Asilo

XXV settimana T.O. –

Non saremo mai grati abbastanza e non faremo mai abbastanza nostre le parole dello scriba Esdra: <Ma ora, per un po’ di tempo, il Signore, nostro Dio, ci ha fatto una grazia: di lasciarci un resto e darci un asilo nel suo luogo santo, e così il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi e ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù> (Esd 9, 8). Così pure non saremo mai abbastanza docili ad accogliere la provocazione del Signore Gesù che affida anche a noi il mandato di cui sono investiti gli apostoli: <E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi> (Lc 9, 2). Il ruolo e la missione della Chiesa al cuore dell’umanità, è pensato e voluto dal suo Signore in vista dell’incremento della sua felicità che si identifica con la capacità di offrire ad ogni creatura un <asilo>. Così esortava il vescovo ausiliare di Parigi negli anni in cui la Chiesa – dopo il ’68 – vedeva trasformare radicalmente il proprio modo di presenza nel mondo, quasi costretta – dalla congiuntura culturale, politica ed economica – ad assumere un volto più evangelico: <La Chiesa di Gesù non ha niente altro da offrire se non la fede, la carità e la speranza dei primi discepoli che non hanno trasformato il mondo con il metodo dei politici, dei sapienti o dei filosofi. Ma hanno fatto di più, hanno annunciato al mondo la salvezza, e questo perché il Vangelo ha loro insegnato ciò che abita profondamente il cuore dell’uomo>1.

Proprio per crescere sempre di più in quella che potremmo definire una sensibilità a tutto ciò che è umano, il Vangelo non è – come spesso si sente dire e persino avvertiamo dentro di noi – una lunga serie di proibizioni etiche. Oggi la parola del Signore Gesù ci mette di fronte ad una serie di raccomandazioni perché mai, in noi, ci sia qualcosa che faccia da ostacolo alla luce del Vangelo: <Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche> (9, 3). Al cuore della consegna del Signore Gesù, affidata agli apostoli, non vi sono degli “interdetti” cui sottomettere gli altri, ma delle esigenze rigorose cui sottomettere se stessi per essere veramente in grado di aprire il cuore all’accoglienza della buona novella del regno di Dio. La condizione dell’annuncio sembra proprio essere una sorta di leggerezza interiore indicata da un passo così agile da suscitare gioia – e non timore – fin da quando si è  ancora lontani.

Gli apostoli sono uomini e credenti che non hanno nulla, se non quella realtà che portano dentro come un dono ricevuto da condividere,  le cui condizioni imprescindibili sono quelle di  una serena dipendenza dalla benevolenza degli altri e una gioiosa povertà: realtà queste che diventano il luogo possibile dell’incontro e della comunicazione dei doni. Talora tutto ciò può avvenire in modo assolutamente imprevisto tanto da trovare sulla bocca di Esdra parole commoventi: <ma nella nostra schiavitù il nostro Dio non ci ha abbandonati: ci ha resi graditi ai re di Persia, per conservarci la vita ed erigere il tempio del nostro Dio e restaurare le sue rovine, e darci un riparo in Giuda e Gerusalemme> (Esd 9, 9). Chi se lo sarebbe mai aspettato?!


1. D. PEZERIL, Sortez de votre sommeil, Paris 2001, p. 41.

Puri!

XXV settimana T.O. –

La dichiarazione del Signore Gesù potrà sembrare persino brusca; eppure, è fondamentale per la Chiesa di ogni tempo chiamata continuamente a risituare se stessa nel duplice riferimento a Cristo suo Signore e all’umanità di cui e per cui è sacramento di salvezza. <Mia madre e i miei fratelli sono questi…> (Lc 8, 21). Per capire ancora meglio cosa sia necessario vivere per fare parte di <questi>, senza rischiare di rimanere fuori da una relazione significativa con il Signore Gesù, nonostante si possa vantare un grado non trascurabile di vicinanza e di familiarità, la prima lettura sembra darci un quadro assai eloquente: <continuarono a costruire e a fare progressi> e ancora <portarono a compimento la costruzione per ordine del Dio d’Israele e per ordine di Ciro, di Dario e di Artaserse, re di Persia> (Esd 6, 14). Ciò che indica un reale grado di familiarità con il Signore è un riscontrabile livello di laboriosità che tiene conto, continuamente e sempre, di una relazione non esclusiva – nemmeno con Dio! – ma che obbedisce alla volontà del Signore accettando che essa passi – e ne sia come plasmata – attraverso le umane vicissitudini.

La ricostruzione e la dedicazione del Tempio di Gerusalemme è il risultato di una sorta di cospirazione tra il Dio di Israele e i re pagani. Questi ultimi sostengono il popolo nel suo progetto di riedificazione di un luogo che restituisce agli esiliati un’identità forte, nella coscienza ferma che essa rinasce in relazione e con l’aiuto insperato e inaudito di coloro che avevano tentato di annientarla. La nascita del Giudaismo come riscossa di un popolo che ritrova la sua terra e le sue abitudini e che è fortemente tentato di isolarsi fino a segregarsi per evitare ogni contaminazione, è frutto di una benevolenza e di una collaborazione con gli altri che non bisogna mai dimenticare. La nota finale secondo la quale <tutti erano puri> (6, 20) andrebbe forse intesa, o almeno desiderata e ricercata, nel modo più aperto e accogliente che si possa immaginare. Il gesto della mano del Signore che indica <questi> come <coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica> (Lc 8, 21), è lo stesso gesto evocato dalla parabola del seminatore: largo e dilatante, generoso e pieno di fiducia.

Se è vero che <andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla> (8, 19) è ancor più vero che l’unico modo di avvicinarsi veramente al Signore è quello di accettare di mescolarsi e non quello di distinguersi. Del resto, ciò che permette di riconoscere i membri di una medesima famiglia è il fatto che tutti ci si somigli in un qualche modo! Per cui non ci resta che assomigliare, visibilmente e nei fatti, al Signore Gesù assumendo il suo stile di universale familiarità. Essere discepoli del Signore Gesù non significa solo, e neppure prima di tutto, accogliere un insegnamento, ma assumere un atteggiamento da cui si possa riconoscere la scuola a cui siamo stati formati: quella di Cristo che ci rende puri da noi stessi e ci fa entrare in processo che potremmo definire di universale purificazione.

Salire

XXV settimana T.O. –

Nel più profondo della tenebra della disperazione dell’esilio che col tempo si è trasformata, nel cuore del popolo, in abitudine e rassegnazione, si leva – infine – una luce. Questa luce si incarna in un appello che non solo viene da lontano, ma proviene da dove nessuno se lo aspetterebbe né, tantomeno, lo spererebbe. Ciro, re di Persia, un re straniero e pagano si fa mediazione di un nuovo inizio per il popolo di Dio forse addormentato nel proprio dolore e la cui sofferenza – come accade anche a noi – rischia di indebolire la speranza e l’audacia: <Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e salga a Gerusalemme, che è in Giuda, e costruisca il tempio del Signore> (Esd 1, 3). Due verbi risuonano nell’appello regale ad un popolo ormai abituato ad essere rassegnato e, in molti casi, ben adattato ad una situazione di schiavitù e di sudditanza: salire e costruire!

Due verbi che invitano a riprendere coraggio e soprattutto che invitano a ritrovare un dinamismo di vita che rimette in cammino e riaccende la fantasia. Salire e costruire indicano un movimento interiore che accompagna la storia dell’umanità nei suoi momenti migliori. Questi verbi hanno lasciato il segno nella storia attraverso dei monumenti che sono testimonianza di ciò che l’uomo è capace quando riesce a sperare. Il Signore Gesù radicalizza questo invito con l’immagine della bellezza del fuoco – piccolo o grande che sia – il quale per sua natura va verso l’alto e diffonde attorno a sé un chiarore che permette alla vita di dilatarsi e di rivelarsi nella sua bellezza. Allora è chiaro che <Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce> (Lc 8, 16). Se il re Ciro invita il popolo a salire e a costruire, il Signore Gesù invita i suoi discepoli a vivere in modo luminoso e gioioso senza cedere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi o di rinchiudersi nella coltre di una paura che paralizza la vita.

Il segreto di questa luce, la sua scaturigine profonda che la rende invincibile, è la qualità dell’ascolto. Per questo il Signore Gesù esorta vivamente: <Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere> (8, 18). Il Signore Gesù fa del nostro modo di ascoltare un modo di essere e di stare al mondo che diventa, in modo del tutto naturale, un modo per donare. Ciascuno di noi ha ricevuto un dono di cui è responsabile non solo per se stesso, ma anche per ciò che esso può significare per gli altri, cosicché non possiamo soffocare la luce di cui siamo portatori e non possiamo privare noi stessi e gli altri della speranza di cui, in modo talora misterioso, siamo comunque testimoni. La conclusione della prima lettura potrebbe indicare il dinamismo che rianima i nostri cuori ogni mattina: <Allora si levarono… a tutti Dio aveva destato lo spirito, affinché salissero a costruire il tempio del Signore che è a Gerusalemme> (Esd 1, 5). Salire e costruire in ogni momento il tempio di una presenza di Dio in mezzo alla storia cominciando dalle nostre relazioni più quotidiane significa, infatti, sperare e far sperare.

Grande affare

XXV Domenica T.O.

Come interpretare questa strana parabola in cui si loda un <amministratore disonesto> (Lc 16, 8) tenendo conto della raccomandazione dell’apostolo – nella seconda lettura – che chiede di pregare <alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese> (1Tm 2, 8)? Rileggendo questa parabola sembrerebbe proprio che le <mani> di questo tale siano più propense a <sperperare> (Lc 16, 1) beni che, per giunta, non sono suoi, ma gli sono stati affidati con una fiducia che sembrerebbe eccessiva e mal riposta. Eppure, alla fine <il padrone> si compiace del suo servo proprio perché <aveva agito con scaltrezza> (16, 8). Viene naturale chiedersi che cosa in verità ci sia da ammirare in questo amministratore con cui siamo inclini a paragonarci. Ma forse un simile approccio rischia di essere errato o almeno fuorviato: il vero protagonista della parabola – così come si è nuovamente sottolineato domenica scorsa rileggendo la cosiddetta parabola del “figlio prodigo” – non è l’amministratore ma il <padrone>. Tutta la nostra ammirazione deve proprio essere rivolta a questa capacità che il padrone ha di ammirare la creatività del suo servo, persino quando approfitta della sua posizione e usa a proprio vantaggio di beni non suoi. Solo un padrone tanto <ricco> (Ef 2, 4; Gc 5, 11) può permettersi di essere così prodigo, da preferire l’ammirazione per la scaltra creatività del suo amministratore, piuttosto che la sottile invidia di coloro che l’avevano <accusato dinanzi a lui> (Lc 16, 1).

Il Signore Gesù di certo non ci invita a <sperperare>, né tantomeno ad agire in modo disonesto, ma piuttosto vuole che <possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio>. Come spiega l’apostolo <Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati> (1Tm 2, 2-4), ma tutto ciò va perseguito con tenacia, audacia e risolutezza. La domanda si fa urgente: come fare a discernere se si sta agendo come <figli di questo mondo> o come <figli della luce> (Lc 16, 8)? Una risposta e un criterio possibili ci vengono offerti dal profeta Amos nella prima lettura: a partire da quello che è il nostro atteggiamento verso <il povero> e verso <gli umili> (Am 8, 4). Se accettiamo di fare di questi ultimi i nostri <amici> (Lc 16, 9), saranno loro ad accoglierci nelle <dimore eterne> facendoci spazio, già fin d’ora, nella loro vita.  

La Parola di Dio ci invita a considerare come non ci siano circostanze che non si possano accettare e accogliere come foriere di una grazia possibile… persino quando si cade in disgrazia. Pertanto, perché ciò sia possibile, è necessario avere un cuore umile, sottomesso e – al contempo – creativo ed intrigante: anche il fallimento è una parola di Dio che ci viene rivolta e che esige da parte nostra una risposta. L’importate e ciò che piace al <padrone> è che si sia degli amministratori e non degli amministrati, dei potenziali amici e non dei tristi burocrati e patetici funzionari persino delle cose di Dio. Tutto nella vita è un’opportunità! Anche il denaro può servire e diventare persino simbolo d’amore. Lungi da un pauperismo sentimentale il Signore invita sempre nella stessa e medesima direzione: l’amore come condivisione. C’è un rapporto – che talora non osiamo tanto nominare – tra il nostro modo di usare <il poco> (16, 10) che sono le nostre possibilità in genere e non ultime quelle materiali, e il “grande affare” che è la nostra vita in Dio e con i suoi <amici>. Il Signore Gesù vuole che arrossiamo di vergogna davanti alla nostra indolenza e pusillanimità confrontate con la passione e alla scaltrezza dei <figli di questo mondo> (16, 8) che – troppo spesso – ci superano in generosità e professionalità!

Grande affaire

XXV Dimanche T.O. –

Comment interpréter cette étrange parabole où l’on loue un «  administrateur malhonnête » (Lc 16, 8) en tenant compte de la recommandation de l’apôtre – dans la seconde lecture – qui demande de prier «  en levant au ciel des mains pieuses, sans colère ni dispute » (1 Th 2, 8) ? En relisant cette parabole, l’on croirait vraiment que les mains de cet individu sont plus propices à « dilapider » (Lc 16, 1) des biens qui, de surcroît, ne sont pas les siens, mais lui ont été confiés avec une confiance qui pourrait paraître excessive et mal placée. Et pourtant, à la fin, «  le maître » loue son serviteur car «  il avait agi de façon avisée » (16, 8). Il est naturel de se demander ce qu’il y a à admirer en cet administrateur avec lequel nous sommes enclin à nous comparer. Mais, une telle approche risque, sans doute, d’être une erreur ou du moins un égarement : le vrai protagoniste de la parabole – tout comme cela a été souligné dimanche dernier dans la relecture de la parabole dite du «  fils prodigue » – n’est pas l’administrateur, mais le «  maître ». Notre admiration tout entière doit se tourner vers cette capacité  que le maître démontre en admirant la créativité de son serviteur, même lorsqu’il profite de sa position et utilise à son propre avantage des biens qui ne lui appartiennent pas. Seul un maître «  riche (Eph 2, 4 ; Jc 5, 11) peut se permettre d’être aussi prodigue pour préférer l’admiration  de l’astucieuse créativité de son administrateur, à la sournoise envie de ceux qui l’avaient «  accusé devant lui » (Lc 16, 1).

Le Seigneur Jésus ne nous invite, bien sûr, pas à «  dilapider », encore moins à agir de façon malhonnête, mais, il veut plutôt que «  nous puissions mener une vie calme et tranquille, digne et dédiée à Dieu ». Comme l’explique l’apôtre «  Ceci est une belle chose, agréable  aux yeux de Dieu, notre sauveur, qui veut que tous les hommes soient sauvés » – (1 Th 2, 2-4), mais cela doit se poursuivre avec ténacité, audace et résolution. La question est urgente : comment faire pour discerner si l’on agit comme «  des fils de ce monde » ou comme «  des fils de la lumière » (Lc 16, 8) ? Une réponse ou un critère possible nous est offert par le prophète Amos dans la première lecture : à partir de notre attachement envers «  le pauvre » et envers «  les humbles » (Am 8, 4). Si nous acceptons de faire de ces derniers nos «  amis » (Lc 16, 9), ce seront eux qui nous accueillerons dans les «  demeures éternelles » en nous laissant une place, dès maintenant, dans leur vie.

La Parole de Dieu nous invite à considérer qu’il n’y a pas de circonstances que nous ne pourrions accepter et accueillir comme précurseuses d’une grâce possible…même lorsque  l’on peut tomber en disgrâce. Toutefois, pour que cela puisse être possible, il est nécessaire d’avoir un coeur humble, soumis et – en même temps –  créatif et intriguant : car même l’échec est une parole de Dieu qui nous est adressée et qui exige une réponse de notre part. L’important, et, ce qui plaît au «  maître » est qu’il y ait des administrateurs et non des administrés, de potentiels amis et non de tristes bureaucrates et pathétiques fonctionnaires même des choses de Dieu. Tout dans la vie est une opportunité ! L’argent, aussi, peut même servir à devenir un symbole d’amour. Loin d’un paupérisme sentimental, le Seigneur invite toujours dans la même et unique direction : l’amour comme partage. Il y a un rapport  – que souvent nous n’osons nommer – entre notre façon d’utiliser «  le peu » (16, 10) qui représente nos possibilités matérielles en général, et non des moindres, et la «  grande affaire » qui est notre vie en Dieu et avec ses «  amis ». Le Seigneur Jésus veut que nous rougissions de honte face à notre indolence et pusillanimité confrontées à la passion et la ruse des «  fils de ce monde » (16, 8) qui –  trop souvent – nous dépassent en générosité et professionnalisme !

Giardiniere

XXIV settimana T.O. –

Non si può comprendere la parabola che troviamo nella liturgia di quest’oggi senza tenere nel dovuto conto ciò che l’evangelista pone come introduzione e chiave di interpretazione: <poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città…> (Lc 8, 4). Così pure non bisogna dimenticare i versetti immediatamente precedenti che abbiamo letto nella liturgia di ieri: attorno a Gesù non c’è un gruppo segregante – ci sono discepoli e discepole – e la sua presenza non è offerta in modo settario, ma in modo assolutamente inclusivo ed universale. Detto ciò, nel Vangelo non si respira aria di trasognata ingenuità o di irenico ottimismo e per questo il Signore Gesù mette in evidenza quali possono essere le conseguenze di uno stile inclusivo: come il seme quando viene generosamente seminato non incontra solo della buona terra o almeno non tutta la terra ha lo stesso grado di fecondità o di adeguatezza alle varie sementi, così pure la Parola di Dio se viene donata incondizionatamente non sempre potrà incontrare lo stesso grado di accoglienza. Tutto ciò che noi rischiamo di leggere come un problema nella ricezione del messaggio evangelico, lo stesso Vangelo ce lo fa cogliere come una normalità.

Per questo l’evangelista non si accontenta come gli altri evangelisti di parlare del <seminatore> e dei vari tipi di terreno che, bene o male, lo accolgono, ma fa menzione in modo esplicito e assai particolare del fatto che <uscì a seminare il suo seme> (Lc 8, 5). Tutti sappiamo che ogni seme porta in sé un potenziale di vita, è una promessa e apre ad un possibile incremento e alla novità. Ben prima e ben aldilà di quello che noi possiamo recepire c’è una sorta di estasiata ammirazione per il dono che viene elargito e che non è altro che <il suo seme>! Forse a ciò possiamo applicare quanto dice l’apostolo: <ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo> (1Tm 6, 14). L’apostolo Paolo lo ricorda delicatamente, ma chiaramente al suo discepolo: <ti ordino di conservare e in modo irreprensibile il comandamento fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo> (1Tm6, 14). La raccomandazione apostolica vale per ogni <seme> (Lc 8, 5) che viene affidato alla terra del nostro cuore di qualunque specie esso sia, purché sia capace di <ascoltare> (8, 8).

Non siamo semplicemente interpellati nel ritrovare e nel catalogare noi stessi in uno dei tipi di terreno di cui ci parla la parabola. In realtà se guardiamo attentamente dentro la terra del nostro cuore, della nostra mente, delle nostre emozioni, dei nostri bisogni, facilmente riconosceremo che ora possiamo riconoscerci nell’uno e ora nell’altro, magari raramente lo siamo contemporaneamente, ma non è difficile ritrovare le diverse tipologie, esaminando le nostre reazioni e le nostre chiusure. Il fatto che Maria di Magdala scambi il Risorto per un giardiniere è segno che Gesù conosceva quest’arte e la mette a frutto nei confronti del nostro cuore e delle nostre vite che forse sono ancora lontane dal tempo della semina e hanno bisogno ancora, e prima di tutto, di essere arate e concimate. Ma anche davanti a queste operazioni più faticose e sporchevoli il Signore non si tira certo indietro.

Guarite

XXIV settimana T.O. –

Dopo aver ascoltato il testo della peccatrice che entra nella casa di Simone e rivela al fariseo i limiti della sua giustizia alla luce radiosa della misericordia che è capace di guarire e dare profondità alla vita, il piccolo riassunto su quella che potremmo definire la “compagnia di Gesù” rischia di farci soffermare solo su quelle donne <che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità> (Lc 8, 2). In realtà, prima di parlare delle donne che <servivano> Gesù <con i loro beni> (8, 3) si evoca la presenza dei <Dodici> (8, 1) che, a loro volta, vivono accanto al Signore un cammino di guarigione e di illuminazione interiore. Nella prima lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua catechesi al suo discepolo e collaboratore Timoteo e mette in chiaro quali siano le malattie non solo comuni ma anche specifiche di coloro che sono chiamati ad un ministero nella e per la comunità: <accecato dall’orgoglio… maniaco di questioni oziose e discussioni inutili> da cui nascono quasi in modo terribilmente naturale: <le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti…> (1Tn 6, 4-5).

Per comprende a quale cammino il Signore abbia chiamato e continui a chiamare tutti coloro che condividono la sua vita e il suo ministero di annuncio della salvezza, le parola che Paolo rivolge in modo appassionata a Timoteo possono rappresentare una sorta di mappa di orientamento per ricominciare, ogni giorno, a camminare nelle vie di Dio: <Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza> (1Tm 6, 11). Paolo non fa mistero del rischio di cadere nell’<avidità del denaro> (6, 10). Nel Vangelo vediamo che queste donne che seguono il Signore hanno trasformato radicalmente l’avidità in generosa condivisione che le ha guarite radicalmente dal bisogno di farsi valere sugli altri, dando loro la gioia e la pace di sentirsi in cammino con gli altri – e prima di tutto con Gesù – in una parità che sa portare tutte le differenze di genere, di vocazione, di storia. 

Questi tre versetti di Vangelo non solo ci parlano di guarigione, ma ci mostrano la via della guarigione. Essa è possibile perché il Signore Gesù ci accoglie alla sua sequela senza alcuna distinzione e ancora perché la sequela ci guarisca dalla paura delle nostre diversità che alla fine si rivelano essere delle “unicità”. La presenza di un gruppo di donne accanto a Gesù e assieme agli apostoli è una memoria fondante e fondamentale per la coscienza della Chiesa perché possa rimanere dinamicamente fedele alle intuizioni del suo Signore. Potremmo dire che l’esortazione di Paolo a Timoteo che viene invitato energicamente ad essere e a comportarsi quale <uomo di Dio> (1Tm 6, 11) esige di comportarsi proprio come le donne che seguono e assistono Gesù e i suoi apostoli. Esse sono a servizio della comunità e con il loro modo di servire danno un tono al vivere insieme rendendolo capace di testimoniare fattivamente e concretamente non solo la bellezza, ma pure l’efficacia dell’annuncio.

Nessuno disprezzi

XXIV settimana T.O. –

L’invito che l’apostolo Paolo fa a Timoteo può diventare un atteggiamento di fondo nella vita di ogni discepolo: <Nessuno disprezzi> (1Tm 4, 12). Nel caso di Paolo si tratta di una preoccupazione verso il suo discepolo perché non venga disprezzata la sua <giovane età> e venga quindi riconosciuto e rispettato per quello che è e stimato per il suo <progresso> (1Tm 4, 15). Questa parola di Paolo assume un peso assoluto e incontrovertibile nello stupendo racconto del vangelo. Laddove Simone vede e disprezza la <peccatrice> (Lc 7, 39), il Signore Gesù riconosce e accoglie la <donna> (7, 44). Le parole conclusive dell’incontro sono per noi come un monito a non disprezzare nessuno e a progredire sempre di più e sempre meglio nella capacità di cogliere, apprezzare e mettere in rilievo i gesti dell’amore che diventano la porta per superare ogni peccato che porta sempre in sé una parte, più o meno grande, di disperazione.

Simone si scandalizza del fatto che il Signore si faccia toccare da una peccatrice, e non intuisce che è proprio questo il dono più grande che riceviamo attraverso il Signore: l’Altissimo si fa toccare, nel senso più pieno di questo termine, dalla nostra umanità. Qualunque forma di disprezzo non può che creare un muro di incomunicabilità tale per cui nessun incontro sarebbe possibile. Se poi parliamo di incontro con Dio, allora risulta più che chiaro che, in tal caso, nessuna salvezza sarebbe possibile. Ogni volta che tocchiamo qualcuno e ci lasciamo toccare, nel senso di intercettare e lasciarci intercettare al fine di fare un pezzo di strada insieme, in realtà manifestiamo la speranza che qualcosa, o meglio qualcuno, possa rendere la nostra vita non solo più vivibile, ma anche più bella e vera. Simone il fariseo, che pure invita il Signore nella sua casa sembra non attendersi nulla da questo passaggio se non la conferma del suo vissuto senza nessuna novità e nessun incremento.

Simone è talmente corretto che si permette di correggere Dio! Lo stato spirituale di Simone è legato alla legge la quale si organizza attorno a dei “noi” che il Signore Gesù sembra ripetere al contrario: <tu non mi hai dato l’acqua…Tu non mi hai dato un bacio…Tu non mi hai unto con olio>! Questo non per giudicarlo o per sottovalutare il suo gesto, ma per aiutarlo a riconciliarsi con il suo limite e a fare pace con il limite dell’altro senza più paura di se stesso. L’esortazione dell’apostolo a Timoteo potrebbe andare benissimo come esortazione da offrire al <fariseo che l’aveva invitato> (Lc 7, 39) e suona così: <Vigila su te stesso> (1Tm 4, 16). Simone, infatti perde il controllo delle sue emozioni e comincia a pensare tra sé cose che, in realtà, sono contrarie al gesto così solenne e signorile di invitare Gesù nella sua casa. Lo invita <a tavola> (Lc 7, 36) ma non accetta che sia proprio il Signore il centro della tavola e della casa: la salvezza, infatti, è la presenza fisica di Gesù, senza che Gesù vi aggiunga qualcosa di particolare. La casa di Simone, a motivo della presenza del Signore, diventa una casa aperta a tutti ed una tavola imbandita per tutti. Questo intuisce quella donna di cui va rimuginando in cuor suo Simone il fariseo e che, dal suo punto di vista, è semplicemente <una peccatrice> (7, 39). Invece quella donna davanti al Signore Gesù si sente semplicemente <una donna> ed è accolta dal Signore esattamente e solamente come tale e come tale nessuno la disprezzi.

In carne umana

XXIV settimana T.O. –

Le parole che l’apostolo Paolo rivolge al suo discepolo e collaboratore Timoteo possono essere considerati il vangelo del Vangelo: <Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità: egli fu manifestato in carne umana e riconosciuto nello Spirito> (1Tm 3, 16). In una lettera che fece molto scalpore indirizzata da papa Francesco al giornalista Eugenio Scalfari, il Vescovo di Roma sottolineava da una parte l’origine della propria scelta di fede in una personale esperienza religiosa molto intima e forte e, al contempo, indicava, ancora una volta, il mistero dell’incarnazione non solo come il cardine della salvezza, ma pure come la sfida continua per ogni cristiano. Questa sfida riguarda certo la propria personale esperienza di fede come scelta e sequela, ma si riflette e si invera in tutta una serie di scelte concrete che hanno sempre a cuore di riconoscere e di servire Cristo nella carne dei propri fratelli e sorelle, in particolare dei più poveri e dei più piccoli i quali continuamente mettono alla prova la nostra capacità o meno di incarnare la nostra fede in Dio in una carità concreta e fattiva.

Così scriveva il Vescovo di Roma: <La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva caro cardo salutis, “la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza”. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce>1.

A partire dalle parole dell’apostolo Paolo e da quelle di Papa Francesco, possiamo ben dire che è a questa difficile comprensione del nucleo fondamentale del Vangelo che il Signore si riferisce con il suo lamento che prende la forma della parabola: <Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!> (Lc 7, 32). Non si tratta di contrapporre <Giovanni il Battista> (7, 33) al <Figlio dell’uomo, che mangia e beve> (7, 34). Piuttosto la sfida quotidiana per ciascun credente è quella di cogliere quali sono le esigenze concrete di una continua incarnazione della salvezza nella propria vita e a favore di tutti. Per questo il Signore Gesù si augura: <Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli> (7, 35). Questo riconoscimento non è semplicemente un assenso della mente, ma è l’accoglienza del mistero dell’incarnazione che si fa ministero di salvezza e di speranza condivise nella realtà della propria carne in cui ci è dato e ci è richiesto di incontrare i nostri fratelli e sorelle in umanità nella realtà della loro vita soprattutto quando si manifesta nella sofferenza e nella vulnerabilità.


1. PAPA FRANCESCO, Lettera a Eugenio Scalfari, 4 Settembre 2013 pubblicata su La Repubblica l’11 Settembre 2013.

Figlio mio!

XXIV settimana T.O. –

L’inizio della prima lettura nella redazione liturgica ci immette direttamente nell’atmosfera propria della Liturgia della Parola di oggi. Quando leggiamo qualche brano delle lettere di san Paolo durante la Liturgia siamo abituati a sentire come inizio: <Fratelli…>! Oggi invece l’inizio della prima lettura suona così: <Figlio mio…>! Si potrebbe dire che la discepolanza crea un atteggiamento sempre più umanizzato che, gradualmente, nella vita fa recuperare, nel grado più alto, tutti gli aspetti dell’esistenza e i registri più profondi e autentici dei sentimenti migliori del nostro cuore di uomini e donne segnati dall’energia rinnovatrice del Vangelo. L’apostolo Paolo, parlando con accenti di tenerezza e con fare profondamente paterno, dà una serie di consigli al suo discepolo Timoteo chiamato a prendersi, a sua volta, cura della comunità cristiana non omettendo di metterlo in guardia da ogni deriva che allontani dallo spirito evangelico che prima di segnare il ministero deve essere capace di trasformare la vita personale: <perché, se uno non sa guidare bene la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?> (1Tm 3, 5).

Nel testo evangelico, l’evangelista Luca, sembra parlarci di quella che il Signore Gesù sembra considerare la <propria famiglia>. Infatti, ci troviamo di fronte ad uno dei versetti più commoventi che ci fanno sentire il palpito del Signore Gesù davanti al mistero della morte e, ancora di più, dello strazio che il dolore della perdita di un figlio può rappresentare per il cuore di una madre: <Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei> (Lc 7, 13). Dopo aver cercato di consolare il cuore di questa donna cui sembra non restare niente altro al mondo che l’esperienza del dolore lancinante dovuto ad una serie di perdite poiché era già <rimasta vedova> (7, 12), lo sguardo e il cuore di Cristo si volgono al figlio cui si rivolge con il modo proprio del padre: <Ragazzo, dico a te, àlzati> (Lc 7, 14).

Potremmo leggere questa parola del Signore non solo come il segno della potenza del taumaturgo capaci di richiamare perfino dalla morte, ma, in modo più ampio, come la capacità del Signore di rimettere in piedi la volontà di vivere. Come un vero padre, il Signore Gesù, sembra prendere il posto dell’uomo mancante in questa famiglia. Se alla vedova dice con immenso e delicatissimo amore: <Non piangere!> (7, 13). All’orfano sembra rivolgersi con il tono performante che è proprio di ogni padre: <alzati>! Il seguito del racconto è come se ci mettesse di fronte al ritorno della comunicazione in una famiglia che sembra ormai ammutolita da troppo dolore: <Il morto si mise seduto e cominciò a parlare> (7, 15). Nessun segno di soggezione né di dovuta gratitudine servile, ma il ritorno alla bellezza e all’ordinarietà delle comunicazioni proprie della vita di una famiglia normale, di cui il Signore Gesù sembra essere il punto di riferimento. La folla reagisce con un’acclamazione che si fa esclamazione: <Un grande profeta è sorto tra noi> (7, 16). La presenza del Signore Gesù è capace di restituirci gli uni agli altri permettendo a ciascuno di dare il meglio di sé nella <cura> (1Tm 3, 5). Il <nobile lavoro> (3, 1) che ciascuno di noi è chiamato a desiderare è quello du essere capace di dare più vita e più gioia. Il primo passo e il primo segno è di avere un cuore veramente capace di <grande compassione> che ci renda rispettabili persino agli occhi dei pagani dei nostri giorni.