Tempo

XV Settimana T.O. –

L’autore del libro dell’Esodo non ha peli sulla lingua e ci fa percepire in tutta la sua crudezza ciò che avviene dopo il lungo processo di purificazione che viene coronato dall’uscita dall’Egitto: <infatti erano stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio> (Es 12, 39). Sembra proprio che l’esodo possa e debba cominciare in tutta la sua grandiosa drammaticità quasi per costrizione: come Israele era sceso in Egitto a motivo della costrizione della carestia, lascia l’Egitto perché – dopo essere stati a lungo trattenuti – i suoi figli vengono scacciati in tutta fretta. Con questa nota così chiara possiamo comprendere l’Esodo come un atto di obbedienza alla vita che manifesta le sue esigenze in un intreccio misterioso tra i nostri desideri e le nostre scelte e tutta una serie di spinte e di obbligazioni che sono fuori dalla nostra portata e dal nostro controllo e sembrano quasi costringere lo stesso Signore a piegarsi sulla storia per poterla poi dirigere verso un compimento di salvezza.

La prima lettura ci fa contemplare l’inizio dell’esodo dei figli di Israele cui si unisce, quasi conquistata da questa drammatica speranza di un futuro migliore per quanto tremendamente incerto, <una grande massa di gente promiscua> (Es 12, 38). Da parte sua, il Vangelo ci mette di fronte ad una dura constatazione: <i farisei uscirono e tennero consiglio contro Gesù per farlo morire> (Mt 12, 14). L’esodo del popolo di Israele, che risale dall’Egitto verso la terra dei padri, diventa così cifra dell’esodo del Signore da questo mondo al Padre con cui è stata aperta per tutti noi la strada della terra promessa e la porta del Regno. Come l’Egitto scacciando Israele sembra chiudersi alla condivisione di una storia di salvezza, così la chiusura dei farisei è come se permettesse a <molti> (12, 15) di seguire il Signore Gesù che <li guarì tutti>! Ogni cammino di liberazione è come un processo di guarigione per questo si rende necessaria la collaborazione attiva e generosa del malato oltre alla dedizione e alla capacità medica del terapeuta.

Proprio mentre l’evangelista rivela la chiusura del cuore dei farisei, ci fa sentire il profumo sottile di una promessa amorosa che nessun odio piò spegnere: <nel suo nome spereranno le nazioni> (Mt 12, 21). La speranza senza mai essere febbrile e precipitosa è, per sua natura, dolcemente affrettata per correre senza distrazione, né inutili rimandi verso il fine del proprio cammino. In ogni modo non si può e non si deve dimenticare che ogni processo per essere autentico e duraturo ha bisogno del tuo tempo: <La permanenza degli Israeliti in Egitto fu di quattrocentotrent’anni>. Questa constatazione temporale sembra stare particolarmente a cuore all’agiografo che sente il bisogno di riprenderla e di sottolinearla: <Al termine dei quattrocentotrent’anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dalla terra d’Egitto> (Es 12, 40-41). Da parte sua, l’evangelista annota con precisione e arguzia: <perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta…> (Mt 12, 17). Anche noi siamo in cammino e talora ci sentiamo costretti al cammino e quasi scacciati: diamo tempo al tempo e non perdiamo nessuna occasione per compiere il passo richiesto dalla vita che è sempre il passo necessario per la vita.

Pasqua

XV Settimana T.O. –

La lettura liturgica del libro dell’Esodo ci fa fare un salto di vari capitoli ed è come se ci portasse direttamente all’epilogo del lungo percorso di purificazione. Questo lungo processo è ritmato dalle “piaghe d’Egitto” attraverso cui il Signore Dio cerca di curare fino a guarire il popolo dell’Egitto che diventa simbolo del nostro stesso cuore bisognoso di essere liberato dalle malattie dell’anima. Perché questa guarigione possa realmente avvenire è necessario far suppurare il veleno di quell’egoismo che, chiudendoci agli altri, in realtà uccide il meglio di noi stessi: <Mosè e Aronne avevano fatto tutti questi prodigi davanti al faraone; ma il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone, il quale non lasciò partire gli israeliti dalla sua terra> (Es 11, 10). L’ostinazione rende necessario un di più di rivelazione che <è la Pasqua del Signore> (12, 12). Visto che i segni non convincono, allora è il passaggio del Signore che permetterà al popolo di vivere la Pasqua della libertà.

Nel Vangelo vediamo spuntare la categoria del <lecito> (Mt 12, 3) cui il Signore Gesù contrappone quella della libertà non come opposizione alla Legge. La libertà del cuore da ogni tendenza all’egoismo e al ripiegamento è il fine della pedagogia della Legge il cui filo conduttore dovrebbe formare le coscienze ad una libertà che si fa rispetto e promozione della libertà anche degli altri. Del resto, è proprio questo ciò che tutti i profeti continuano a ricordare tato da essere solennemente ripreso dal Signore Gesù: <Misericordia io voglio e non sacrifici> (12, 7). Il Signore Gesù non si presenta come un rivoluzionario anarchico, ma come Maestro della Legge che esige la capacità di essere maestri nella Legge che ha il compito di far crescere rettamente e armoniosamente la libertà di tutti che implica il dovere di una libertà per tutti.

Il primogenito è, letteralmente, “colui che fende il seno materno” per questo rappresenta la quintessenza del vigore dell’uomo e il mistero di una delle trasformazioni più radicali nella vita di una donna che è il passaggio verso la maternità. Con questo simbolo siamo richiamati al cuore stesso del Vangelo che è la capacità e la volontà di attraversare e vivere le continue e rinnovate pasque della vita per un di più di verità, di libertà, di gioia. In questo senso il Signore Gesù restituisce a tutti, a partire dai suoi discepoli, il senso della dignità di essere re come Davide e sacerdoti come quelli che officiano nel tempio e non semplici esecutori, o peggio ancora, vittime della Legge, ma, al contrario, protagonisti consapevoli di una storia di libertà e di pienezza. L’interrogazione fatta agli scribi e i farisei è valida anche per noi: <O non avete letto nella Legge…?> (12, 5). Ciò che il Signore ci richiede è la capacità di una lettura della Parola di Dio racchiusa nelle Scritture capace di andare oltre la semplice intelligenza del testo, per aprirsi ad un di più dell’intelligenza della vita che è sempre capacità di riconoscere e attraversare le inevitabili e necessarie pasque della vita: <Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore> (Es 12, 13).

Umiliazione

XV Settimana T.O. –

Il dialogo tra l’Altissimo e il suo servo Mosè non solo continua, ma si approfondisce ulteriormente mentre si chiarisce il contenuto e il modo della missione: <Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto> (Es 3, 16). Il Signore Dio non si accontenta di dare uno sguardo di sfuggita alla condizione dei suoi figli, ma il suo vedere fa tutt’uno con il suo decidere: <Vi farò salire dall’umiliazione> (3, 17)! Questa decisione fondamentale di Dio per la nostra vita raggiunge la sua pienezza di rivelazione e di esperienza in Cristo Gesù che va oltre. Invece di farci semplicemente <salire dall’umiliazione>, il Verbo eterno del Padre è sceso con noi e come noi nell’esperienza dell’umiltà più vera ed esigente che si fa invito a condividere la stessa sorte per maturare il medesimo stile di vita: <Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro> (Mt 11, 28). A questa promessa di consolazione e di refrigerio si accosta un invito chiaro e pressante: <Prendete il mio giogo sopra di voi> (11, 29).

Sembra che il Signore ci voglia dire che il peso talora insopportabile del giogo che siamo noi stessi per noi stessi, può essere radicalmente alleviato dal fatto di uscire da noi stessi e lasciare che il peso di Cristo sulle nostre spalle con la sua ineguagliabile leggerezza diventi la dima per rivedere e riconsiderare tutto ciò che ci è di peso nella vita e ci fa essere di peso per gli altri. Se i rabbini insistono sul giogo della Legge da portare con fedeltà e quasi da sopportare in silenzio, il Signore Gesù ci parla del giogo dell’amore che, per quanto pesante, è sempre e solo leggero. Quando il Signore Gesù ci invita a imparare da Lui ci chiede, appunto, di apprendere questa sapienza amorosa che si fa leggerezza coraggiosa senza mai rinunciare alle inevitabili esigenze – talora persino dure ed austere – che vengono dalla scelta di vivere secondo la logica del Vangelo.

Quando il Signore rivela a Mosè il suo nome: <Io sono colui che sono> (Es 3, 14) non fa altro che aprire il cuore del suo profeta e amico alla sorpresa quotidiana di una relazione che segna e trasforma l’esistenza. Va sottolineato che l’Altissimo non si accontenta semplicemente di presentarsi a partire dalla sua essenza ontologica, ma subito chiarisce il suo intento salvifico e per questo aggiunge: <Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi>! Così l’essenza della vita di Dio invece di isolarLo in una divina e inviolabile beatitudine si rivela nel suo compromettersi appassionatamente con l’esperienza dei nostri cammini e, prima di tutto, con la fatica che sperimentiamo a motivo delle umiliazioni che la vita ci impone e che, talora, imponiamo a noi stessi. Dinanzi alla nostra fatica di vivere e di sperare sempre l’Altissimo rinnova la sua decisione di compromettersi fino in fondo e senza risparmio: <Stenderò dunque la mano e colpirò l’Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo di che egli vi lascerà andare> (3, 20). Questa decisione si rinnova e si radicalizza nella parola e nel dono pasquale del Signore Gesù: <Sono mite e umile di cuore> (Mt 11, 29).

Rivelazioni

XV Settimana T.O. –

La memoria della rivelazione del nome e della vita di Dio a Mosè nel deserto del Sinai ci riporta al mistero delle “rivelazioni” di Dio che se sono parte del bagaglio della nostra memoria credente sono, al contempo, la nostra speranza per ogni passo futuro della nostra esistenza e del combattimento della nostra fede. Se l’Altissimo si rivela a Mosè come <Io sono> si rivela in Gesù come Dio <Amore> (1Gv 4, 8). L’Altissimo si rivela a noi nel dono della creazione che continua in ogni intervento di ri-creazione che noi chiamiamo esperienza di redenzione e di liberazione proprio nella logica di quell’esodo guidato da Mosè il quale continua nella storia di ogni popolo, di ogni uomo e donna in ogni tempo e in ogni luogo. Davanti alla fatica di Mosè chiamato ad entrare in una relazione salvifica capace di farsi mediazione di salvezza, la parola dell’Altissimo è una rassicurazione di presenza: <Io sarò con te> (Es 3, 12). La presenza di Dio nella nostra vita che si fa sua sensibilità alla nostra vita è motivo di esultazione e di lode per il Signore Gesù: <perché ai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli> (Mt 11, 25).

Questa parola di Gesù è incandescente quanto e come il roveto che <ardeva> ma <non si consumava> (Es 3, 2). Il Signore >ci fa percepire quale sia stato l’esodo interiore vissuto da Mosè che lo rese capace di farsi mediazione di salvezza per tutto il popolo: riconoscere la vanità della propria sapienza per assumere la realtà e la sfida di essere uno dei <piccoli> (Mt 11, 25) cui è data la grazia di sperimentare la salvezza che viene dall’Altissimo e che ci fa passare da un servizio schiavizzante – come quello imposto al popolo dal Faraone – ad un servire Dio liberante <su questo monte> (Es 3, 12). Il monte abitato da Mosè diventa un luogo di appuntamento per ricevere la Legge che libera dall’abuso di un potere assoluto e irrispettoso e lo ritroviamo come il <monte> (Mt 5, 1) da cui il Signore Gesù proclama le beatitudini ed apre il cuore dei suoi discepoli ad una comprensione ancora più ampia ed esigente della Legge data per mezzo di Mosè.

La lucidità sulla realtà testimoniata dalle parole benedicenti di Gesù è una promessa ed una forma di salvezza. La salvezza passa sempre attraverso la relazione: <Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo> (Mt 11, 27). La parola rivolta a Mosè <Io sarò con te> (Es 3, 12) si è fatta carne in Gesù prendendo i tratti di una compagnia quotidiana che fa della nube dell’esodo una presenza continua nella vita di ogni uomo e di ogni donna. Si dice che l’Altissimo si è rivelato a Mosè <mentre stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero> (3, 1) e il volto di un Dio che cammina con noi si rivela continuamente nella prossimità ancora più forte del Signore Gesù che si fa compagno di ogni strada. Gesù nostro Salvatore e ci chiede di farci compagni di vita per ogni uomo e sorella perché la salvezza possa essere sperimentata veramente da tutti. Per questo e a partire da questo ognuno di noi è chiamato a diventare per l’altro <angelo del Signore> (3, 2).

Giudizio

XV Settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù sembrano non lasciarci tregua: <nel giorno del giudizio, la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te> (Mt 11, 24). Il giudizio del Signore riguarda sempre la nostra capacità o meno di aprirci ad un’accoglienza dell’altro il cui primo passo e il cui primo segno è quello di dare credito alla parola che, proprio attraverso l’altro, scuote ed interpella il nostro cuore talora troppo duro e troppo chiuso. L’evocazione della città di Sodoma è cifra di tutte quelle realtà chiuse in se stesse e su se stesse tanto da diventare insensibili alla vita e persino una minaccia di vita per chi ha bisogno di <compassione> (Es 2, 6) e di cura. L’icona della figlia del faraone è una luce di speranza assieme a quelle altre donne (le due levatrici, la madre e la sorella) che in un modo o nell’altro salvano e custodiscono la piccola vita di Mosè chiamato a salvare la vita di molti altri piccoli, poveri, oppressi, minacciati nella stessa possibilità di sopravvivere alle angherie del faraone. La memoria di una salvezza assicurata dalla compassione come sensibilità alla bellezza (2, 2) è incisa a fuoco nel cuore e nell’inconscio di Mosè che non può sopportare l’ingiustizia fino a mettersi in un certo modo contro la “giustizia”.

Il <giudizio> di cui parla il Signore Gesù è profetizzato dal modo in cui Mosè si lascia toccare fino a farsi intimamente interpellare dalla sofferenza degli altri. Eppure, la compassione stessa deve crescere, maturare e purificarsi per non cadere, pur con le migliori intenzioni, nella logica stessa che domina la mentalità di <Sodoma>. Così la prima lettura ci mette di fronte a quelle che potremmo definire le nascite di Mosè: la prima è quella che avviene nel segreto e nello stupore della sua famiglia in cui ciò che è <bello> viene tenuto <nascosto per tre mesi>. Poi avviene la nascita attraverso le sponde da parto del fiume Nilo che porta il cestello tra le braccia della figlia del faraone che si prende cura di un <piccolo> che <piangeva> (2, 6) e gli assicura la vita. Una volta <cresciuto in età> (2, 11) Mosè deve nascere ancora una volta attraverso una maturazione di consapevolezza la cui passione che si fa violenza. Lo stesso Mosè avrà bisogno di un tempo di ulteriore crescita interiore che lo porterà dal farsi giustizia ad essere garante di ciò che è giusto a partire non da se stesso ma confrontandosi con le Dieci Parole di Dio. Per questo <fuggì lontano dal faraone e si fermò nel territorio di Madian> (2, 15).

I segni operati da Gesù sono per la conversione e non per la condivisione di un potere. La compassione è inizio e indizio di autentica conversione il cui cammino è eminentemente personale tanto che nessuno può percorrerlo al posto di un altro. L’immagine, peraltro così poetica, riportata dall’Esodo può diventare simbolo di ciò che è richiesto a ciascuno di noi per non cadere nella logica di Sòdoma: <Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Ella vide il cestello…> (Es 2, 5). Si tratta ogni giorno di scendere verso le sponde del grande fiume della storia per avere occhi e cuore per tutto ciò che è <piccolo> (2, 6) e ha bisogno della nostra compassione e della nostra cura.

Profeta

XV Settimana T.O. –

Ad introdurci nella lettura liturgica del libro dell’Esodo è una parola forte del Signore Gesù: <Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto> (Mt 10, 41). Il dramma dell’esodo con tutte le sofferenze e il sangue che saranno necessari nel processo di liberazione del popolo sembrano scatenarsi proprio dall’incapacità del nuovo Faraone di accogliere la profezia di una presenza come quella del popolo di Israele che cresce in mezzo agli Egiziani, ma non necessariamente li minaccia. Il testo comincia con una nota che non va mai dimenticata lungo la lettura dell’esodo: <sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe> (Es 1, 8). La figura e la storia di Giuseppe sono memoria continua di come nessuno è autosufficiente né le persone né i popoli! Il figlio di Giacobbe è accolto in Egitto e, in un certo senso, viene salvato dall’accoglienza del sovrintendente del Faraone e dal Faraone stesso, ma è lui che subito dopo salverà il popolo dell’Egitto dalla carestia.

La parola del Signore Gesù che getta le basi e dà le regole di una sana e fruttuosa evangelizzazione diventa la chiave di lettura per ogni reale cammino di integrazione e di vicendevole solidarietà: <Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa> (Mt 10, 42). Eppure, questo non è affatto possibile se si perde la memoria tanto da trasformare il bicchiere d’acqua da offrire in una minaccia di morte tanto che <Il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: “Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere ogni femmina”> (Es 1, 22). La violenza, che faraone usa contro i piccoli di un popolo già oppresso dalla schiavitù e dall’eccesso di fatica, diventa nelle parole del Signore Gesù una <spada> (Mt 10, 34) che non deve mai essere usata contro alcuno se non contro se stessi per discernere in modo così autentico da saper anche rinunciare: <Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia la troverà> (10, 39).

Essere <degno di me> (10, 37) non ha niente a che vedere con una purità di ordine puritano, ma è il segno di una disposizione profonda e fattiva ad agire nella stessa linea e nella stessa logica del Vangelo in una capacità piuttosto a dare che non a prendere la vita. Quando, prima della comunione, ripetiamo le commosse parole del centurione: <… io non sono degno…>, dobbiamo sempre ricordarci che questo ci riporta più che all’impedimento dei nostri peccati e delle nostre fragilità, alla grande fatica quotidiana di conformare la nostra vita alle esigenze di donazione che ci vengono dal Vangelo. Quando si entra in questa obbedienza evangelica nulla può rimanere come prima ed è del tutto naturale sperimentare il prezzo salato di una <pace> (Mt 10, 34) che germoglia nello stesso solco della <croce> (10, 38). Come spiega padre Carré bisogna ricordare che <la parola croce non indicava prima di tutto il supplizio degli schiavi ma, con l’utilizzazione di una lettera ebraica a forma di croce – il tau francescano che conosciamo noi! – rappresentava una nota, una sorta di sigillo. Come quando si mette una croce per segnare un oggetto e riempire le caselle di un questionario. Ogni volta che ci segniamo o segniamo con il segno della croce ricordiamo di doverla portare sulle nostre spalle, ma questo segno indica la liberazione, il perdono, la salvezza ed è un invito a rendere grazie nella gioia>1.


1. A.-M. CARRÉ, Tout m’est buisson ardent, Cerf, Paris 1997, p. 126.

Quarta presenza

XIV Domenica T.O.

La domanda del Signore Gesù risuona anche per noi: <Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?> (Lc 10, 36). Si potrebbe dire che, in verità, è il “quarto uomo” il vero protagonista della parabola ed è esattamente quel “quarto” personaggio (Dn 3, 92) intravisto dal re Nabucodonosor mentre passeggiava con i tre fanciulli portando una presenza rinfrescante all’interno della fornace bruciante. Questa quarta presenza è quella di Cristo! Come spiega Severo di Antiochia: <Cristo non ha detto “uno scendeva”, bensì “un uomo scendeva”, perché il brano concerne tutta l’umanità. Questa, in seguito alla colpa di Adamo, ha lasciato il soggiorno elevato, calmo, senza sofferenza e meraviglioso del paradiso, a buon diritto chiamato Gerusalemme – nome che significa «La Pace di Dio» – ed è disceso verso Gèrico, regione bassa e cava, dove il caldo è soffocante. Gèrico, è il ritmo febbrile della vita di questo mondo, vita che allontana da Dio. Una volta che l’umanità ha imboccato quella vita, lasciando la via retta, il branco dei demoni selvaggi viene ad attaccarla come una banda di briganti>1. Chi mai ci può liberare dalle mani dei briganti che dilaniano la nostra speranza, se non quel <Samaritano> (Lc 10, 33) che si piega sulle nostre piaghe e le fascia con la sua misericordia e il suo amore?

La parola del Deuteronomio ci aiuta a comprendere come, l’osservanza dei comandamenti di Dio, esige la maturazione di uno sguardo capace di riconoscerne la presenza in chi ha bisogno di essere accolto e soccorso. È proprio vero che la parola e la volontà di Dio non sono <lontano> (Dt 30, 11) nella misura in cui impariamo a farci prossimo. Anche noi siamo chiamati a diventare, attraverso un amore sempre più autentico, nientemeno che <immagine del Dio invisibile> (Col 1, 15), il quale si rende visibile ogni volta che sappiamo uscire allo scoperto senza passare oltre, facendo finta di non vedere e dimenticando, così, di sottrarsi alla possibilità di essere visti, incontrati e salvati. Rileggendo ancora una volta la parabola del buon samaritano, riceviamo la consolazione e la rassicurazione di non percorrere da soli le nostre strade. Il Signore si è messo in cammino sulle rotte tanto insicure della nostra umanità e non ci lascia soli; la sua premura è tale da fermarsi e caricarci <sulla sua cavalcatura> (Lc 10, 34). 

Lungi da noi pensare a noi stessi nelle vesti di quel quarto uomo che <era in viaggio> come tutti e tre gli altri uomini, ma a differenza di questi, guidato da una così profonda <compassione> (10, 33) da interrompere il cammino per riprenderlo più tardi e… solo dopo aver raggiunto la mèta della vita che è la capacità di amare. La parola e i gesti del Signore Gesù non hanno altro scopo se non quello di aprire per noi la possibilità di vivere in modo simile e somigliante al Cristo che non passa mai dall’<altra parte>, ma si fa veramente <vicino>. Impariamo a fare, del viaggio della nostra vita, un vero sacramento di compassione e un reale ambito di salvezza, nel quale ci lasciamo interpellare da ogni ferita e da ogni trauma umano come se fossero i nostri, come se fossimo coinvolti noi stessi. Del resto, siamo un solo <corpo> (Col 1, 18).


1. SEVERO DI ANTIOCHIA, Discorsi, 89.

La quatrième présence

XV Dimanche T.O. –

La question du Seigneur Jésus s’adresse aussi à nous : «  Lequel de ces trois te semble avoir été proche de celui qui est tombé entre les mains des brigands ? » ( Lc 10, 36 ). L’on pourrait dire, en vérité, c’est « le quatrième homme », le vrai protagoniste de la parabole et, c’est exactement ce «  quatrième » personnage ( Dn 3, 92 ) entrevu par le roi Nabuchodonosor alors qu’il se promenait avec les trois jeunes portant une présence rafraîchissante à l’intérieur de la fournaise brûlante.  Cette quatrième présence est celle du Christ ! Comme l’explique Sévère d’Antioche : «  Christ n’a pas dit ‘ l’un descendait’, car le passage concerne toute l’humanité. Cela, à la suite de la faute d’Adam, qui a délaissé le séjour magnifique, calme, sans souffrance et merveilleux du paradis, appelé avec justesse Jérusalem – nom signifiant «  la Paix de Dieu » – et il est descendu vers Jéricho, région basse et creuse, où la chaleur est suffocante. Jéricho, est le rythme fébrile de la vie de ce monde, vie qui éloigne de Dieu. Une fois que l’humanité a emprunté cette vie, abandonnant la voie étroite, la meute des démons sauvages vient attaquer comme une bande de brigands »1. Qui désormais pourra nous libérer de la main des brigands qui dilapident notre espérance, si ce n’est ce «  Samaritain » ( Lc 10, 33 ) qui se penche sur nos plaies et les soigne par sa miséricorde et son amour ?

La parole du Deutéronome nous aide à comprendre comment l’observance des commandements de Dieu exige la maturité d’un regard capable de reconnaître la présence de celui qui a besoin d’être accueilli et secouru. C’est indéniable que la parole et la volonté de Dieu ne sont pas «  loin » ( Dt 30, 11) dans la mesure où nous apprenons à nous faire proches. Nous aussi nous sommes appelés à devenir, à travers un amour toujours plus authentique, rien de moins que « des images du Dieu invisible » ( Col 1, 15 ) lequel se rend visible chaque fois que nous savons sortir à l’extérieur, sans ignorer, en faisant semblant de ne rien voir et d’oublier en se soustrayant à la possibilité d’être vus, rencontrés et sauvés. En relisant encore une fois la parabole du bon samaritain, nous recevons la consolation et l’apaisement de ne pas parcourir seul nos chemins. Le Seigneur est en chemin sur les routes si dangereuses de notre humanité et il ne nous laisse pas seuls ; sa sollicitude est telle qu’il s’arrête et nous charge «  sur sa monture » ( Lc 10, 34 ).

Loin de nous de penser à nous-mêmes en nous mettant dans les vêtements de ce quatrième homme qui «  était en voyage » comme tous et comme ces trois autres hommes, mais à la différence de ceux-ci, guidés d’une si profonde «  compassion » ( 10, 33 ) qu’ils interrompent leur chemin pour le reprendre plus tard et…seulement après avoir rejoint le but de leur vie qui est la capacité d’aimer. Les paroles et les gestes du Seigneur Jésus n’ont pas d’autre but que celui d’ouvrir pour nous la possibilité de vivre de façon semblable et ressemblante au Christ qui ne passe jamais «  de l’autre côté », mais se fait vraiment «  proche ». Apprenons à faire du voyage de notre vie un vrai sacrement de compassion et un réel espace de salut où nous nous laissons interpeler par chaque blessure et chaque traumatisme humain comme si c’étaient les nôtres, comme si nous étions concernés personnellement. D’ailleurs, nous sommes un seul «  corps » ( Col 1, 18 ).


1. SEVERE D’ANTIOCHE, Discours, 89.

Visitare

XIV Settimana T.O. –

Professare apertamente e coraggiosamente la propria fede non significa certo, nella logica e nello stile del Vangelo, esibirsi temerariamente agli occhi del mondo, ma affermare che Cristo, il crocifisso-risorto, è signore della nostra vita. Così, solo così, saremo portatori e annunciatori di una luce e di una benedizione capaci di illuminare e riscaldare gli angoli più oscuri e freddi della realtà umana. L’invito del Signore Gesù a proclamare dalle <terrazze> (Mt 10, 27), non è uno sprone a imporsi e, tantomeno, a fare dell’annuncio del Vangelo una sorta di show. Quella del Signore Gesù è l’esortazione a mettersi in gioco interamente e con tutta la propria vita fino al rischio di osare una parola che ci coinvolgerà, in modo forte, nella relazione con gli altri. Le <terrazze> di cui parla il Vangelo non sono certo i “tetti” delle case del nord dove la presenza di qualcuno sarebbe recepita come strana, pericolosa e comunque originale. Esse sono i luoghi dove la gente vive e si incontra all’aperto e dove i bambini giocano rincorrendosi da una terrazza all’altra. Letta così l’esortazione del Signore non è quella di “esibire” il Vangelo in modo strano, ma di lasciare che il messaggio penetri nel tessuto della quotidianità perché esso ne possa, semplicemente ed efficacemente, animare la speranza. 

La conclusione della lettura del primo libro delle Scritture – che ci fa sostare sull’esperienza di Giuseppe – è una sorta di professione di fede condivisa: <Dio verrà certo a visitarvi…> (Gn 50, 25). Questa certezza nel futuro nasce da una consapevolezza profonda e sofferta del fatto che Dio ha visitato la sua esistenza e ne ha accompagnato i passi in modo non sempre facile da comprendere e da vivere, eppure così sicuro e certo da poter confidare che non potrà che essere così anche per gli altri. Ciò che il Signore chiede ai suoi discepoli è di vivere non con atteggiamento di “sufficienza”, ma nella profonda consapevolezza che è <sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro> (Mt 10, 25). Se facciamo memoria ogni giorno del mistero pasquale, in particolare quando celebriamo l’Eucaristia, non possiamo che costatare come non ci sarà nulla che possa turbare il nostro cuore.

In pochi versetti, più volte, il Signore raccomanda di non cedere alla <paura> (10, 26) che è l’origine di ogni male e di ogni peccato e non solo in relazione a Dio (cfr. Gn 3, 10), ma pure in relazione ai nostri fratelli e sorelle in umanità. La storia di Giuseppe ci rammenta, in modo chiaro, che l’origine di tanto dolore – nella difficile fraternità tra i figli di Giacobbe – nasce e si nutre di <paura> (Gn 50, 15), una paura dalla cui morsa purtroppo sembra non riuscire ad uscire e neppure leggere la realtà se non in modo distorto e negativo. La risposta di Giuseppe è in tutto simile all’esortazione del Signore Gesù: <Non temete…> (50, 19). Essere discepoli di Cristo e figli dei nostri padri nella fede, comporta il non lasciarsi ottenebrare il cuore dalla paura,  per poter, così, essere persino traditi e uccisi senza perdere non solo la fede, ma conservando intatta la fiducia. Questa invincibile serenità di sguardo, non può che nascere dalla certezza di essere stati visitati dal passaggio di Dio nella nostra esistenza, un passaggio che fa, della nostra vita, un continuo tentativo di visitare, con la medesima pace, la vita degli altri per liberarla dal timore e dal sospetto.

Intelligenza

San Benedetto –

La festa di san Benedetto ci riporta alla consapevolezza di una storia – quella della nostra Europa – che radica anche nell’esperienza di ciò che il monaco di Subiaco prima e l’abate di Montecassino dopo è stato capace di vivere personalmente in modo così intenso da comunicarlo non solo ai fratelli raccolti attorno a lui, ma anche al mondo da cui aveva preso le distanze in modo così radicale. L’esperienza di Benedetto da Norcia, da Subiaco, da Montecassino diventa una fonte di speranza per tutti e, in particolare, per noi che viviamo un nuovo tempo di crisi, di passaggio, per molti aspetti di fine non facile da accettare e da vivere. In un momento altrettanto difficile e segnato da cambiamenti così profondi, Benedetto ci rassicura del fatto che, se siamo in grado di tornare al Vangelo potremo sempre inventare cammini di umanità e di solidarietà fraterna. Nella preghiera e nella solitudine sembra che Benedetto sia stato capace di maturare non solo come monaco, ma pure come uomo in una capacità di leggere la storia e farne il solco in cui far cadere nuovamente il seme del Vangelo attraverso una sequela generosa e creativa.

La domanda di Pietro certo non solo non ci sorprende, ma forse pure ci esprime: <Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne avremo?> (Mt 19, 27). Per gli apostoli la predicazione del Signore e, soprattutto, l’orizzonte della croce non è facile né da accogliere né da gestire. Anche per ciascuno di noi il rischio è quello di cedere alla domanda su quale guadagno ci apporti la nostra fedeltà a Cristo. La risposta del Signore sposta l’attenzione dei discepoli dal presente al futuro: <riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna> (19, 29). Non si tratta di un modo gentile per eludere la domanda e circumnavigare il problema. Al contrario, il Signore ci ricorda che il valore della nostra vita non è legato al guadagno, ma alla capacità di fare della nostra esistenza un anello per la trasmissione e l’incremento della vita non solo per noi, ma anche e soprattutto per gli altri.

Ciò che la tradizione benedettina, nonostante tutte le ambiguità e contraddizioni, è riuscita a custodire è questo sguardo ampio e assolutamente inclusivo. Ampio perché capace di sognare e di pensare in grande e con lungimiranza, inclusivo perché ha sempre armonizzato le varie componenti della vita tenendo insieme tutti gli elementi dell’esistenza in quanto ad età, estrazione sociale, doti tecniche ed intellettuali. Tutto ciò è stato possibile ed è ancora possibile in obbedienza all’esortazione dei Proverbi: <se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti… se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza…> (Pr 2, 1-3). Benedetto ci rassicura e ci incoraggia per portare avanti un lavoro di intelligenza cha dall’interiorità forma e trasforma il mondo esteriore. Siamo di fronte al miracolo del genio personale messo a servizio della forza di una comunità che non si impone come una tribù che teme il dono personale, ma come luogo in cui ciascuno si scopre non per imporsi, ma per donarsi sempre più pienamente, sempre più umanamente.