Visitare
XIV Settimana T.O. –
Professare apertamente e coraggiosamente la propria fede non significa certo, nella logica e nello stile del Vangelo, esibirsi temerariamente agli occhi del mondo, ma affermare che Cristo, il crocifisso-risorto, è signore della nostra vita. Così, solo così, saremo portatori e annunciatori di una luce e di una benedizione capaci di illuminare e riscaldare gli angoli più oscuri e freddi della realtà umana. L’invito del Signore Gesù a proclamare dalle <terrazze> (Mt 10, 27), non è uno sprone a imporsi e, tantomeno, a fare dell’annuncio del Vangelo una sorta di show. Quella del Signore Gesù è l’esortazione a mettersi in gioco interamente e con tutta la propria vita fino al rischio di osare una parola che ci coinvolgerà, in modo forte, nella relazione con gli altri. Le <terrazze> di cui parla il Vangelo non sono certo i “tetti” delle case del nord dove la presenza di qualcuno sarebbe recepita come strana, pericolosa e comunque originale. Esse sono i luoghi dove la gente vive e si incontra all’aperto e dove i bambini giocano rincorrendosi da una terrazza all’altra. Letta così l’esortazione del Signore non è quella di “esibire” il Vangelo in modo strano, ma di lasciare che il messaggio penetri nel tessuto della quotidianità perché esso ne possa, semplicemente ed efficacemente, animare la speranza.
La conclusione della lettura del primo libro delle Scritture – che ci fa sostare sull’esperienza di Giuseppe – è una sorta di professione di fede condivisa: <Dio verrà certo a visitarvi…> (Gn 50, 25). Questa certezza nel futuro nasce da una consapevolezza profonda e sofferta del fatto che Dio ha visitato la sua esistenza e ne ha accompagnato i passi in modo non sempre facile da comprendere e da vivere, eppure così sicuro e certo da poter confidare che non potrà che essere così anche per gli altri. Ciò che il Signore chiede ai suoi discepoli è di vivere non con atteggiamento di “sufficienza”, ma nella profonda consapevolezza che è <sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro> (Mt 10, 25). Se facciamo memoria ogni giorno del mistero pasquale, in particolare quando celebriamo l’Eucaristia, non possiamo che costatare come non ci sarà nulla che possa turbare il nostro cuore.
In pochi versetti, più volte, il Signore raccomanda di non cedere alla <paura> (10, 26) che è l’origine di ogni male e di ogni peccato e non solo in relazione a Dio (cfr. Gn 3, 10), ma pure in relazione ai nostri fratelli e sorelle in umanità. La storia di Giuseppe ci rammenta, in modo chiaro, che l’origine di tanto dolore – nella difficile fraternità tra i figli di Giacobbe – nasce e si nutre di <paura> (Gn 50, 15), una paura dalla cui morsa purtroppo sembra non riuscire ad uscire e neppure leggere la realtà se non in modo distorto e negativo. La risposta di Giuseppe è in tutto simile all’esortazione del Signore Gesù: <Non temete…> (50, 19). Essere discepoli di Cristo e figli dei nostri padri nella fede, comporta il non lasciarsi ottenebrare il cuore dalla paura, per poter, così, essere persino traditi e uccisi senza perdere non solo la fede, ma conservando intatta la fiducia. Questa invincibile serenità di sguardo, non può che nascere dalla certezza di essere stati visitati dal passaggio di Dio nella nostra esistenza, un passaggio che fa, della nostra vita, un continuo tentativo di visitare, con la medesima pace, la vita degli altri per liberarla dal timore e dal sospetto.
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