Traguardo

XXIX settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo suonano dure: <Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Il loro traguardo infatti è la morte> (Rm 6, 21). Continuando la sua catechesi sul mistero della grazia che opera nel cuore dei credenti, Paolo si avvicina sempre di più a scandagliare, per così dire, ciò che avviene nel cuore di ogni discepolo in cui il seme della grazia operante attraverso la fede non solo cresce, ma trasforma profondamente il cuore, formando l’uomo nuovo che si esprime attraverso i frutti di una giustizia non semplicemente come obbedienza alle prescrizioni della Legge, ma come trasformazione interiore attraverso la Legge: <Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il frutto della vostra santificazione e come traguardo avete la vita eterna> (6, 22). Ogni traguardo si staglia davanti a coloro che camminano e talora corrono per raggiungerlo e, perciò stesso, esso non si identifica mai con ciò che possediamo, ma sempre con ciò che speriamo e desideriamo. L’anelare a raggiungere un traguardo dà alla vita dinamismo e finalità.

Perché questa corsa nel desiderio possa continuare a raggiungere la sua meta, il Signore Gesù si fa complice del meglio di noi stessi tanto da esclamare: <Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!> (Lc 12, 49). Il fuoco non solo illumina e scalda, ma soprattutto il fuoco è capace di trasformare. Il seguito delle parole del Signore Gesù può anche inquietare: <Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione> (12, 51). La <divisione> che sembra essere conseguenza naturale della scelta per Cristo è simile al <fuoco> e rimanda al necessario e desiderabile <battesimo> (12, 50) senza il quale sarebbe impossibile essere veramente <liberati dal peccato e fatti servi di Dio> (Rm 6, 22). Il fuoco che il Signore accende nei nostri cuori è il dono del suo Spirito Santo che, pienamente donato nel suo mistero pasquale, immette la nostra vita nello stesso dinamismo che permette l’esodo quotidiano da noi stessi per aprirci all’opera di Dio in noi e attraverso di noi. Il fuoco è <l’amore, il desiderio, il fervore e il conflitto che lacera il cuore davanti alle esigenze della Parola>1.

Camminare verso il <traguardo> di un’autentica discepolanza esige il passaggio attraverso il conflitto con tutto ciò che abitualmente fa parte della nostra vita per riposizionare e ricomprenderne ogni aspetto e ogni dettaglio alla luce del Vangelo. La <divisione> (Lc 12, 51) di cui ci parla il Signore Gesù è il segno di un cammino di discernimento e di scelta che non sono mai indolore e non lasciano il mondo cui siamo abituati uguale a se stesso. Non si può scegliere senza rinunciare, non si può pensare di seguire senza lasciare! Quando il Signore Gesù riconosce di essere <angosciato>, assume su di sé tutta la nostra fatica ad essere fedeli al nostro desiderio e ci accompagna, amabilmente, nel lungo e non facile cammino di discernimento e di coronamento non solo di ciò che ci sta a cuore, ma di ciò che fa veramente bene al cuore.


1. J.-L. CHRETIEN, L’intelligence du feu, Bayard, Paris 2003, p. 135. 

Di cuore

XXIX settimana T.O. –

L’apostolo Paolo continua la sua catechesi sulla grazia della libertà che esige di vivere nella libertà della grazia. Siamo di fronte ad un necessario e quotidiano discernimento che pure, bisogna riconoscerlo, non è così semplice ed esige una capacità di attenzione e di intelligenza. La domanda si fa urgente: <Come fare ad essere autenticamente liberi senza cedere a forme di libertinaggio assecondando il comodo e la superficialità?>. Nelle parole dell’apostolo possiamo trovare una guida per orientarci e districarsi nei meandri talora così complicati del nostro stesso cuore: <Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati> (Rm 6, 17). Come spiega Romano Penna: <Paolo vorrebbe alludere al dato fondamentale di un’avvenuta trasformazione interiore compiuta nel credente dalla fede e dallo Spirito Santo, a cui segue poi anche una obbedienza etica>1.

Il Signore Gesù conferma questo principio ermeneutico con una frase che può anche destare un po’ di turbamento: <A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più> (Lc 12, 48). Questa frase sibillina, che mette in crisi tutti i nostri parametri di giustizia, è la conclusione della risposta che il Signore Gesù cerca di dare al turbamento di Simon Pietro davanti all’invito ad essere oltremodo vigilanti: <se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa> (12, 39). Con questa <parabola> (12, 41) che sembra mettere in subbuglio il cuore di Pietro, siamo raggiunti personalmente al cuore della nostra ricerca e del nostro desiderio di essere discepoli il cui primo passo è una capacità di abitare il nostro cuore per coltivare un cammino di autentica libertà. La differenza tra la libertà discepolare e l’essere <schiavi> (Rm 6, 16) sta proprio in questa disponibilità e scelta di <dare la razione di cibo a tempo debito> (Lc 12, 42). Al contrario chi <cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare e a ubriacarsi> (12, 45) non potrà che essere escluso dal flusso della grazia che è sempre legata alla capacità di servire e di prendersi cura <di cuore>. 

Vi è una sottigliezza nelle parole del Signore Gesù che non bisogna lasciar cadere. Sembra che la cura verso gli altri cominci e si radichi in una cura verso il Signore stesso: <Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo> (12, 40). Ciò che libera il nostro cuore e lo rende capace di fedeltà è il fatto di attendere veramente qualcuno senza essere prigionieri di se stessi ma come <viventi ritornati dai morti> (Rm 6, 13). Con questa parola un po’ misteriosa l’apostolo Paolo ci apre sulla realtà di una vita che sa decidere fino a saper attraverso la morte ai desideri disorientati per far sì che si faccia sempre più spazio al Desiderio che fa di noi dei discepoli liberi e fedeli.


1. R. PENNA, Lettera ai Romani, EDB 2010, pp. 458.459

La natura e il pensiero: a 10 anni dalla Laudato Si’

una riflessione tra filosofia, teologia, scienza ed educazione alla sostenibilità

Sabato 8 novembre 2025, ore 9.00
Abbazia della Novalesa (TO)

La suggestiva cornice dell’Abbazia della Novalesa ospita il convegno “La Natura e il Pensiero”, promosso dalla Città Metropolitana di Torino e dalla comunità monastica, in collaborazione con istituzioni, enti locali, realtà educative e culturali del territorio. Un’anticipazione degli eventi che, nel 2026, celebreranno i milletrecento anni dalla fondazione dell’abbazia. L’evento si concentrerà sul dialogo tra filosofia, teologia, scienza ed educazione: quattro prospettive complementari per comprendere a fondo la complessità del rapporto tra Uomo e Natura. Non a caso, l’iniziativa è stata organizzata proprio nel 2025, a dieci anni dalla pubblicazione dell’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco.

Il convegno offrirà spunti e riflessioni sull’eredità del documento che ha segnato una svolta nella coscienza ecologica globale, avvicinando sguardi diversi attorno a un tema che, analizzando il presente, interroga il futuro.

Il convegno vuole essere un dialogo fra saperi, un’occasione per superare le barriere ideologiche e indagare la natura non soltanto con la lente della Scienza, ma anche come questione culturale, filosofica e antropologica.

A partire dai dati scientifici, l’incontro esplorerà le radici della distanza tra uomo e ambiente, riflettendo sulle visioni del mondo che hanno alimentato questa frattura, che il pensiero ecologico e spirituale vorrebbe sanare.

Programma dettagliato

Mattina (dalle ore 9 alle 13) – relazioni in aula

Moderatori: Gianni Boschis (docente di Geografia, geologo, divulgatore scientifico) ed Eloisa Giannese (giornalista)

9.30-10.00
Saluti istituzionali:
Introduzione del vicesindaco della Città Metropolitana Jacopo Suppo
Intervento del sindaco di Torino Stefano Lo Russo

10.00–10.40
Michael Davide Semeraro (priore dell’Abbazia, monaco, teologo, scrittore)
Ascoltare il grido… della Terra e dei poveri

10.40–11.20
Daniele Cat Berro (Climatologo, SMI)
Scienza ed evidenze della crisi climatica: da Papa Francesco alla situazione attuale

11.20-12.00
Eloisa Giannese (giornalista)
Il compito della filosofia oggi: tornare alla natura, riscoprire l’anima del mondo

12.00–12.40
Armando Minutola (docente di Filosofia)
Io e il mondo: dal Romanticismo alla cittadinanza consapevole

12.40–13.00
interventi dal pubblico e conclusioni della mattinata ad opera di Jacopo Suppo (vicesindaco Città Metropolitana)

Pausa pranzo (dalle 13.00 alle 14.30)

_____
Pomeriggio (dalle 14.30 alle 17.00)

14.30–15.30
Escursione guidata: Uno sguardo sulla Natura in rapporto all’uomo.
Lezione “en plein air” e Cappella di Sant’Eldrado.
A cura di Cristina Converso (dottore forestale e scrittrice), Luca Cavallo (agronomo) e Gianni Boschis

15.30–17.00
Voci dal mondo della Scuola. Gli aspetti educativi dell’Enciclica visti da docenti e studenti
a cura di Daniele Cane (docente di Fisica);
l’esempio del progetto “Ghiaccio fragile”.
Moderano: Gianni Boschis ed Eloisa Giannese

Conclusioni, consegna attestati e commiato

Partecipazione gratuita, iscrizione obbligatoria

Il convegno è rivolto a tutti coloro che desiderano approfondire ed esplorare le tematiche ambientali in chiave interdisciplinare, ed è particolarmente consigliato a insegnanti, educatori, tecnici del territorio, amministratori locali, studenti, associazioni culturali e ambientaliste. Ai docenti partecipanti verrà rilasciato un attestato valido ai fini dell’aggiornamento professionale.

Iscrizione obbligatoria tramite link: https://forms.gle/3DpFUwemob3WDNHx6


Città Metropolitana di Torino, Abbazia di Novalesa 

in collaborazione con: Unione Montana Valle Susa,  Meridiani società scientifica, progetto Ghiaccio fragile, SMI, ANISN Piemonte, La Valsusa, ACSEL

Molto di più

XXIX settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo Paolo sembrano aprire un orizzonte capace di dare ampiezza e grandezza al nostro cuore: <molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti> (Rm 5, 15). A motivo della rivelazione di Dio in Cristo Gesù, tutta la nostra vita è ormai sotto il segno di questo <molto di più> che crea le condizioni e ci ricorda le esigenze di essere in grado di vivere nello stesso dinamismo di dono e di offerta di sé. La parola che il Signore rivolge ai suoi discepoli non è vaga, ma riguarda esattamente questo atteggiamento necessario di disponibilità appassionata al <di più>. Per questo il Signore non esita ad esortare con forza: <Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simi a quelli che attendono il loro padrone quanto torna dalle nozze> (Lc 12, 35-36). Il fatto che il padrone stia tornando dalle nozze è come la garanzia che il suo sia un rientro segnato dalla gioia e dalla sovrabbondanza di dono che esige un atteggiamento simile da parte dei suoi servi: <E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro> (Lc 12, 38).

La divisa di servizio è un imperativo che rimanda ed evoca l’uscita dall’Egitto che fu per il Signore <una notta di veglia> (Es 12, 42) una sorta di turno di duro lavoro. Cosicché la nostra vigilanza non è che una risposta alla vigilanza di Dio che è sempre all’opera (cfr. Gv 5, 17) per realizzare la nostra liberazione e la nostra salvezza. Attendere il pieno compimento delle promesse non significa aspettare un tempo di ozio, ma di comunione creativa e laboriosa in Dio che segna e trasforma tutte le nostre relazioni umane. Il destino di gloria cui siamo chiamati è un atteggiamento autentico e forte di servizio che ci rende simili al nostro creatore e redentore: <in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli> (Lc 12, 37). Ci meraviglia questo padrone che torna dalla festa di nozze a cui i servi non sono stati invitati e che pure si mostra così contento per il fatto di essere atteso dai suoi servitori nella notte. Una gioia così grande che lo induce ad organizzare – come servo tra amici servi – una festa con loro che diventa una festa per loro.

Questo padrone torna nella notte eppure <bussa> (Lc 12, 36) perché non ha voglia di sorprendere ma di essere atteso e di essere accompagnato nel segreto della sua casa per continuare la sua intima festa: come e chi potrebbe dormire in una notte come questa, quelle delle nozze?! Riscoprire la nostra identità di servi che hanno un padrone capace di mettersi alla nostra tavola e persino di servirci alla sua tavola per poter condividere con noi la sua gioia… questa è la grande novità che cambia radicalmente e inaspettatamente tutta la nostra vita. La parabola che ritroviamo nella liturgia di oggi ci permette di capire meglio il messaggio che in un modo un po’ più complicato ci viene trasmesso dall’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: <molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti> (Rm 5, 15).

Promessa

XXIX settimana T.O. –

Tutta la nostra vita umana è un cammino di presa di coscienza e di crescita nella consapevolezza di quanto e di come la nostra umana avventura è più legata a ciò che è stato <promesso> e viene continuamente promesso nella verità e nella creatività di una relazione, piuttosto che nell’immobilità di un gioco di ricchezze che portano a dividere piuttosto che a condividere. In realtà, la richiesta che viene presentata al Signore Gesù diventa per noi un monito: <Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità> (Lc 12, 13). Se la relazione con il Signore non ci porta un po’ oltre questo bisogno di parcellizzazione che corrisponde, in verità, ad un processo di impoverimento, allora siamo sulla strada che conduce alla disumanizzazione. Nel nostro cuore siamo chiamati a coltivare e a far crescere un atteggiamento completamente diverso come fece il nostro padre Abramo <convinto che quanto> gli era stato <promesso era anche capace di portarlo a compimento> (Rm 4, 21).

Il dinamismo della fede non è altro che un processo di sempre più grande apertura e disponibilità a camminare con gli altri tanto da rendere impossibile – anzi assolutamente impensabile – un argomento come quello su cui si sofferma il protagonista della parabola: <riposati, mangia, bevi, divertiti!> (Lc 12, 19). In realtà bisogna riconoscere che se la vita è relazione, allora quella di quest’uomo apparentemente così vivace è già morta a motivo della sua chiusura. Così la parola che gli viene rivolta dall’Altissimo più che una punizione ha tutta l’aria di essere una semplice constatazione con cui non solo si prende atto, ma pure si cerca di cogliere tutte le conseguenze. La vita non consiste nell’avere la propria parte di eredità, ma di avere parte all’eredità, secondo il dramma vissuto dagli altri due fratelli (Cfr Lc 15) di cui Gesù ci parla in una delle sue più belle parabole. Laddove un uomo costruisce magazzini e recinti sempre <più grandi> (Lc 12, 18), ecco che la sua vita diventa sempre più piccola e, in certo modo, proporzionalmente più vana e quindi anche più breve. Infatti, anche se fosse lunghissima la morte sembrerà sempre una terribile ingiustizia. Laddove lo stolto ragiona <tra sé> (12, 17) e parla in termini di possesso perfino dell’<anima mia> (12, 19) il Signore ricorda, con la sua parola e il suo rifiuto di “mediazione”, che il tutto deve essere invece considerato <davanti a Dio – in greco: verso Dio>.

Lo spirito del Vangelo rivoluziona il nostro modo di relazionarci reciprocamente: siamo tentati dal fare le cose tra di noi – dividendo – mentre il Signore ci invita a riconsiderare tutto ciò che avviene tra noi – a livello orizzontale – a partire dalla direzione di fondo che è assolutamente verticale: verso Dio! Allora la domanda dello stolto rimane valida e intrigante perché tradisce il nostro desiderio di ammassare per sentirci al sicuro: <Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?> (12, 17). Lasciamoci interiormente lavorare e profondamente interrogare dall’esortazione evangelica: <Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede> (Lc 12, 15) perché dipende da ciò che condivide.

Combattere

XXVIII Domenica T.O.

La liturgia della Parola di questa domenica esordisce in modo assai deciso: <In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele e Refidim> (Es 17, 8). Bisogna ricordare che Amalèk secondo quanto testimoniano le Genealogie (cfr. Gn 36) proviene dalla stirpe di Esaù, legato dunque agli Edomiti con cui condivide l’atavica inimicizia con Giacobbe. Il luogo dello scontro con Giosuè (Es 17, 8) è Refidim la cui etimologia – raphah+yadim – significa avere le mani deboli. La Mekhiltà indica un <rilassamento delle mani> e così ricorda che l’Avversario appare, non appena c’è un rilassamento. Al contrario, la preghiera secondo la parola del Signore Gesù – nel Vangelo – è una <necessità> che esige un buon allenamento nella perseveranza: <senza stancarsi mai> (Lc 18, 1). La parola della <vedova> che continua ad importunare il giudice è una parabola di questa capacità della preghiera: una preghiera capace  di piegare e rettificare il corso della storia, togliendo la presa al male proprio con un’attitudine di combattimento che non accetta nessuna forma di allentamento. Ritorniamo così ai tempi di Amalèk quando Mosè non lasciava cadere le sue mani mentre Giosué combatteva nella valle. Secondo la sapienza della Tradizione, la guerra contro il nemico di Dio esisterà sempre nella storia e <solo la potenza di chi ha aperto il mare, tramite il bastone di Mosé, può garantire la vittoria>1.

La lotta contro il volto di turno del nemico di Dio va fatta con perseveranza e senza arrendersi. Bisogna assiduamente perseverare nel perseguire ciò che sentiamo essere un bene necessario non solo per la nostra vita, ma – soprattutto – quando questo bene riguarda la vita e la felicità degli altri. L’apostolo Paolo si pone nella stessa linea dell’Esodo e nella stessa prospettiva di quel cammino che il Signore Gesù sta compiendo, con ferma decisione, verso Gerusalemme: <tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente> (2Tm 3, 14). Non è raro come, il  pensare alla preghiera, corrisponda ad immaginare una certa dimissione nei confronti della vita e della storia. Al contrario, la preghiera è il modo remoto e profondo di preparare al meglio tutti i passi che, nella vita e nella storia, siamo chiamati necessariamente a compiere perché siano autentici e duraturi.

Una nota assai significativa, nella conclusione della parabola, è il fatto che per la sua interpretazione il Signore Gesù ricorre a due domande e non a due affermazioni, quasi indicando che la preghiera – prima di essere una risposta appagante – è un interrogativo che interpella l’interezza della nostra umana esperienza, un’esperienza percepita e vissuta al massimo grado di estensione in relazione a Dio. Così conclude il Signore Gesù: <E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?>. Come se non bastasse c’è un altro punto interrogativo: <Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?> (Lc 18, 7-8). La preghiera non consiste nelle belle parole o nei bei sentimenti, ma nella capacità di perseverare nelle battaglie della vita anche quando ci sentiamo terribilmente soli… e Dio sarà al nostro fianco senza mai sostituirsi a noi, al fine di permetterci di gustare l’onore del combattere e la gioia di vincere.


1. E. BIANCHI, Lontano da chi?, Gribaudi,  p. 203.

Combattre

XXIX Dimanche T.O. –

La liturgie de la Parole de ce dimanche débute de façon assez décisive : «  En ces jours, Amalek vint combattre Israël à Rephidim » ( Ex 17, 8 ). Il faut se rappeler que Amalek, selon les témoignages de la Généalogie ( cf Gn 36 ), provient de la lignée d’Esaü, lié donc aux Edomites avec qui il partage l’animosité ancestrale avec Jacob. Le lieu de la confrontation avec Josué ( Ex 17,8 ) est Rephidim dont l’étymologie –raphah+yadim – signifie avoir les mains faibles. La Mekhilta indique un « relâchement des mains » indiquant ainsi que l’Adversaire apparaît dès qu’il y a un relâchement. Au contraire, la prière, selon la parole du Seigneur Jésus – dans l’Evangile – est une «  nécessité » qui exige un bon entraînement dans la persévérance «  sans jamais se relâcher » ( Lc 18, 1 ). La parole de la «  veuve » qui continue à importuner le juge est une parabole de cette capacité de prière : une prière capable de plier et rectifier le cours de l’histoire, éliminant la prise au mal par une attitude de combat qui n’accepte aucune forme de relâchement. Retournons ainsi aux temps d’Amalek quand Moïse ne baissa pas les bras pendant que Josué combattait dans la vallée. Selon la sagesse de la Tradition, la guerre contre l’ennemi de Dieu existera toujours dans l’Histoire et «  seule la puissance de celui qui a ouvert la mer par le bâton de Moïse, peut garantir la victoire » 1.

La lutte contre la volte-face de l’ennemi de Dieu est faite avec persévérance et sans se rendre. Il faut persévérer assidûment dans la poursuite de ce que nous sentons être un bien nécessaire, non seulement pour notre vie, mais – surtout – lorsque ce bien concerne la vie et le bonheur des autres. L’apôtre Paul se situe dans la même ligne de l’Exode et dans la même perspective de ce chemin que le Seigneur Jésus accomplit, vers Jérusalem, avec une ferme décision : «  Pour toi, tiens-toi à ce que tu as appris et dont tu as acquis la certitude » ( 2 Th 3, 14 ). Il n’est pas rare  que penser à la prière corresponde à imaginer une certaine démission face à la vie et à l’Histoire. Au contraire, la prière est une façon profonde d’envisager la meilleure préparation possible de tous les pas que nous sommes nécessairement appelés à accomplir dans notre vie et notre Histoire, afin qu’ils soient authentiques et durables.

Une remarque assez significative, dans la conclusion de la parabole, est le fait que le Seigneur Jésus recourt, pour son interprétation, à deux questions et non à deux affirmations, indiquant ainsi que la prière – avant d’être une réponse épanouissante – est une interrogation qui interpelle l’intérêt de notre expérience humaine, une expérience perçue et vécue au plus haut point d’extension de la relation à Dieu. Ainsi conclut le Seigneur Jésus : «  Et Dieu ne ferait pas justice à ses élus, qui crient vers Lui jour et nuit ? ». Et, comme si cela ne suffisait pas, il y a un autre point d’interrogation : «  Mais, le Fils de l’homme, quand il viendra, trouvera-t-il la foi sur la terre ? » ( Lc 18, 7-8 ). La prière ne consiste pas dans de belles paroles ou de beaux sentiments, mais dans la capacité de persévérer dans la bataille de la vie même lorsque l’on se sent terriblement seuls…et Dieu sera à nos côtés sans jamais se substituer à nous, afin de nous permettre de savourer l’honneur du combat et la joie de vaincre.


1. E. BIANCHI, Lontano da chi?, Gribaudi, p. 203

Però

San Luca evangelista –

La prima lettura ci fa entrare con una tenerezza sofferta nella festa dell’evangelista Luca che, come discepolo dell’apostolo Paolo, è stato capace per così dire di mettere nero su bianco l’esperienza e il travaglio del suo maestro e iniziatore alla vita discepolare. In pochi versetti siamo messi di fronte alle gioie e alla sofferenza della testimonianza al Vangelo che accompagna la vita di chiunque accetta con autenticità di fare della propria vita un servizio di annuncio. Paolo non ha timore nel dichiarare che <Dema mi ha abbandonato> (2Tm 4, 10) come pure che <Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito tutti mi hanno abbandonato> (4, 16). Seppure l’apostolo con semplicità e chiarezza evochi i travagli del suo ministero non ne dimentica le gioie che sono rafforzate proprio da queste esperienze dure che gli permettono di sentire in modo ancora più forte e sensibile la gioia della comunione nell’apostolo cui è sottesa una vera fraternità fatta di complicità pastorale, ma prima di tutto di autentico affetto umano che si esprime in quel toccante sussulto che gli fa dire: <Solo Luca è con me> (4, 11).

La conclusione della prima lettura di questa festa ci apre in modo del tutto naturale ad accogliere la sfida di essere discepoli capace di riprendere ogni giorno la strada dell’annuncio e della testimonianza: <Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero> (4,17). In questo <però> così eloquente si esprime il travaglio di ogni discepolo di essere testimone generoso ed esigente senza mai essere petulante e colpevolizzante. Per questo la consegna del Signore a quanti invia davanti a sé per preparare il terreno all’accoglienza della sua parola suo in questi termini: <In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”> (Lc 10, 5). Si potrebbe riassumere così: però prima di annunciare il Vangelo bisogna saperne riconoscere la presenza della grazia che salva che è già là dove pensiamo di portarla.

Oggi facciamo memoria di questo discepolo capace di farci percepire il volto di Cristo con pennellate di colori forti e dolci al contempo e capaci, comunque, di scaldare il cuore. L’evangelista della nascita di Cristo e della Chiesa si rivela capace di darci il gusto degli inizi facendoci sentire in modo densissimo il profumo terapeutico e rigenerante della fecondità degli inizi che possono ritrovare la loro freschezza attraverso la gioia di sperimentare il dono di un perdono sempre possibile. La penna di Luca traccia i contorni di un volto di Cristo che riconosce in ogni volto un riflesso amabile dello stesso volto del Padre. In compagnia e alla scuola di Luca impariamo non solo a contemplare il volto di Dio nei tratti dolcissimi e amabili del volto di Cristo, ma impariamo altresì a vedere noi stessi come Dio ci vede. In tal senso la lettura del vangelo è sempre una scuola di contemplazione che, secondo l’intuizione di Luca, non è mai contemplazione mistificata ma è sempre mediata attraverso la capacità di porre il proprio sguardo sulla croce del Signore come icona di ogni umana sofferenza che richiede l’estrema compassione dell’amore.

Timore

XXVIII settimana T.O. –

Qualcuno sostiene di avere contato tutte le volte in cui nelle Scritture ritorna l’invito a non temere e a non avere paura! Secondo questo calcolo sarebbero trecentosessantacinque le volte in cui il Signore invita a non lasciarsi prendere dal panico… una per ogni giorno dell’anno. In questo modo sarebbe chiaro come il segno di una relazione con Dio autentica e reale si dedurrebbe da una capacità ad attraversare le non sempre facili acque della vita, con un senso di fiducia profonda. Il Signore Gesù fonda questa nostra fiducia nella consapevolezza di essere oggetto di una cura e di una benevolenza che ci precede e ci accompagna fino a dire che <Anche i capelli del vostro capo sono contati> e a rassicurarci sul fato che <valete più di molti passeri> (Lc 12, 7). Nondimeno quella cui il Vangelo ci esorta non è una fiducia inconsapevole e ingenua. Nello stesso passo veniamo energicamente esortati anche a maturare e coltivare un timore fatto di consapevolezza e di vigilanza su noi stessi: <Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete costui> (12, 5).

A questo punto bisognerebbe contare tutte le volte in cui le Scritture invitano a temere il Signore che, secondo gli Scritti, è il principio stesso della sapienza (Sir 1, 12). Non sarebbe impossibile, che l’invito a temere il Signore sia equivalente, se non numericamente almeno qualitativamente a quelli in cui siamo invitati a non avere paura. La sfida per ogni discepolo è quella di non essere schiavo, ma di essere profondamente libero e questo significa ogni giorno saper superare i condizionamenti che, attraverso la paura, rischiano di farci vivere in modo inadeguato alla nostra umanità e nondimeno saper scegliere quali limiti imporre e quali direzioni proporre alla propria vita.

Questo è stato il cammino, lungo e talora difficile e puntellato di non poche regressioni, del nostro padre Abramo. Riguardo a lui potremmo porci la stessa domanda che si pone l’apostolo: <Che cosa ha ottenuto?> (Rm 4, 1). Se rileggiamo la storia di fede di Abramo ci rendiamo conto che aldilà e al di sopra di tutto – persino della discendenza così a lungo attesa e sperata – il Patriarca è divenuto sempre di più libero nella fede e un uomo di fede sempre più libero e, perciò stesso, sempre più vero con se stesso e con gli altri. Infatti, la lunga attesa cui il Signore lo costringe è un modo per aiutare Abramo a prendere coscienza, sempre più chiaramente, di ciò che veramente abita e desidera il suo cuore. Questo suo cammino è anche il nostro! Siamo, infatti, chiamati a fare chiarezza nel nostro cuore e mettere sempre più <in piena luce> (Lc 12, 3) ciò che ci abita profondamente e veramente. Se ci nascondiamo saremo necessariamente scovati, se accettiamo di venire allo scoperto saremo sicuramente e dolcemente ricoperti da quel mando di misericordia e di benevolenza che non è mai connivenza con le tenebre della menzogna: <beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato> (Rm 4, 8), ancora più beati siamo quando il Signore si rivolge a noi chiamandoci <amici miei> (Lc 12, 4).

Sangue

XXVIII settimana T.O. –

Continua il tentativo di Paolo di illustrare il mistero di quel dono di salvezza che ci ha raggiunti e continua a raggiungere la vita di ciascuno di noi. L’apostolo insiste con forza quasi debba lottare contro le forme ricorrenti di una ricerca di merito che rischia di creare un’ansia di prestazione che, troppo facilmente, si rivela una frustrazione. Il concetto è assai chiaro: <sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù> (Rm 3, 24). Il dono di grazia che riceviamo gratuitamente attraverso Cristo Signore e in virtù del suo dono pasquale se ci raggiunge gratuitamente è invece pagato a caro prezzo dal Signore: <E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della giustizia per la remissione dei peccati passati> (3, 25). Quando un ebreo parla di <sangue> in realtà non fa che parlare del dono della vita intesa nella sua interezza soprattutto per quanto riguarda il suo dono per una nobile causa.

È lo stesso Signore Gesù che nel Vangelo reagisce all’ostruzionismo spirituale di scribi e farisei evocando la necessità, per così dire, di fare i conti con il sangue: <perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dalla fondazione del mondo: dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario> e il Signore sembra insistere: <Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione> (Lc 11, 50-51). La stupidità con cui i farisei e i dottori della legge reagiscono al discorso di Gesù, genera quel desiderio omicida che li porterà ad uccidere il Cristo. Il Signore Gesù pagherà con la vita, con il suo sangue, di cui ci nutriamo ogni volta che partecipiamo all’Eucaristia, il desiderio di voler mettere in comunione il popolo con Dio. Ma proprio la sua morte, proprio la sua croce diventerà quel ponte che consente ad ogni uomo di comunicare con il Padre. Il suo sangue ha spalancato le porte della casa di Dio perché tutti possano entrarvi.

Alla luce di tutto ciò possiamo comprendere meglio cosa significhi e cosa comporti la solenne e rivoluzionaria parola dell’apostolo Paolo: <Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge> (Rm 3, 28). Questo non significa incrociare le braccia, ma comporta la generosa decisione di dare la vita fino in fondo come risposta d’amore alla gratuità di un dono ricevuto e riofferto senza fare conto di quanto possa costare in termini di dedizione e persino di perdita. Ciò che il Signore Gesù disapprova assolutamente nella condotta degli scribi e dei farisei, è la dimenticanza di quella <clemenza di Dio> senza la quale nulla può essere giusto e santo. Dimenticare la clemenza e insistere sulle opere della Legge, non solo come espressione della propria fede – e questo non può che essere lodevole e degno – ma come parametro di giudizio della fede degli altri, non può che – ben diverso da quell’amabile <indipendentemente> appena evocato – portare inesorabilmente a condannare, uccidere e sottrarre <la chiave della conoscenza> (Lc 11, 52). La conoscenza di cui ci parla il Signore non è la fredda teologia che non si è mai tirata indietro nel costruire dorati e magnifici <sepolcri> (11, 47), ma è sempre congiunta – anzi è l’espressione più vera – all’amore.