Corpo

XXII settimana T.O. –

La solenne affermazione dell’apostolo ci porta a guardare le cose da un punto di vista più ampio: <Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono> (Col 1, 17). A partire da questa considerazione di fondo, che tocca l’essenza che sta alla base della creazione e presiede al processo di ogni autentica ricreazione, siamo chiamati a riconsiderare tutte le nostre pratiche e le nostre abitudini nel cammino spirituale. Se l’apostolo ci riporta all’essenza, il Signore Gesù ci riconduce all’essenziale: <E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi> (Lc 5, 37). Non sfugge al Signore Gesù una difficoltà che incontriamo continuamente nella nostra vita: <Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole”> (5, 39). Eppure, non bisogna mai dimenticare che se c’è un <prima> ci può essere sempre un “dopo”. Se la vita ci ha sorpreso favorevolmente fino ad oggi, sarà capace di sorprenderci ancora. Per questo non c’è bisogno di ridurre continuamente la realtà a ciò che di essa conosciamo già per aprirci, invece, a ciò che di essa potremo scoprire non solo nel senso della decadenza, ma dell’incremento e del miglioramento.

La prima diatriba del Signore Gesù con i farisei e gli scribi riguarda la pratica del digiuno quale simbolo di un atteggiamento nei confronti della vita in relazione a Dio e ai fratelli: <I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!> (Lc 5, 33). La reazione del Signore Gesù sembra, in realtà non rispondere alla provocazione, o, almeno, non lo fa in modo preciso e consequenziale, ricorrendo all’immagine dello <sposo> (5, 34) che evoca un modo di pensare e di vivere il rapporto con Dio nella linea dei profeti – in particolare Isaia ed Osea – i quali, con la loro parola e la loro esperienza personale, comunicano un modo di pensare a Dio meno legalistico e più intimo. L’apostolo Paolo ci fa sentire in modo ancora più essenziale questo respiro quando dice con accenti di commozione: <E’ piaciuto a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sua quelle che stanno nei cieli> (Col 1, 19-20).

Alla preoccupazione degli scribi e dei farisei sembra seguire quella ben più ampia, profonda, intima, usata dal Signore Gesù che richiede una partecipazione e un coinvolgimento personale in cui ciascuno è chiamato a vivere in relazione a Cristo Signore come il <capo del corpo> (1, 18) in una intimità essenziale capace di riconciliare in modo così radicale da risultare una rinnovata creazione capace di rifondare, attraverso la relazione con l’Altissimo, le relazioni tra fratelli in modo non rammendato né rimandato, ma rinnovato e aperto a nuovi gusti e a nuove esperienze. Infatti, non bisogna mai dimenticare che <Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”> (Lc 5, 39).

Faticato

XXII settimana T.O. –

La parola di Simone è capace di dire tutta l’attesa del suo cuore: <Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti> (Lc 5, 5). In queste parole di colui che sarà chiamato ad essere primo tra gli apostoli senza certo essere migliore di nessuno di loro, possiamo cogliere prima di tutto una sana accettazione della realtà: Simone constata il fatto che la fatica di una notte di veglia nella speranza di pescare qualcosa non ha portato il frutto sperato, ma non incolpa nessuno di questo. Nel cuore di quest’uomo chiaramente affaticato è rimasta accesa la speranza che qualcosa possa ancora avvenire: <sulla tua parola getterò le reti>! La parola dell’apostolo Paolo nella prima lettura può essere ben applicata a Simone: <Resi forti di ogni fortezza secondo la potenza della sua gloria, per essere perseveranti e magnanimi in tutto> (Col 1, 11).

Di Simon Pietro i Vangeli non tacciono le fragilità e le paure, ma sembra che il suo cuore sia capace di una magnanimità capace di dare speranza al Signore Gesù che proprio quest’uomo <peccatore> (Lc 5, 8) possa assicurare il ministero della riconciliazione in una unità sempre rinnovata e ritrovata. Infatti, quando il Signore Gesù <lo pregò di scostarsi un poco da terra> (5, 3) Simone acconsentì a questo desiderio nonostante avesse <faticato tutta la notte> e avesse diritto ad essere un po’ arrabbiato e comunque deluso e stanco. Stando al racconto di Luca possiamo dire che la vita e la speranza si rimettono in moto gradualmente. Prima viene chiesto di <scostarsi un poco da terra>, poi addirittura di prendere <il largo> (5, 4) infine di essere addirittura <pescatore di uomini> (5, 10). L’esultazione finale della prima lettura potrebbe diventare una sorta di responsorio a ciò che avviene sulla riva del lago: <E’ lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati> (Col 1, 13-14).

Simili doni non possono certo essere trattenuti per sé soltanto, ma per loro natura esigono che siano condivisi: <Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare> (Lc 5, 7). Ogni volta che acconsentiamo a fare un piccolo passo, in realtà l’impossibile ritorna ad essere ben possibile fino a divenire capaci di <partecipare alla sorte dei santi nella luce> (Col 1, 12). A fondamento della vita della Chiesa e della sua stessa esistenza come sacramento di salvezza al cuore della storia vi è una fiducia condivisa: Simone si fida di Gesù, Gesù si fida di Simone e così ci si imbarca uno nella vita dell’altro prendendo così il <largo>. Ancora oggi la vita della Chiesa, sempre più chiamata a pensarsi a servizio di un’umanità in cammino verso la pienezza di se stessa, deve obbedire a questa logica di fiducia contagiosa a partire dalla quale se apparentemente tutto sembra restare uguale, in realtà, tutto può diventare veramente nuovo e più vivibile.

Olivo

XXII settimana T.O. –

Ci commuove la dedizione assoluta con cui il Signore Gesù si dedica al suo ministero nella piena coscienza di avere un dono da comunicare e non un privilegio di cui godere: <E’ necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato> (Lc 4, 43). Nel cuore di Cristo Signore arde il fuoco di una consapevolezza che gli permette di non perdere mai la bussola della sua missione senza mai lasciarsi imprigionare dall’inganno di avere diritto a fermarsi e, in certo modo, a godere delle sue fatiche apostoliche. Al contrario la vita del Signore Gesù è dominata da un chiaro dinamismo che non si ferma mai su se stesso, ma vive in una continua attenzione a ciò e a chi ancora può beneficiare del dono del Vangelo. L’evangelista Luca che ci fa contemplare il Verbo fatto carne sempre <in cammino> (4, 30). Non solo all’inizio alquanto drammatico del suo ministero pubblico, ma già nel seno di sua madre che si reca in fretta a rallegrare e sostenere Elisabetta come pure dopo la risurrezione quando si mette sulle tracce dei discepoli in fuga da se stessi verso Emmaus.

L’apostolo Paolo non riesce a trattenere la gioia e l’esultanza perché la corsa del Vangelo inaugurata in Cristo Signore continua nella storia dei credenti fino ad oggi: <a causa della speranza che vi attende nei cieli. Ne avete già udito l’annuncio dalla parola di verità del Vangelo che è giunto a voi. E come in tutto il mondo esso porta frutto e si sviluppa> (Col 1, 5-6). Stando alle parole di Paolo il Vangelo è e deve essere perennemente una realtà in sviluppo, la cui corsa e la cui efficacia non può arrestarsi, ma, per sua natura, si apre continuamente a nuovi bisogni mantenendo viva l’attenzione ad ogni sofferenza. Chiamati ad essere discepoli del Signore anche noi dobbiamo coltivare un dinamismo che radica nell’attenzione e si manifesta nella capacità di rimanere in cammino. Passare dalla sinagoga alla casa di Simone, dal capezzale della suocera alla porta di casa, dal deserto della preghiera alla polvere della strada… è il cammino che attende anche noi chiamati a sperimentare la stessa grazia vissuta da Paolo nel sentire Epafra <caro compagno nel ministero> (Col 1, 7).

Lo sviluppo della predicazione del Vangelo sembra essere direttamente proporzionale al suo radicamento interiore nel nostro cuore tanto che ogni ministro dovrebbe poter fare proprie le parole del salmo: <Come olivo verdeggiante nella casa di Dio> (Sal 51, 10). Al pari di ogni albero, per crescere è necessario coltivare la dimensione della profondità propria delle radici e quella delle fronde da cui si colgono i frutti. Nondimeno, come ogni albero, è pure necessario difendersi da tutto ciò che può impedire o anche solo ritardare lo sviluppo. Il Signore Gesù si comporta come un <olivo verdeggiante> che prima di tutto ritrova ogni giorno la sua linfa nel rapporto intimo con il Padre attraverso la preghiera, per poi aprirsi generosamente agli altri senza per questo perdere in libertà e generosità verso tutti. Inoltre, si difende accuratamente ed energicamente da ciò che può inquinare il cuore e la mente fino a snaturare i gesti cosicché, per quanto riguarda i demoni, <non li lasciava parlare> (Lc 4, 41). Sempre in cammino come gli alberi che pure danno l’impressione di essere assolutamente fermi!

Un uomo

XXII settimana T.O. –

Il quadro introduttivo offerto dalla liturgia di ieri ci ha fatto sostare su quelli che sono i primi passi di Gesù in mezzo alla nostra umanità che, dalla sua parola e dai suoi gesti, può sperare la gioia sempre più grande di una salvezza ritrovata. Il quadro di oggi ci riguarda più da vicino visto che ciascuno di noi è chiamato a riconoscersi, almeno in parte, nella figura di <un uomo che era posseduto da un demonio impuro> (Lc 4, 13). In due quadri che si guardano come fossero esposti l’uno di fronte all’altro, viene messo in gioco tutto il dramma della salvezza nel cui dinamismo la presenza in mezzo a noi del Verbo fatto carne interroga la nostra umanità e ci obbliga a venire allo scoperto per tutto ciò che concerne il nostro modo di esporci fino ad accogliere il dono che ci viene fatto. Il fatto che quest’uomo si metta a gridare dando voce alla disperazione che la sola presenza del Signore Gesù crea nel suo cuore è per noi motivo di riflessione e di verifica interiore: <Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!> (Lc 4, 34).

La santità intesa come pienezza di umanità che fa sperare in una pienezza di vita mette in crisi il modo di vivere o di non vivere cui sembra la nostra umanità si abitui molto più facilmente di quanto si possa immaginare e desiderare. In realtà, l’uomo posseduto accusa il Signore di qualcosa che non è assolutamente vera. Infatti, <uscì da lui, senza fargli alcun male> (4, 35). Non è vero che il Cristo sia venuto a <rovinarci>, è vero, altresì, che la sua presenza è venuta a salvarci. Nondimeno ogni esperienza di autentica salvezza comporta un’esperienza reale di cambiamento e di progresso che, non lasciandoci, nello stato cui siamo abituati può sembrarci persino un’esperienza di morte o di rovina. L’apostolo Paolo ci mette in guardia da quella sorta di inedia spirituale che rischia, quasi inconsapevolmente, di farci scivolare nella morte dell’anima. Per questo ci esorta vivamente: <Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri> (1Ts 5, 6).

Dopo averci esortato a non lasciarci andare all’inedia dello spirito, l’apostolo ci ricorda una cosa fondamentale: <Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo> (5, 9). Ciò che siamo chiamati a ricevere attraverso Cristo Signore è la <salvezza> senza mai dimenticare che ogni esperienza di salvezza, se autentica e duratura, comporta una sensazione di “rovina” di tutto ciò che rischia di essere il sistema delle nostre abitudini mortifere. Quando l’indemoniato riconosce nel Signore Gesù <il santo di Dio!> (Lc 4, 34) è come si dichiarasse una certa paura e un certo timore che questa santità si travasi nella sua vita. La risposta del Signore ci riguarda personalmente forse ben più di quanto immaginiamo a primo acchito: <Taci! Esci da lui!> (4, 35). Il primo passo, assolutamente necessario, per entrare in un dinamismo di salvezza efficace è un’opera di liberazione interiore capace di creare uno spazio di silenzio che permette la ricezione del dono rinnovato di un appello alla vita.

Tristi

XXII settimana T.O. –

La predicazione del Vangelo sembra necessariamente legata alla preoccupazione che <non siate tristi come gli altri che non hanno speranza> (1Ts 4, 13). Se questo riguarda nelle preoccupazioni dell’apostolo quanti sono morti, riguarda ancor più urgentemente coloro che sono vivi. Le parole conclusive della prima lettura: <Confortatevi dunque a vicenda con queste parole> (4, 18), possono essere applicate in modo del tutto particolare alle parole con cui il Signore Gesù inaugura il suo ministero pubblico completamente teso a tenere desta la speranza e a ravvivare continuamente la gioia di tutti: <mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore> (Lc 4, 18-19). In una parola, il Signore Gesù desidera essere in mezzo a noi e per noi animatore e sostenitore della nostra gioia riscattandoci da tutto ciò che ci rende <tristi>.

A ben pensare non è poi così facile essere persone segnate dalla gioia e liberate in modo fondato dalla tristezza. Nella vita del Signore Gesù, intessuta di parole e gesti, possiamo contemplare una sorta di cammino deciso ed esigente verso una gioia sempre più pura e più vera che non ha niente a che vedere con una sorta di immunità o di immunizzazione dal dolore, ma corrisponde ad in processo interiore fatto di intelligenza e di abbandono che permette di poter dire non solo ogni giorno, ma in ogni momento: <Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato> (4, 21). La lettura annuale del vangelo secondo Luca, che ricominciamo oggi e ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico, non lascia dubbi: il compimento passa attraverso una verità di relazione che esige una presa di posizione ben più profonda di una semplice espressione di simpatia.

Il cammino verso Gerusalemme che rappresenta il cuore e la struttura stessa di tutto il vangelo secondo Luca, sembra voler essere una pedagogia della gioia autentica che passa attraverso il dono pieno della propria vita consegnata con fiducia e amore alle mani del Padre tanto da essere messa nelle mani degli uomini. La conclusione di questo primo passo sembra essere scoraggiante poiché lo <cacciarono fuori… per gettarlo giù> (4, 29), ma, in realtà, è la speranza ad essere in viaggio poiché <egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino> (4, 30). Questo cammino del Signore che va dalla Galilea a Gerusalemme e da Gerusalemme ad Emmaus sulla cui strada i discepoli <col volto triste> (24, 18) sapranno riprendere la strada della gioia e della speranza. Lungo questi giorni di rinnovato ascolto del vangelo secondo Luca siamo chiamati a scoprire che il <figlio di Giuseppe> (4, 22) pur essendo tale è il <figlio dell’Altissimo> verso il cui <incontro> (1Ts 4, 17) tende tutta la nostra vita per essere, infine, <sempre con il Signore> liberati da ogni tristezza e rinnovati nella gioia.

Prego…

XXII Domenica T.O.

L’attitudine che il Signore Gesù ci invita ad assumere in tutti gli ambiti della nostra vita è quella di un’educazione piena di attenzione sincera all’altro. Questa educazione semplice e necessaria si esprime in una parola come quella che si usa mentre si invita qualcuno ad entrare in un ambiente o a prendere cibo: <prego…!>. In questa parola potrebbe nascondersi una semplice e persino falsa gentilezza, oppure il desiderio sincero di dare la precedenza all’altro per potergli manifestare tutta la gioia di stare con lui e di godere della sua compagnia. Siamo preoccupati del posto che occupiamo o siamo felici di ritrovarci attorno alla stessa mensa ove risulta chiaro, aldilà di tutte le apparenze, il fatto che siamo tutti uguali davanti al cibo, come davanti al mistero della vita e della morte. Per questo il Siracide esorta vivamente: <Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore> (Sir 3, 17)

La liturgia di oggi, nonostante le apparenze, non parla tanto di noi, quanto del Signore Gesù! Il versetto che introduce la pericope evangelica è di somma importanza per comprendere il resto. Siamo in giorno di <sabato> (Lc 14, 1) e il Signore Gesù viene invitato a pranzo in casa di un fariseo e tutti stanno ad osservarlo. La consuetudine vuole che ciascuno occupi il suo posto in considerazione del proprio e dell’altrui rango. Ecco perché tutti stanno ad osservare – come già in altre occasioni e in particolare in giorno di sabato – quale sarà il posto che il Signore andrà ad occupare…così da desumere quale posto voglia occupare per desumere così quale sia l’autocoscienza riguardo alla propria identità e alla propria missione. Per gli astanti è di certo assai difficile comprendere che la coscienza chiara di essere <mediatore dell’alleanza nuova> (Eb 12, 24) non ha nulla a che fare con la ricerca affannosa – e talora così patetica – di un posto d’onore che umili gli altri.

Al contrario delle aspettative e delle consuetudini, il Signore Gesù sembra restare in piedi e manifestare chiaramente di non voler occupare nessun posto! Ancora una volta, attraverso una parabola, il Maestro svela e smaschera quello che forse i suoi co-invitati si aspettano e temono: scegliere un posto troppo onorevole per doverlo vergognosamente cedere ad un altro, oppure fare di tutto per essere preferiti e onorati davanti a tutti… cosa che però non è assolutamente così certa. Inoltre, il Signore Gesù si rivolge direttamente a colui che lo ha invitato e, indirettamente, lo ringrazia, per averlo onorato di essere suo commensale e suo ospite proprio perché lo ha ritenuto alla pari degli <storpi, ciechi, zoppi…> (LC 14, 13) i quali non possono ricambiare. Quello è il posto di Gesù: tra quelli che non possono ricambiare! L’unica volta che il Signore invita a cena qualcuno è per dire che la sua vita è tradita e offerta come una burla. Sì, oggi Gesù non parla di noi, parla di se stesso e dice ad ogni uomo e donna: <prego, dopo di lei…>!

Je vous en prie…

XXII Dimanche T.O. –

L’attitude que le Seigneur Jésus nous invite à assumer dans toutes les situations de notre vie est celle d’une éducation pleine d’attention sincère envers l’autre. Cette éducation simple et nécessaire s’exprime en une parole comme celle que l’on utilise lorsque l’on invite quelqu’un à entrer dans un environnement ou à prendre un repas : «  Je vous en prie… ! ». Dans ces paroles pourrait se cacher un simple et peut-être même une fausse gentillesse, ou le désir sincère de donner la priorité à l’autre pour pouvoir lui manifester toute la joie d’être avec lui et de jouir de sa compagnie. Que nous soyons préoccupés par la place que nous occupons ou que nous soyons heureux de nous retrouver autour de la même table, le résultat est le même : au-delà de toutes les apparences, nous sommes tous égaux devant le repas comme devant le mystère de la vie et de la mort. C’est pour le Siracide nous exhorte vivement : «  Plus tu es grand, plus tu dois être humble et tu trouveras grâce devant le Seigneur » ( Sir 3, 17 ).

La liturgie de ce jour, malgré les apparences, ne parle pas tellement de nous, mais beaucoup du Seigneur Jésus ! Le verset qui introduit la péricope évangélique est très importante pour comprendre le reste. Nous sommes le jour du «  Shabbat» ( Lc 14, 1 ) et le Seigneur Jésus est invité au repas dans la maison d’un pharisien et tout le monde l’observe.  La coutume veut que chacun occupe sa place en considération de son rang et de celui de l’autre. Voilà pourquoi tous observent – comme déjà dans d’autres occasions et en particulier un jour de shabbat – quel sera la place qu’occupera le Seigneur…afin de conclure quelle place il veut occuper pour en déduire ainsi quelle conscience il a de sa propre identité et de sa propre mission. Pour l’assistance, il est certes assez difficile de comprendre que la claire conscience d’être «  médiateur de l’alliance nouvelle » ( Hé 12, 24 ) n’a rien à voir avec la recherche fébrile- et même si pathétique- d’une place d’honneur qui humilie les autres.

Au contraire des attentes et des coutumes, le Seigneur Jésus semble rester debout et manifeste clairement la volonté de n’occuper aucune place ! Une fois encore, à travers une parabole, le Maître dévoile et démasque ce que les convives attendaient et craignaient : choisir une place trop honorifique pour devoir, honteusement la céder à un autre, ou alors, tout faire pour être préféré et honoré devant tout le monde…ce qui n’est, absolument jamais le cas. De plus, le Seigneur Jésus s’adresse directement à celui qui l’a invité et, indirectement, le remercie, d’avoir eu l’honneur d’être son invité en le considérant l’égal des «  estropiés, des aveugles, des boiteux… » ( Lc 14, 13 ) qui ne peuvent  rendre la pareille. Voici la place de Jésus : parmi ceux qui ne peuvent répondre à l’invitation ! L’unique fois que le Seigneur invite quelqu’un à un repas, est pour lui dire que sa vie est trahie et offerte comme une moquerie. Oui, aujourd’hui, Jésus ne parle pas de nous, il parle de lui-même et dit à chaque homme et femme : «  je vous en prie, après vous… » 

Da Dio

XXI settimana T.O. –

Chi di noi potrebbe dire di realizzare esistenzialmente nella propria vita quanto viene ricordato dall’apostolo Paolo come se fosse un’evidenza: <riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri> (1Ts 4, 9). Non solo, l’apostolo ci tiene a sottolineare e a dichiarare che l’amore imparato alla scuola di Dio e non semplicemente come espressione dei nostri sentimenti migliori non può che essere rivolto <verso tutti> (4, 10). La lettura liturgica del vangelo secondo Matteo si conclude con una parola assai dura: <là sarà pianto e stridore di denti> (Mt 25, 30). Più che una minaccia che metterebbe in crisi tutto quello che lungo la lettura del vangelo secondo Matteo ci è stato rivelato del cuore <mite e umile> (Mt 11, 28) di Dio stesso, si tratta di una messa in guardia da tutto ciò che in noi può bloccare la crescita dell’amore tanto da trasformare l’investimento che Dio ha fatto su di noi in un misero fallimento.

Se Paolo ci ricorda che abbiamo <imparato da Dio> ciò a cui si riferisce è esattamente questa capacità continua di investire sull’altro onorando l’investimento che gli altri fanno su di noi. Il primo ad investire è, in realtà, Dio stesso. Se l’ultima parola con cui sembra essere vergata l’intera lettura del vangelo di Matteo così come ci viene offerto dalla Liturgia ci può inquietare è solo nella misura in cui dimenticassimo il gesto non solo magnanimo ma rischioso di quell’uomo che, al momento di mettersi in <viaggio> (Mt 25, 14) non va a trovare i <banchieri> (25, 27) ma <consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, e un altro uno, secondo la capacità di ciascuno, poi partì> (25, 15). Questa serena partenza che si basa su una fiducia di fondo nei confronti dei suoi servi è l’unico ambito che permetta una vera crescita di cui l’apostolo Paolo si fa esplicitazione con la sua parola di esortazione: <a progredire ancora di più e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostri mani> (1Ts 4, 10-11).

Pertanto, tutto ciò diventa impossibile se ci lasciamo prendere dalla <paura> che ci induce a <nascondere il tuo talento> (Mt 25, 25). Se c’è una cosa che non possiamo imparare da Dio è la paura che, invece, ci è stata inoculata come un veleno dal nemico delle nostre anime il quale ci ha convinto non a progredire sempre di più a partire dai doni che abbiamo ricevuto, ma a illuderci così tanto su noi stesso fino a cadere nella trappola dell’assoluta sfiducia in noi stessi tanto da provare <paura> (Gen 3, 10) e nasconderci. Quando cediamo a questa logica di sfiducia contagiosa al Signore non resta che confermarci nel nostro dubbio tanto che l’unica cosa che gli resta da fare per darci dignità è quella di far finta di credere alle nostre paure nella speranza di liberarcene prima o poi: <… tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso> (25, 26). Eppure, questo non è vero! Ma chi può convincerci dell’amore? Chi può liberarci dalla paura se noi non acconsentiamo alla fiducia?

Stringi!

Martirio di Giovanni Battista –

L’ordine che il Signore Dio dà perentoriamente al profeta Geremia diventa, per la Liturgia, la chiave con cui entrare nel mistero della profezia di Giovanni Battista che si compie con l’offerta della sua vita segnata da una sorta di banalità necessaria: <Tu, stringi la veste ai fianchi, alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò> (Gr 1, 17). Questo gesto rimanda alla necessità di potersi muovere con libertà e agilità al fine di poter servire con più efficacia. A quest’attitudine si riferirà lo stesso Signore Gesù quando, in una parabola, dirà di se stesso: <Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli> (Lc 12, 37). Facendo memoria del martirio del Battista possiamo veramente dire che il Signore non solo lo ha trovato ancora sveglio, ma lo ha trovato assolutamente disponibile a pagare, fino all’ultimo spicciolo, il prezzo della sua testimonianza e della sua profezia.

Lo stesso Signore Gesù, ben prima che il corpo esanime di Giovanni venisse raccolto per essere deposto in un sepolcro, aveva ribadito il legame di continuità e di rottura con la predicazione del Precursore interrogando a sua volta le folle perché non ne dimenticassero le esortazioni: <Allora che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re> (Lc 7, 25). Il Signore Gesù riconosce in Giovanni <più che un profeta> (7, 26). La sua profezia è un continuo rimando alla necessità di stringere tutto ciò che nelle scelte di vita rimanda ad una larghezza inutile e dannosa. In realtà, ciò che il Battista richiede ad Erode, è di saper ritrovare una misura nella propria vita, tanto da ricordargli: <Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello> (Mc 6, 18).

A nessuno di noi è lecito immaginare e pensare la vita come ad una realtà che continuamente si allarga e in certo modo si arricchisce persino di ciò che non le appartiene. La parola dei profeti e la stessa parola del Signore Gesù ci richiedono una correzione di sguardo sul modo di concepire la vita e sul rapporto che abbiamo – prima di tutto – con il mondo e le persone che ci circondano: non possiamo pretendere di prendere sempre di più e di avere diritto a qualsiasi cosa. È necessario saper stringere la cinghia delle nostre velleità, per imparare a vivere nel rispetto di noi stessi e degli altri e questo comporta sempre e necessariamente la capacità di saper rispettare i limiti che la vita necessariamente ci impone.

Eppure, Erode <temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri> (6, 20). Comunque, non basta ascoltare se non si è disposti a lasciarsi interpellare fino ad avere la disponibilità a cambiare… fino a superare la complicità che spesso coltiviamo con noi stessi e con il nostro bisogno di gonfiarci e di allargarci. Giovanni è sempre necessario, egli infatti ci ricorda che non ci sarà mai un’autentica esperienza di perdono e di misericordia senza una sana e decisa denuncia del male. Infatti, senza questa determinazione di denuncia si rischia, talora inconsapevolmente, di divenire insensibili e stolti di fronte all’ingiustizia e al peccato. Se ciò avvenisse qualcuno, prima o poi, ne approfitterà dandoci l’impressione di darci più spazio, ma, in realtà, uccidendo il meglio di noi stessi.

Sovrabbondare

XXI settimana T.O. –

Vegliare non è semplicemente il contrario di dormire, ma significa evitare accuratamente di cadere in un torpore che ci fa rischiare di non accorgerci di nulla e di nessuno. Ora, nell’esistenza che noi conduciamo, richiamo spesso di addormentarci e di sognare ad occhi aperti senza però darci tempo e modo di sognare in verità. Per sognare, infatti, secondo il Vangelo è necessaria un di più di attenzione che è sempre la forma di un di più di amore capace di darsi e di coinvolgersi nell’attesa. Chiudere gli occhi sulla realtà che ci circonda e che ci abita equivarrebbe a non regalarci più la possibilità di sognare e di aspettarci qualcosa dalla e nella vita. Il rischio è sempre quello di confondere il dinamismo vitalizzate della fede con l’anestetico della religiosità che autorizza a non sentire e a non affrontare la laboriosità delle relazioni. Questo esige la capacità e la volontà di non distrarsi e di non di-vertirsi non perché si ceda a un atteggiamento mortificante della vita, ma perché non ci si lascia andare alla superficialità: esserci è il primo passo perché la vita ci venga incontro e ci sospinga verso l’avvenire.

Dorme chi vive distratto pensando invece divertirsi avendo il cuore e la mente da un’altra parte rispetto al luogo in cui si trova e in cui si dovrebbe trovare. Il Signore Gesù ci chiede di essere vigilanti e di tenere gli occhi e gli orecchi tesi per scrutare i minimi segni del suo ritorno che si attua attraverso gli eventi e gli avvenimenti quotidiani tra le vicende della storia. Perfino in prossimità della sua passione il Signore Gesù riceve la bevanda che lo avrebbe stordito per vivere all’altezza del suo amore. Non si tratta di anticipare la morte, ma di imparare a vivere di più e meglio. Il Signore non definisce beato il servo che troverà in atto di redigere un memoriale di se stesso, bensì quello che troverà al suo lavoro che è appunto un servizio proteso al bene degli altri: <per dare loro il cibo a tempo debito> (Mt 24, 45). Lungi dal distoglierci dalla vita, l’attesa del ritorno del Signore ci rende sempre più sensibili alle esigenze della vita.

Il vissuto concreto e quotidiano è il già di ciò che ancora non vediamo e attendiamo tanto da mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo che fa tutt’uno con la sua speranza per quanti ama e da cui è stato così amato: <Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro amore per voi> (1Ts  3, 12). Una vita profondamente e durevolmente protesa nel desiderio e nella speranza di un compimento che ci supera, non può che essere segnata da una cura e un’attenzione piene di delicatezza e di umile servizio. In caso contrario non potremo che pensare di essere signori di noi stessi e quindi cercheremo in tutti i modi di imporci agli altri dimenticando la nostra parità fraterna e la nostra vocazione a servire. Una simile resa alla dimenticanza e all’orgoglio non può che intristire la vita: <lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti> (Mt 24, 51).