Il tuo nome è Gloria, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

Possiamo dare un contenuto preciso a quanto ci viene raccontato dagli Atti degli Apostoli in riferimento a Stefano che <pieno di Spirito Santo, fissando il cielo vide la gloria di Dio, e Gesù che stava alla destra di Dio> (At 7, 55). Ciò che Stefano contempla è ciò che egli stesso, in prima persona sta per vivere affrontando, serenamente e con coraggio, la sua stessa morte in tutto simile a quella del suo Signore. Ciò che destabilizza il Sinedrio, nella testimonianza che Stefano porta al Signore Gesù da lui riconosciuto come il Messia atteso, è il fatto che il dono promesso da Dio al suo popolo si è dato in modo molto diverso da quelle che erano le attese messianiche. Sentiamo l’eco di questa profonda differenza nella discussione che si instaura dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci. La folla rammenta a Gesù che <I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”> (Gv 6, 31). Dicendo questo la folla avanza una sottile pretesa nei confronti del Signore che potremmo tradurre così: “Continua a nutrirci senza che dobbiamo faticare”. Attorno al pane e ai pesci nasce una discussione analoga a quella sorta al pozzo di Giacobbe con la Samaritana che chiede al Signore di risparmiarle finalmente quella pena quotidiana di dover andare e venire dal pozzo per attingere acqua.

Il <pane dal cielo> diventa nell’annuncio del Signore qualcosa di completamente nuovo: <il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo> (6, 33). Come la Samaritana accanto al pozzo così la folla sulla riva del lago: <Signore, dacci sempre questo pane> (6, 34). La folla fa fatica a comprendere che il Signore ha moltiplicato il pane non perché è uno che dà il pane, ma perché si fa pane fino a dire con solennità poco compresa perché troppo impegnativa nelle sue conseguenze esistenziali: <Io sono il pane della vita> (6, 35). Il passaggio dall’essere semplicemente parte di una folla beneficata ad essere discepoli capaci ormai di spezzare il pane della propria vita, sta proprio nel comprendere questa differenza fondamentale il tra il dare il pane e farsi pane.

Stefano lo ha compreso in modo preciso tanto da lasciare che la sua vita sia presa e macinata sotto le pietre della lapidazione che lo rendono in tutto e per tutto simile al suo Maestro tanto da dire le sue stesse parole non prima di aver acconsentito ad essere trattato allo stesso modo: <Signore, non imputare loro questo peccato> (At 7, 60). Stefano fa interamente sue le parole del Salmo: <Io confido nel Signore. Esulterò e gioirò per la tua grazia> (Sal 30, 7-8). Ora tocca a noi di smettere di discutere per cominciare, invece, a panificare per donare la nostra vita come dono che rallegra e conforta i nostri fratelli e sorelle in umanità. La celebrazione dell’Eucaristia non è altro che questo consenso del nostro cuore ad essere trasformati in ciò che mangiamo accettando di essere a nostra volta consumati dalla fame degli altri… secondo il loro gusto e il loro bisogno. Per riprendere un testo di Ireneo di Lione: <La gloria di Dio è l’uomo che vive>. Potremmo aggiungere: la gloria di Dio è l’uomo che si fa pane come il suo Signore: questa è l’unica nostra gloria.

Il tuo nome è Rabbì, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La domanda che la folla rivolge al Signore Gesù rivela come la gente avverta la necessità della sua presenza: <Rabbì, quando sei venuto qua?> (Gv 6, 25). Quando poniamo a qualcuno domande di questo tipo non facciamo che manifestare – tra le righe del nostro discorso – quanto abbiamo bisogno di questa presenza per vivere meglio, per sentirci più vivi e per avvertire quel conforto di cui abbiamo bisogno. Quello che avviene dopo la moltiplicazione e la condivisione dei pani e dei pesci, è una sorta di inseguimento tanto che <Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù>. Questa ricerca non è assolutamente vana perché <Lo trovarono al di là del mare> (6, 24-25). Questo rincorrersi un po’ ci stupisce… sia da parte della folla, sia da parte del Signore Gesù che sembra giocare a nascondino. Il motivo di tutto questo movimento può essere colto come un simbolo della preoccupazione da parte del Signore che la gente sfamata con i pani e i pesci tanto da essere rinfrancata e rafforzata da questo cibo, non si accomodi, ma, al contrario, si metta in cammino; non si fermi nella sua ricerca, ma la porti avanti con passione e decisione.

Il nome con cui la gente indica il Signore è <Rabbì>! E il Signore come maestro si fa seguire fino a farsi inseguire per obbligare ciascuno a fare un lungo e necessario percorso per verificare se e fino a che punto questa ricerca e questa devozione discepolare siano autentiche. Alla fine di questo lungo capitolo il risultato più significativo sarà proprio la constatazione che se tutti hanno mangiato, non tutti si aprono alla fede sapendone assumere tutte le esigenze connesse. Nel gran movimento di barche – tra gente che salpa e gente che approda – si inserisce la parola esigente del Signore: <In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati>. Questo ha una conseguenza assai chiara che fa la differenza: <Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà> (6, 26-27). Potremmo tradurre tutto questo come una provocazione da parte del Signore: “se mi volete come rabbì, dovete imparare ad essere docili e non semplicemente grati”.

La figura di <Stefano, pieno di grazia e di potenza> (At 6, 8) diventa così icona del discepolo autentico che si fa in tutto conforme, non solo agli insegnamenti del maestro, ma soprattutto al suo stile e al suo modello di vita. Il segno di questa intima docilità che si fa conformazione nella vita e nella morte, è la condivisione della stessa sorte che crea lo stesso atteggiamento di rifiuto: <Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio> (6, 11). In realtà Stefano non ha mai detto – come del resto il suo Signore e Maestro – nessuna parola blasfema, ma ha messo in crisi quel sistema di controllo e di potere che è l’unica vera blasfemia perché è il risultato dell’idolatria di se stessi.

Il tuo nome è Stare, alleluia!

III Domenica di Pasqua –

L’evangelista Giovanni ci porta ben lontano, veramente al largo nella necessaria comprensione del mistero di Cristo che, Risorto dai morti, continuamente ci precede nelle vie della vita. Mentre gli apostoli cercano di ritrovare se stessi dopo il dramma pasquale ritrovando la vita di sempre, il Signore Risorto <stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù> (Gv 21, 4) mentre il Maestro sapeva bene chi erano i suoi discepoli. La Pasqua ha cambiato realmente tutto e in modo così radicale che non basta riprendere le abitudini di prima per ritrovare il proprio cammino. È necessario, per così dire, fare i conti con la Pasqua e il Signore Gesù sta sulla riva per aiutare e accompagnare i discepoli e non far finta di nulla e a non dimenticare… anzi a fare memoria e quindi essere in grado di fare un passo avanti nella loro comprensione del mistero della vita piuttosto che cercare in tutti i modi tornare indietro.

Se ci lasciamo guidare dalla sapienza della Liturgia possiamo mettere in parallelo il passo dell’Apocalisse con ciò che ci viene raccontato dal Vangelo. È come se si trattasse di due liturgie: una celeste e l’altra terrestre, una cultuale e l’altra esistenziale. Eppure, sarebbe proprio la riva del lago ad essere il luogo più giusto e più vero che sciogliere il proprio cuore nell’acclamazione: <A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli> (Ap 5, 13). Si potrebbe osare un’immagine che rasenta la banalizzazione irriverente, ma che pure rischia di essere particolarmente efficace: nel mistero dell’abbassamento pasquale del Verbo fatto carne, Dio ormai <siede sul trono> come una madre di famiglia sta ai fornelli per poter invitare tutti con amorevole allegrezza: <Venite a mangiare> (Gv 21, 12).

La conclusione della prima lettura ci attesta come e quanto, in realtà, gli apostoli, infine, sono stati capaci di entrare nel mistero della risurrezione fino a saper rischiare e donare tutta la loro vita: <Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù> (At 5, 41). La fecondità pasquale se è il frutto maturo del cammino di Gesù in mezzo a noi, rappresenta anche una rottura radicale nel modo della sua presenza. Ciò viene suggerito da una sorta di trasformazione numerica che, per gli antichi, è il modo più adeguato per indicare un radicale e irreversibile mutamento del reale. I discepoli non sono né i Dodici, né gli Undici degli altri racconti della risurrezione – questa è infatti la <terza volta> – sono ormai sette, numero che indica la pienezza e la perfezione come nel settenario della creazione. Ma soprattutto essi non vengono ricordati con l’evocazione di un numero, ma con la precisa ripetizione del nome di ciascuno dei primi tre, l’evocazione del legame di altri due e un numero, infine, che lascia aperto ogni nome possibile: <si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli> (21, 2). A questo compare un modo nuovo di porsi: <Io vado a pescare> cui segue un <Veniano anche noi con te> (21, 3). Vi è un’ultima parola del Risorto: <Seguimi> (21, 19). Ormai è il tempo della solitudine, del cammino della fede vissuto, certo e necessariamente, in comunione profonda con gli altri discepoli, ma aperti all’irriducibile dell’esperienza personale che è unica e irripetibile: <… e ti porterà dove tu non vuoi> (Gv 21, 18).

Ton nom est Rester, alléluia !

III Dimanche de Pâques –

L’évangéliste Jean nous emmène bien loin, vraiment au large de la compréhension nécessaire du mystère du Christ qui, Ressuscité des morts, nous précède continuellement sur les chemins de la vie. Pendant que les apôtres cherchent à se retrouver après le drame pascal en reprenant la vie de toujours, le Seigneur Ressuscité « parut sur le rivage, mais les disciples ne reconnurent pas que c’était Jésus » ( Jn 21, 4 ), alors que le Maître savait bien qui étaient ses disciples. Pâques a réellement changé tout de façon si radicale qu’il ne suffit pas de reprendre les habitudes d’avant pour retrouver son chemin. Il est nécessaire, pour ainsi dire, de compter avec Pâques et le Seigneur Jésus se tient sur la rive pour aider et accompagner les disciples à ne pas faire semblant et à ne pas oublier…donc à faire mémoire et à être capable de faire un pas en avant dans leur compréhension du mystère de la vie plutôt que de chercher à tout prix de retourner en arrière.

Si nous nous laissons guider par la sagesse de la Liturgie, nous pouvons mettre en parallèle le passage de l’Apocalypse et ce que nous décrit l’Evangile. C’est comme s’il s’agissait de deux liturgies : l’une céleste et l’autre terrestre, l’une cultuelle et l’autre existentielle. Pourtant, ce sera vraiment la rive du lac qui sera le lieu adéquat et véritable qui fera fondre le coeur dans l’acclamation : «  A celui qui sied sur le trône et à l’Agneau, louange, honneur, gloire et puissance pour les siècles des siècles » ( Ap 5, 13 ). L’on pourrait oser  une image frôlant la banalisation irrévérente, mais qui risque d’être particulièrement efficace : dans le mystère de l’abaissement pascal du Verbe fait chair, Dieu, désormais, «  siège sur le trône » comme une mère de famille reste aux fourneaux pour pouvoir inviter tous avec une joie amoureuse : «  Venez et mangez » ( Jn 21, 12 ).

La conclusion de la première lecture nous atteste comment et quand, en réalité, les apôtres, enfin, ont été capables d’entrer dans le mystère de la résurrection jusqu’à savoir risquer et donner leur vie : «  Pour eux, ils s’en allèrent, alors du Sanhédrin, tout joyeux d’avoir été jugés dignes de subir des outrages au Nom de Jésus » ( Ac 5, 41 ). Si la fécondité pascale est le fruit mur du chemin de Jésus au milieu de nous, elle représente aussi une rupture radicale dans sa façon d’être présent. Ceci est suggéré par une sorte de transformation numérique qui, pour les Anciens, est la meilleure manière d’indiquer une radicale et irréversible mutation du réel. Les disciples ne sont ni les Douze, ni les Onze des autres récits de la résurrection – ceci est en fait la «  troisième fois » – ils sont désormais sept, chiffre qui indique la plénitude et la perfection comme  le septénaire de la création. Mais, surtout, l’on ne se souvient pas d’eux par l’évocation d’un chiffre, mais par la précise répétition de chacun des trois premiers, par l’évocation du lien des deux autres et un nombre qui, enfin, laisse la porte ouverte à tout nom possible : «  Simon Pierre, Thomas dit Didime, Nathanaël de Cana de Galilée, les fils de Zébédée et deux autres disciples » ( 21, 2 ).  A cette nouvelle façon de se présenter apparaît : « Je vais pêcher », suivi de «  nous venons aussi avec toi ».( 21, 3 ) .Il y a une dernière parole du Ressuscité : «  Suis-moi » ( 21, 19 ). Voici maintenant venu le temps de la solitude, du chemin de la foi vécue, certain et nécessairement en communion profonde avec les autres disciples, mais ouvert à l’irréductibilité de l’expérience personnelle unique et irremplaçable : «  …et il te mènera où tu ne voudrais pas » ( Jn 21, 18 ).

Il tuo nome è Comunione, alleluia!

Ss. Filippo e Giacomo –

Le preghiere che la Liturgia dell’Eucaristia di questo giorno fa pronunciare al presidente, a nome di tutto il popolo, tracciano un itinerario di fede con tutte le sue esigenze e i suoi necessari passaggi. La Colletta unisce all’esultazione, a motivo della possibilità che ci viene data di festeggiare due apostoli, la necessaria supplica: <concedi al tuo popolo di comunicare al mistero della morte e risurrezione del tuo unico Figlio, per contemplare in eterno la gloria del tuo volto>. In forma di preghiera si riprende – potremmo dire in forma riveduta e corretta – la supplica di Filippo rettificata dalla risposta del Signore Gesù: <Signore, mostraci il Padre e ci basta>. La reazione del Maestro sembra ancora scuotere il cuore dei credenti di oggi come quello dei discepoli un tempo: <Chi ha visto me, ha visto il Padre> (Gv 14, 8-9). In altre parole, il Signore ci chiede di rinunciare alla visione per accontentarci – per così dire – di vedere solo attraverso l’amore, tanto da desiderare ed essere capaci di avere occhi per l’amore: <Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?> (14, 10).

Questa parola così nitida del Signore Gesù è il riassunto di tutto ciò che è sotteso a ciò che viene altrettanto solennemente evocato dall’apostolo Paolo: <Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato> (1Cor 15, 1-2). Il Vangelo che salva è la capacità di assumere fino in fondo la sfida dell’incarnazione che, se si basa sullo svuotamento del Verbo e sui suoi abbassamenti, comporta anche la nostra rinuncia a tutto ciò che non passa attraverso il limite e la fragilità della nostra realtà personale e relazionale. Per questo la preghiera si fa ancora più forte al momento dell’Offertorio: <concedi anche a noi di servirti con una religione pura e senza macchia>. Ad un orecchio allenato alle Scritture il riferimento a Giacomo è evidente, ma vale la pena esplicitarlo con le stesse parole con cui l’apostolo Giacomo caratterizza la <religione pura e senza macchia> con queste precise parole: <soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni> (Gc 1, 27).

La risposta data da Gesù a Filippo porta le sue estreme conseguenze nelle parole di Giacomo: se bisogna accettare di vedere il volto del Padre in quello di Gesù, bisogna andare ancora più lontano fino ad accontentarsi di vedere il volto di Gesù in quello dei fratelli e delle sorelle in cui lo splendore della luce divina rischia di essere offuscato dalla fragilità e dalla precarietà. Allora la preghiera dopo la comunione assume tutta la sua profondità rivolgendosi, con audacia, direttamente al Padre: <ci purifichi e ci rinnovi perché, in unione con gli apostoli Filippo e Giacomo, possiamo contemplare te nel Cristo tuo Figlio e possedere il regno dei cieli>. Amen!

Il tuo nome è Piano, alleluia!

II Settimana di Pasqua –

Dopo una nervosa discussione nel Sinedrio per mettere a tacere gli apostoli, il lungo intervento di Gamaliele sortisce l’effetto di attenersi al suo saggio <parere> (At 5, 39). Questo saggio maestro ebbe il privilegio di educare l’ardente Saulo seminando nel suo cuore non solo la radicalità della devozione secondo la tradizione dei padri, ma pure una segreta apertura da cui è passato il lievito del Vangelo di Cristo che ha reso il suo insegnamento un nutrimento sostanzioso per generazioni di credenti. La saggezza di Gamaliele nasce da un cuore capace di leggere con onestà e lealtà la realtà senza illudersi di poter piegare il corso della storia alle proprie visioni né tantomeno di dirigerlo attraverso le proprie paure: <Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana verrebbe distrutta; ma se viene da Dio non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!> (5, 38-39). Gamaliele è un uomo <stimato da tutto il popolo> (5, 34) che oggi diremmo essere un vero pastore che non approfitta della sua posizione, ma rimane un autentico discepolo che si lascia interrogare dalla storia e si lascia sorprendere dal <piano> di Dio che raramente segue i nostri tempi e i nostri modi. Gamaliele è un rabbino che non è caduto nella trappola del “clericalismo” che, come ebbe a dire papa Francesco all’inizio del suo ministero, rischia di essere <untuoso e presuntuoso>1.

Il Signore Gesù, della cui parola e dei cui gesti gli apostoli si fanno continuazione e attuazione nella storia, potremmo dire essere della “scuola di Gamaliele”. Il lungo capitolo sesto di Giovanni in cui il Cristo definisce se stesso come <pane> comincia con una nota e con una domanda. La prima nota riguarda il suo sguardo che si rivela attento e decentrato da se stesso: <vide che una grande folla veniva da lui> (Gv 6, 5). Questo sguardo di attenzione che i sinottici identificano con la <compassione> (Mc 6, 34) si fa interrogazione: <Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?> (Gv 6, 5). Questo duplice movimento di constatazione e di interrogazione è l’anima stessa della vita della Chiesa fondata sulla logica eucaristica che il Signore ci propone in questo capitolo giovanneo che leggiamo ogni anno durante il tempo pasquale. La comunità dei discepoli del Signore vive la sua relazione con il Maestro come un luogo di passaggio della compassione che va da Cristo a tutti coloro che hanno bisogno di attenzione e di cura. Ogni giorno la Chiesa è chiamata a rinascere attraverso la celebrazione dell’Eucaristia a questa sua vocazione fondamentale e fondante che dal sacramento continuamente passa all’esistenza di tutti.

Vi è una terza nota che non va sottovalutata per evitare che l’Eucaristia perda il suo senso più profondo: <Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo> (Gv 6, 15). Non c’è nessuna possibilità di guadagno, ma solo di perdita. Non sarà mai “re” come si aspetta la gente… come noi stessi ci aspetteremmo e desidereremmo (1Sam 8, 20). Quel <ragazzo> (Gv 6, 9) di cui Andrea parla al Signore Gesù è l’unico che si trova già nel piano di Dio e che invece di esprimere un <parere> (At 5, 39) compie un gesto che crea uno stile… lo stile eucaristico, lo stile evangelico.


1. Messa Crismale del 2014

Il tuo nome è Veritiero, alleluia!

II Settimana di Pasqua –

Nel dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo risplende una luce particolare attraverso una parola che non solo ci interroga, come l’intero discorso fatto dal Signore al suo interlocutore, ma pure ci chiede di aprire gli occhi su un modo di essere di Dio che forma il nostro stesso modo di pensare e di agire. Di tutto ciò si fa interprete lo stesso Giovanni Battista che sembra continuare e confermare quanto il Signore ha appena annunciato a Nicodemo: <Chi ne accetta la testimonianza, conferma che Dio è veritiero> (Gv 3, 33). Potremmo dire che il fondamento della verità divina è ciò che viene detto solennemente subito dopo: <Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa> (3, 35). Si tratta non di una verità dogmatica, ma di una verità di relazione che si attua in un dono continuo e assoluto che diventa il fondamento stesso di ogni obbedienza che sia secondo il Vangelo. Alla luce di questa rivelazione della stessa vita intima di Dio possiamo comprendere il senso profondo della reazione degli apostoli alle ingiunzioni del Sinedrio: <Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini> (At 5, 29). Questa parola degli Apostoli potrebbe essere intesa così: “Bisogna obbedire come Dio!”.

Se contempliamo in modo attento il mistero della vita intima di Dio ci rendiamo conto che a presiedere la vita divina è un gioco infinito di dono: <Colui infatti che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito> (Gv 3, 34). A questa logica di comunicazione non solo continua, ma pure assoluta, si oppone l’ingiunzione e la lamentela del Sinedrio: <Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo> (At 5, 29). In questo l’atteggiamento del Sinedrio non è affatto <veritiero> (Gv 3, 33) perché si sottrae al confronto leale e aperto con la storia preferendo la via dell’oblio e dell’occultamento. Diverso è il cammino di testimonianza dei discepoli del Risorto chiamati continuamente a lasciarsi rischiarare dalla luce di una relazione che “fa verità” nella e sulla propria vita e per questo è capace di ordinare ogni cosa e ogni relazione perché sia manifestazione ed espressione di una relazione più profonda ed essenziale.

La verità non è un concetto astratto che rischia di diventare persino un’arma contro gli altri, ma è un atteggiamento di obbedienza alla vita che ha bisogno di una crescente e sempre più matura capacità di mettersi in ascolto con ambedue le orecchie del cuore e dell’anima: una tesa verso l’altro della relazione con Dio e l’altra ricettiva di tutto ciò che ci raggiunge e ci interpella attraverso le esigenze dei nostri compagni di cammino. La <conversione e perdono dei peccati> (At 3, 31) si invera in un atteggiamento di ascolto e di obbedienza non servile, ma creativo e inventivo che non può certo entusiasmare quanti fondano le loro relazioni di potere sulla paura: <All’udire queste cose essi si infuriarono e volevano metterli a morte> (3, 33).