decisione e di sforzo, ma è il risultato di una profonda ed efficace sinergia tra il dono ricevuto e la capacità di metterlo a frutto. Il primo passo sembra proprio essere quello di rinunciare ad ogni sistema di privilegio: <Ma voi non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli> (Mt 23, 8). Il compimento fedele della Legge esige l’appassionata capacità di ascoltarsi, di accogliersi, di incontrarsi, di accompagnarsi. Si tratta di rinunciare a pensare se stessi e a offrire se stessi come modello, per amare di più di stare accanto accettando di avere pure bisogno che qualcuno ci stia accanto. Ogni volta, infatti, che si pensa a se stessi come un modello da offrire ad altri, il rischio è proprio quello e quasi inavvertitamente di cominciare a coltivare le apparenze a danno della verità di se stessi e dell’autenticità della relazione.

Come possiamo immaginare che qualcuno ci scelga come punto di riferimento senza ricordargli che tutti dipendiamo dal Signore. Il Vangelo ci ricorda di non diventare mai, in nessun modo e per nessuno un peso, ma dei fratelli amorevoli e sempre “alla pari”. È facile salire in cattedra, costoso rimettersi sui banchi della scuola della vita, ambizioso insegnare, laborioso imparare. Non si tratta di rifiutare il servizio di fare da punto di orientamento per la vita degli altri, ma sempre distinguendo accuratamente il servizio dalla propria identità più profonda e più vera. L’esperienza di Rut è una grande lezione di coerenza come capacità di stare accanto a una persona per fedeltà a se stessi e al proprio cuore, prima di tutto e soprattutto. Come dice Aristide per difendere la condotta dei primi cristiani <cio che essi non vogliono che gli altri facciano loro non lo fanno nei riguardi di nessuno>1. Uno dei primi segni di questa capacità, che potremmo ben definire come abilità di coerenza fondata sull’inerenza come fedeltà alla propria coscienza interiore e segreta, consiste nel non far portare ad altri quei pesi che noi stessi non saremmo in grado o comunque non ameremmo di sopportare. Proprio la memora commossa dell’esperienza di Rut, che è indubbiamente una delle storie più belle e toccanti di tutte le Scritture, rende ancora più forte la parola di avvertimento che il Signore Gesù <rivolse alla folla e ai suoi discepoli> (Mt 23, 1).

Sembra quasi una sorta di nemesi o di catarsi! Infatti, la parola del Maestro mette in luce i limiti e le ambiguità di coloro che si sentono in diritto e in dovere di giudicare l’operato degli altri e di mettere in guardia i propri discepoli persino dal frequentare coloro che vengono ritenuti inaffidabili perché non chiaramente integrati. Il sentimento dominante e ricorrente di Rut, che si perpetua nel nome che sarà dato al frutto del suo grembo – Obed/servo –, contrasta luminosamente con ciò che il Signore indica come il difetto o quasi la malattia dominante di scribi e farisei 


1. ARISTIDE, Apologia, XV, 4. Cfr.: Fratel MichaelDavide, Rut, donna altra, Meridiana, Molfetta 2007.

Dipendono

XX settimana T.O. –

Il Signore Gesù non esita a rispondere con tutta onestà e chiarezza a chi ha il coraggio di interrogarlo con altrettanta onestà: <Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti> (Mt 22, 40). Si potrebbe aggiungere che tutto il resto non è che commento e attuazione. Mentre la tradizione, soprattutto farisaica, aveva coltivato la tendenza piuttosto ad allungare in mondo infinito la lista dei precetti da osservare per avere una minima possibilità di sentirsi a posto con Dio tanto fino ad accostare ogni precetto da osservare ad una parte del corpo – in tutto 613 – il Signore Gesù sceglie la linea dell’essenzializzazione: <Amerai… Amerai> (22, 37-38). Rut ci dà un esempio concreto di ciò che significa entrare in questa logica di amore incarnato piuttosto che programmato: <Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io, e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio> (Rt 1, 21).

Ciò che avviene sulla strada che porta dalla terra di Edom a Betlemme è quella necessaria inversione dei fattori che permette non solo di arrivare allo stesso risultato, ma sembra persino purificarlo e renderlo più pieno. Alla preoccupazione talora ossessiva di ogni forma religiosa di trovar e dare un posto conveniente a Dio nella vita dell’uomo sembra corrispondere l’invito a ricominciare, ogni giorno, dalla concretezza delle nostre relazioni umane attraverso la cui autenticità ci è dato di riconoscere in noi stessi e negli altri il segno del sigillo della divina presenza. Magnificamente il testo della prima lettura annota che le due donne <arrivarono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo> (1, 22). L’esodo al contrario voluto da Elimelech in cerca di fortuna e di sopravvivenza lontano dalla terra promessa in cui, lui e i suoi due figli maschi troveranno invece la morte, porta il suo frutto nell’amore solidale e assolutamente concreto che si è creato tra Noemi e Rut.

La Scrittura sembra ricordarci che la principale artefice di questa speranza nella più assoluta disperazione è la moabita Rut che invece di programmare e scegliere la propria vita sembra essere totalmente intenta ad assumere le costrizioni della vita trasfigurandole in un’occasione di più grande amore. Potremmo dire che si comincia a <mietere> nella vita solo quando si accetta di rinunciare consapevolmente a difendersi dalle esigenze di un amore fattivo e intessuto di scelte semplici e concrete. Il <pane> (1, 13) di cui tutti abbiamo bisogno è soprattutto il pane che possiamo condividere in modo da nutrire non solo il nostro bisogno di sopravvivenza, ma prima ancora, di dare ali al nostro desiderio di vivere in pienezza. Il primo passo di conversione che Rut ha vissuto in modo così tanto naturale quanto poco religioso, è ciò che sembra ricordarci con la sua risposta il Signore Gesù che ci chiede, delicatamente eppure così chiaramente, di rinunciare al <grande comandamento> (Mt 22, 36) per piegarci ai “piccoli comandamenti” che presiedono alla fatica di scegliere il passo seguente della nostra vita.

Ammutolì

XX settimana T.O. –

In realtà la parabola che il Signore Gesù rivolge ai capi dei sacerdoti e ai farisei ne contiene un’altra ancora più tagliente. Alla prima immagine degli invitati che rifiutano di partecipare al banchetto di nozze e sono sostituiti da <tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni> tanto che <la sala di nozze si riempì di commensali> (Mt 22, 10), segue quella di <un uomo che non indossava l’abito nuziale> (22, 11). Il testo ci dice che alla domanda postale dal padrone di casa <Quello ammutolì> (22, 12). Si tratta di un silenzio greve in cui si manifesta l’inconsapevolezza e la superficialità nell’accogliere il dono senza lasciarsi veramente cambiare dal dono di un invito che dovrebbe sorprendere fino a cambiare radicalmente. Al cuore dell’intera parabola campeggia una sorta di primo piano su quelli che sono i sentimenti profondi di questo padrone di casa totalmente intento ad organizzare <una festa di nozze> (22, 2). Il sentimento suona così: <Allora il re si indignò> (22, 7). La parabola nella parabola ci mette di fronte all’indignazione da una parte e ad un drammatico mutismo dall’altra!

Ciò che il Signore Gesù sembra volerci comunicare con questa parabola è la necessità di rendersi conto di ciò che riceviamo e di ciò che ci viene donato come opportunità. Questo riguarda certamente coloro che <non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari> e peggio ancora <altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero> (22, 6). Ma riguarda pure quell’invitato dell’ultima ora che è rimasto tale e quale a come era prima, senza lasciarsi veramente toccare e cambiare dall’invito ricevuto. La parabola di quest’oggi sembra completare quella che la precede nella sequenza liturgica dell’ascolto dei testi. Essere chiamati alla prima o all’ultima ora, essere i primi destinatari di un invito o di un annuncio o essere i sostituti di quanti hanno declinato non è la cosa più importante. Ciò che fa la differenza è quello che avviene nell’intimo del nostro cuore come cammino e processo di crescita e di trasformazione che, se disatteso, può trasformarsi in invidia rovente o in una sorta di algida inconsapevolezza.

In questo senso la figura non facile della figlia di Iefte con la sua disponibilità ad essere sacrificata per compiere il voto forse affrettato di suo padre acquista tutta la sua profondità: <Padre mio, se hai dato la tua parola al Signore, fa’ di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca> (Gdc 11, 36). Di certo non possiamo giustificare nessun sacrificio umano né, tantomeno, l’immolazione cruenta di nessuna parte né di noi stessi né degli altri, ma questo racconto ci ricorda quanto una relazione liberamente accolta può coinvolgerci totalmente e serenamente. Con la liturgia bizantina chiediamo al Signore <di illuminare l’abito indossato dalla nostra anima> perché ci lasciamo rivestire dall’invito che ci viene rivolto per essere collaboratori della gioia di un Dio sempre intento a preparare una festa di nozze che dia a tutti speranza e slancio per un di più di vita e di corresponsabilità per l’allegrezza di tutti.

Buono!

XX settimana T.O. –

Nella Liturgia della Parola che ci accompagna in questi giorni, si respira quasi una certa urgenza. Non possiamo certo dimenticare la risposta che il Signore Gesù ha dato a quel giovane che prima lo interroga e poi se ne va triste per la sua strada: <Buono è uno solo.> (Mt 19, 17). Questa immagine sembra ora ritornare in modo ancora più forte quasi come una divina provocazione lanciata verso il nostro modo di sentire e concepire i rapporti: <Oppure sei invidioso perché io sono buono?> (Mt 20, 15). La bontà di Dio si esprime in una capacità di andare oltre il merito per guardare invece al bisogno di ciascuno fino a saperlo ricolmare in pienezza. Ciò che viene detto dal Signore Gesù nella parabola non fa che confermare ciò che viene intuito dalla parabola che troviamo nella prima lettura ove: <Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi> (Gdc 9, 8). Quella degli alberi che camminano sembra un sogno che rimane sospeso nell’inconscio umano da sempre tanto da comparire in molte fiabe antiche e moderne.

Gli alberi in realtà si rifiutano tutti di regnare sui loro simili perché sono ben paghi della loro realtà. Alla fine solo il rovo si lascia corrompere per così dire da se stesso e dalla sua propria stoltezza: <Se davvero mi ungerete su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano> (9, 15). Se mettiamo in relazione le due parabole potremmo arriva a dire che gli operai della prima ora i quali nel ritirare il loro salario <mormoravano> (Mt 20, 11) si comportano proprio come il rovo. Infatti, sembra che non si siano resi conto del dono che è stato loro concesso e invece di essere grati sono infastiditi dalla grazia che è stata usata anche agli altri.

Spesso ci identifichiamo con i primi chiamati a lavorare nelle vigna, ma, forse a ben guardare, siamo tutti un po’ ritardatari e <senza far niente> (20, 6). La cosa più importante è che il padrone della vigna ci ha presi a giornata noi che siamo stata scartati e non siamo stati assunti da nessun altro. Vivere in questa coscienza e gratitudine dovrebbe cambiare il nostro modo di guardare e di valutare gli altri. Il <rovo> di cui ci parla la prima lettura è così diverso da quel <roveto> che arde senza consumarsi e soprattutto senza consumare chi si avvicina ma diventando, al contrario, luogo di relazione e di rivelazione. Il fuoco della bontà non brucia ma cuoce, mentre la gelosia e l’invidia non possono che consumare fino ad annientare. Alla fine dell’apologo narrato nel libro dei Giudici proprio il rovo, che non è nemmeno degno di essere chiamato albero, accetta di porsi come re degli alberi portando tutto e tutti e alla rovina. Ciò che manca al rovo è la saggezza di riconoscere di non essere un albero e di agire per questo diversamente dagli alberi, senza entrare in competizione con loro e tenendosi serenamente al suo posto.

Farsi salvare

XX settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù sono un po’ esasperanti: <In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli> (Mt 19, 23). E se non bastasse la cosa viene ribadita e radicalizzata con un esempio che sembra scoraggiare ogni speranza: <Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio> (19, 24). Per comprendere la parola del Signore, ci viene in aiuto la prima lettura ove la domanda di Gedeone nasconde già la risposta che il Maestro darà a Pietro: <Perdona, mio Signore: come salverò Israele? Ecco la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre> (Gdc 6, 15). La risposta è lapidaria: <Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo> (6, 16). In realtà, non c’è nessuna possibilità di salvarsi, se non nella misura in cui si acconsente ad essere salvati. Il dialogo che il Signore Gesù intesse con i suoi discepoli è la continuazione dello shock di quel giovane che si allontana in modo così toccante ed inquietante.

Al cuore dell’incontro tra il Maestro e il <giovane> discepolo mancato vi è l’evocazione dei comandamenti elencati nella seconda tavola delle Torah ove troneggia l’invito a non rubare. Il ricco, secondo la logica del Vangelo, è sempre un ladro potenziale perché, confidando sulle proprie ricchezze, è meno incline a fare affidamento sulla grazia di un dono tutto da ricevere e sempre da condividere. Un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli, proprio perché avrà la tendenza a non lasciarsi accogliere pensando di potervi accedere con i propri mezzi quasi ne avesse il diritto. Eppure, il Signore non lascia nello sconcerto totale i suoi discepoli, ma li incoraggia con una promessa: <In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele> (Mt 19, 28). Perché questo avvenga bisogna accettare di entrare nella logica del <Figlio dell’uomo> che è una logica di perdita, di offerta, di kenosi e non di “ruberia spirituale”.

Sempre la grande tentazione è quella di presentarci davanti a Dio come dei cammelli che, nella Scrittura, sono segno di ricchezza (cfr. Gb 42, 12) poiché <sulle loro gobbe trasportano tesori> (Is 30, 6). Di fatto il giovane che si era presentato a Gesù si offriva al suo sguardo “ben carico” delle sue osservanze mentre il Signore gli chiede di alleggerirsi il più possibile. La risposta dei discepoli se è costernata è pure molto sincera. Tutti, infatti, o siamo o ci sentiamo dei cammelli carichi di una qualche ricchezza da offrire. In ciascuno di noi vi è una tale paura di non essere accolti nella nostra povertà da indurci a dimenarci pur di offrire qualcosa per dimostrare all’altro che valiamo qualcosa e che non siamo poi così miserabili: <Intanto, non te ne andare di qui prima che io torni a te e porti la mia offerta da presentarti> (Gdc 6, 18). Sempre il Signore accoglie le nostre offerte, ma ci porta oltre ogni nostra offerta permettendoci così di farci salvare per poter, finalmente, veramente salvare.