Riconoscere

XVIII settimana T.O. –

Ancora una volta vediamo e contempliamo il Signore Gesù che si lascia toccare dal bisogno di tutti coloro che incrociano la sua strada e chiedono il suo aiuto. Il vangelo di quest’oggi ci offre due quadretti assai belli: uno più intimo in cui vediamo Simon Pietro vacillante sulle acque che si lascia afferrare dalla <mano> (Mt 14, 31) del Signore, l’altro più popolare e che conclude la pericope odierna: <la gente del luogo, riconosciuto Gesù, diffuse la notizia in tutta la regione; gli portarono tutti i malati, e lo pregavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello> (14, 35-36). Il Signore Gesù dà fiducia e aiuta tutti a prendere coscienza dei propri bisogni e ad assumere le proprie impotenze come luogo da offrire alla relazione con lui. Alla richiesta un po’ avventata di Pietro, il Signore risponde con estrema generosità: <Vieni!> (14, 29). Al bisogno della folla che lo attornia, il Signore risponde con un sereno e pronto esaudimento: <E quanti lo toccarono, furono guariti> (14, 36). Attorno al Signore si respira un’atmosfera di fiducia e di attenzione all’altro che viene accolto con tutta la zavorra delle sue paure (14, 30) e delle sue necessità.

Ciò che scatena la gelosia di Aronne e Maria verso l’amatissimo fratello (cfr. Es 2, 1-10 e 4, 10-17) sembra il frutto di una scelta di Mosè non condivisa: <aveva sposato una donna etiope> (Nm 12, 1). Non essendo rimasto quindi nel chiuso del clan, con tutti gli annessi e connessi, colei che lo ha accompagnato verso la salvezza – Maria – (Es 2, 4) e colui che è stato per lui <come bocca> – Aronne – (Es 4, 16) sentono talmente in pericolo il loro ruolo e la loro situazione di preferenza da reclamare un posto analogo non potendo contare più sulla partecipazione piena <Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè?> (Nm 12, 2). In questo modo, Aronne e Maria si mostrano insensibili alla vita di Mosè e al suo personale cammino per questo la sorella si ritrova ad essere <lebbrosa> (12, 10). La malattia rivela esteriormente il male del suo cuore incapace di accogliere l’altro in tutto il suo mistero anche quando mi sfugge o mi turba. Malati cercano di fare i medici, ciechi cercano di fare da guide e <tutti e due cadranno in un fosso> (Mt 15, 14), quel fosso che fa guardare all’altro come posto da un’altra parte e quindi potenzialmente contrario a me e di conseguenza nemico. Questo atteggiamento di invidia fa sì che <la nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa> (Nm 12, 10).

La lebbra non fa altro che esternare lo stato del cuore di Maria tanto che il suo essere, pensato per vivere in relazione, comincia a putrefarsi. San Gregorio Magno dice che <l’invidia è capace come la ruggine di consumare anche il ferro> e la sua origine è sempre da cercare nello sconcerto davanti al fatto che, oltre a noi stessi e a quelli che ci assicurano di essere noi stessi, vi sono pure gli altri con cui ci si può persino “<sposare>” (12, 1). Davanti a tutto ciò non c’è molto da fare né da dire, ma solo da gridare: <Dio, ti prego, guariscila!> (12, 13). Ma prima di pregare per la guarigione degli altri dobbiamo cercare di non affondare noi stessi e, come Pietro, gridare: <Signore, salvami> (Mt 14, 30). Si tratta di riconoscere – come la folla (Mt 14, 35) in Gesù la nostra salvezza.

Piangere

XVIII settimana T.O. –

Le lacrime sembrano caratterizzare il messaggio della Parola di Dio che riceviamo in dono quest’oggi. Prima di tutto veniamo a sapere, nella prima lettura, attraverso l’interpretazione e narrazione che il libro dei Numeri dà dell’esperienza dell’esodo che <gli Israeliti ripresero a piangere> (Nm 11, 4). Come un bambino piccolo, il popolo neonato all’esperienza della libertà la quale comporta sempre un crescente grado di responsabilità, si lamenta del fatto che la vita del deserto è più dura di quanto si potesse pensare quando la si immaginava nella fornace di schiavitù dell’Egitto. Quasi per incanto il ricordo della schiavitù diventa nostalgia: <Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio> (Nm 11, 5). Il servo di Dio Mosè, come una madre e una nutrice, che non sa più cosa fare per calmare le grida e i capricci di un bimbo: <udì il popolo che piangeva>. Non solo il “povero” Mosè si trova pure di fronte alla terribile <ira del Signore> (11, 10) e a sua volta reagisce con una lamentela: <Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi al punto di impormi il peso di tutto questo popolo. L’ho forse concepito io tutto questo popolo?> (11, 11).

Davanti alle lamentele e alle lacrime di disperazione e di recriminazione del popolo, Mosè sente il <peso> (11, 14) di un cammino di crescita da guidare e accompagnare che si fa troppo esigente. È difficile far capire al popolo che la <manna> (11, 7) è il cibo necessario alla crescita come lo è il latte materno per il neonato. È come se il neonato pretendesse di mangiare cibi solidi come gli adulti! Così la manna rappresenta quel cibo essenziale il cui sapore è ripetitivo fino a stufare, ma che pure addestra all’essenziale per imparare ad essere liberi davvero. Infatti, l’arte dei potenti che schiavizzano con la complicità dei loro sudditi è sempre quella di dare l’impressione di offrire di più e di meglio.

Ci sono altre lacrime di cui ci parla la Liturgia di oggi… sono le lacrime segrete e innominate del Signore Gesù il quale <avendo udito della morte di Giovanni Battista… si ritirò in un luogo deserto, in disparte> (Mt 14, 13). Il Signore Gesù si apparta certo per piangere Giovanni, ma anche per capire che cosa la morte violenta del Battista rappresenta come messaggio e appello per la sua vita personale. Ciò che è avvenuto nella reggia di Erode dove la testa del Profeta è stata servita su un vassoio, viene trasfigurato dal gesto del Signore Gesù che dice ai suoi discepoli: <Non occorre che vadano: voi stessi date loro da mangiare> (14, 16). Se nel deserto il popolo piange per la ripetitività della manna come cibo, il Signore Gesù imbandisce nel <deserto> (14, 15) la tavola della <compassione> (14, 14) di cui gli apostoli sono chiamati a farsi servitori. Per uscire dal capriccio e dalle lacrime, sembra dirci la Parola di Dio di quest’oggi, è necessario smettere di piangersi addosso e cominciare ad immaginare insieme la speranza in modo concreto e fattivo:<Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene> (14, 20).

Follia

XVIII Domenica T.O.

Perché mai dividere la propria eredità se non per timore di condividerla? Lungi da esagerazioni eroiche, il Signore Gesù non si scaglia contro la ricchezza come segno di un modo di abitare con responsabilità e passione la terra che ci è stata affidata per essere custodita, coltivata ed incrementata, ma contro la follia di quella privatizzazione morbosa di cui è diventata icona il personaggio tolkieniano di Gollum. La ricchezza di per sé non è un crimine: ad essere un crimine è l’incoscienza e questa può essere sia dei ricchi che dei poveri e forse – ancor più subdolamente- di quanti, in realtà o solo per mancanza di giudizio, non sono né troppo ricchi né troppo poveri. Nella sua parabola il Signore Gesù non dice che quest’uomo che tesaurizza i suoi beni sia un uomo cattivo, lo definisce semplicemente <Stolto> (Lc 12, 20). Tesaurizzare non è male, male può diventare l’incoscienza del perché, o ancora più precisamente “per chi”, si continua a mettere da parte la vita, con il rischio di non riuscire a viverla nel senso più pieno.

Il soliloquio del personaggio della parabola suona così: <demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni> (Lc 12, 18). Il soliloquio di Qoelet sembra voler glossare il proposito del ricco proprietario con un tonante: <Anche questo è vanità> (Qo 2, 23). Da parte sua l’apostolo ci mette in guardia dal rischio di appiattirci qui sulla terra, mentre siamo chiamati a condividere il dono e la responsabilità di abitarla in modo consapevole e solidale: <cercate le cose di lassù> (Col 3, 2). Il Signore Gesù non ridicolizza la giusta richiesta di questo tale, che è quella di poter fare ogni cosa con giustizia, ma cerca di mettere in evidenza come, ogni giustizia, sia parziale. Invece di farsi arbitro come Mosè che in Egitto uccise l’egiziano per difendere l’ebreo, il Signore ci offre un criterio che ci permette di andare oltre la giustizia che pure rimane necessaria: <Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce presso Dio> (Lc 12, 21). Sembra proprio che la cosa più importante sia quella di dilatare il proprio riferimento relazionale divenendo capaci di uno sguardo all’altezza di quello dell’Altissimo che, per molti aspetti, si esprime nell’adagio del Qoelet: <Vanità delle vanità, tutto è vanità> (Qo 1, 2).

Un modo per sottrarci alla logica soffocatrice dell’autoreferenzialità è quello di affidarci ai poveri che sono portieri e portatori del Regno che viene proprio perché essi ci rammentano la precarietà insita alla vita. L’evidenza scontata con cui il Qoelet afferma che ognuno di noi dovrà comunque <lasciare la sua parte ad un altro> (Qo 2, 21), rende ancora più ammirabile il modo con cui il Signore si sottrae alla richiesta di fare da arbitro nella divisione di eredità tra questi due fratelli. In questo mondo non si vuole abdicare al dovere del ristabilimento della giustizia, ma il Signore si preoccupa di aprire i nostri occhi sull’essenziale della vita. Questo perché troppo facilmente rischiamo di perdere di vista l’orizzonte entro cui la vita è chiamata a giocarsi: mentre si costruiscono magazzini sempre <più grandi>, la vita, che trova il suo senso più vero nella relazione e nella condivisione, rischia di rimpicciolirsi a vista d’occhio!

Folie

XVIII Dimanche T.O. –

Pourquoi devrait-on diviser son héritage si ce n’est par peur de le partager ? Loin des exagérations héroïques, le Seigneur Jésus ne s’oppose pas à la richesse en tant que signe d’une manière d’habiter avec responsabilité et passion la terre qui nous a été confiée pour être protégée, cultivée et développée, mais contre la folie de cette privatisation morbide dont le personnage tolkien de Gollum est l’icône. La richesse en soi n’est pas un crime, mais l’inconscience, que l’on soit riches ou pauvres est un crime, – mais, plus subtilement encore – l’inconscience de ceux qui, en réalité ou simplement par manque de jugement, ne sont ni trop riches, ni trop pauvres. Dans sa parabole, le Seigneur Jésus ne dit pas que cet homme qui thésaurisait ses biens  est un homme mauvais, il le définit simplement comme « stupide » ( Lc 12, 20 ). Thésauriser n’est pas un mal, mais l’inconscience du pourquoi peut devenir un mal, ou plus précisément du «  pour qui » continue-t-on à mettre la vie à part, avec le risque de ne pas réussir à la vivre pleinement.

Le soliloque du personnage de la parabole résonne ainsi : «  je démolirai mes entrepôts et j’en construirai d’autres plus grands et j’y engrangerai tout le grain et tous mes biens. ( Lc 12, 18 ). Le soliloque du Qohélet semble faire voler en éclats la proposition du riche propriétaire par un tonitruant : «  cela aussi est vanité ! » ( Qo2, 23 ). De son côté, l’apôtre nous met en garde contre le risque de nous aplatir sur la terre, alors que nous sommes appelés à partager le don et la responsabilité de l’habiter de façon consciente et solidaire : «  chercher les choses d’en-haut » ( Col 3, 2 ). Le Seigneur Jésus ne ridiculise pas la bonne richesse de celui qui peut faire toute chose avec justice, mais il cherche de mettre en évidence comment chaque justice est partiale. Au lieu d’être arbitre comme Moïse qui, en Egypte, tua l’égyptien pour défendre l’hébreu, le Seigneur nous offre un critère qui nous permet d’aller au-delà de la justice qui pourtant reste nécessaire : «  Il en est ainsi de celui qui accumule des trésors pour soi et ne s’enrichit pas auprès de Dieu » ( Lc 12, 21 ). Il semblerait vraiment que la chose la plus importante soit celle de dilater sa propre référence relationnelle en devenant capables d’un regard à la hauteur de celui du Très-Haut qui, par différents aspects, s’exprime selon l’adage du Qohélet : «  Vanité des vanités, tout est vanité » ( Qo 1, 2 ).

Une manière de se soustraire à la logique suffocante de l’auto – référence est de se fier aux pauvres qui sont les gardiens et les portiers du Règne qui vient et cela parce qu’ils se rappellent la précarité liée à la vie. L’évidence acquise avec laquelle le Qohélet affirme que chacun de nous devra donc «  laisser sa part à un autre » ( Qo 2, 21 ), rend encore plus admirable la façon dont le Seigneur se soustrait à la demande d’arbitrer le partage de l’héritage de ces deux frères. Ainsi, il ne veut pas abdiquer au devoir de rétablissement de la justice, mais le Seigneur se préoccupe d’ouvrir nos yeux sur l’essentiel de la vie. Et ceci parce que nous risquons trop facilement de perdre de vue l’horizon vers lequel la vie est appelée à se jouer : pendant que nous nous construisons des entrepôts toujours «  plus grands », la vie, qui trouve son véritable sens dans la relation et le partage, risque de nous rétrécir à vue d’oeil !

Liberazione

XVII settimana T.O. –

Il lungo e dettagliato libro del Levitico viene, per così dire, liquidato nella lettura ciclica della Liturgia in due giorni. Eppure, la parola di questo libro – il primo ad essere imparato a memoria dai piccoli ebrei come una volta i nostri piccoli imparavano a memoria il Catechismo di Pio X – fa suonare il <corno> (Lv 25, 9) di una parola che ci viene consegnata come il senso profondo di tutto il cammino del popolo di Israele dall’Egitto alla Terra Promessa che si invera in ogni autentico cammino di fede fatto personalmente o in comunità. La parola è <liberazione>! Una liberazione che potremmo definire totale, contagiosa, assolutamente inclusiva visto che riguarda tutti nel senso più ampio del termine: <Nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti> (25, 10). Una serie di norme, spesso disattese o piamente truccate, assicurano la possibilità di “rimettere” ogni debito e di ritornare non solo in possesso di ciò che si è stato costretti a vendere o ad alienare. Ben più profondamente la regola del Giubileo rappresenta la possibilità della riconquista di una libertà che permette di ricominciare a sperare radicalmente. Il senso di tutto ciò è racchiuso nella conclusione della prima lettura: <Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore vostro Dio> (25, 17).

A commento di questa rassicurazione di una <liberazione> sempre possibile, la Liturgia ci fa leggere il racconto del martirio del Battista. Questo testimone di Dio e profeta dei tempi nuovi, cade sotto la spada di Erode e del suo entourage profondamente scosso dalla libertà di Giovanni nel denunciare e quindi nello scardinare la logica dell’abuso che tende ad opprimere e ad umiliare gli altri: <Non ti è lecito tenerla con te!> (Mt 14, 4). La morte del Battista sembra il commento esistenziale più autorevole e chiaro alle parabole raccontate dal Signore Gesù. La sua vita, fedele fino alla fine alla verità di una libertà che non è appannaggio solo di alcuni privilegiati, ma dono per tutti, cade come un seme deposto prima che nella terra dalla pietà dei suoi discepoli, su un <vassoio> (14, 11) verosimilmente prezioso dato l’ambiente cortigiano. La libertà ha il suo prezzo e, di conseguenza, l’abuso dei potenti ha le sue prerogative che si ripetono in forme diverse, ma restano le stesse nella sostanza.

Eppure, per quanto sembri che una spada possa recidere ogni resistenza, questo non significa spegnere il campanellino della coscienza come avviene per il tormentato Erode: <Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi!> (14, 2). Ben più difficile è liberare il cuore che liberarsi di qualcuno capace di sbarrare la strada alle nostre malefatte! Ci sono due modi opposti di vivere la festa: il giubileo che è una festa per tutti e di tutti e il compleanno di Erode che coincide, drammaticamente, con l’esecuzione del Battista.

Casa

XVII settimana T.O. –

Per quanto ci possano non solo interrogare, ma pure profondamente addolorare le parole del Signore Gesù contengono una punta di straordinaria bellezza: <Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua> (Mt 13, 57). Il fatto che il Verbo di Dio abbia fatto della nostra la sua <patria> e si senta a <casa sua> proprio nella nostra casa è motivo di gratitudine, anche se questo non toglie tutto il dolore di dover prendere coscienza di quanto possa essere grave il nostro rifiuto e la nostra chiusura alla sua opera in mezzo a noi e, soprattutto, dentro di noi. Una domanda si fa spontanea:<Come superare lo “scandalo” che il Signore può rappresentare per noi come invito ad un autentico cammino di conversione?>. La risposta possiamo trovarla nella prima lettura tratta dal Levitico. Le indicazioni rituali per la celebrazione delle feste più importanti dell’anno liturgico ebraico (Pasqua, Pentecoste, Kippur e Capanne) sono ben più che delle rubriche rituali: <Queste sono le solennità del Signore, le riunioni sacre che convocherete nei tempi stabiliti> (Lc 23, 4).

Celebrare con attenzione, cura e amore le feste liturgiche è sempre un modo per uscire da noi stessi e lasciarci condurre fuori di noi per contestualizzare il nostro stesso cammino personale in un ambito più ampio e per questo anche più vero. Ogni volta che celebriamo una festa o una semplice liturgia domestica o intima come può essere la recita delle preghiere che segnano il volgere dei giorni nella nostra vita, facciamo esperienza di far parte di un modo più grande di quelli che possono essere i nostri sentimenti, emozioni, desideri e frustrazioni. La liturgia ha un valore terapeutico per tutto ciò che in noi rischia di farci ripiegare su noi stessi chiudendo alla vita possibilità di espansione e di crescita. La gente di Nazaret se da una parte <rimaneva stupita> (Mt 13, 54), dall’altra sembra fare una grande fatica ad entrare in una relazione con Gesù che vada oltre ciò che di lui sanno o presumono di sapere.

Quando ogni anno si porta, invece, il primo <covone> (Lv 13, 10) e lo si consegna al sacerdote perché lo elevi <davanti al Signore> (23, 11) è un modo semplice, ma stupendamente efficace, di trasformare una realtà banale e ripetitiva della vita legata al dramma della sopravvivenza in qualcosa di molto più significativo che pone la vita ad un livello di esperienza e di comprensione più alto e profondo. Sta a noi di rendere più o meno possibile al Signore di compiere nella nostra vita <molti prodigi> (Mt 13, 58). Questo dipende molto dalla scelta consapevole e coraggiosa di andare oltre la nostra <incredulità> che, non raramente, rischia di essere molto meno una scelta consapevole e per questo sofferta e molto più l’espressione di una pigrizia dell’anima accomodata su se stessa e già in procinto, per questo, di avvizzire e morire. Perché il Signore si senta a <casa sua> e nella sua <patria> è necessario che noi non ci rinchiudiamo in casa sbarrando ogni porta e finestra da cui può entrare nella nostra vita aria fresca e luce corroborante.

Tesoro

XVII settimana T.O. –

La conclusione delle parabole richiama un’immagina già usata dal Signore Gesù e che gli sembra cara: il <tesoro>! Se il <tesoro nascosto> (Mt 13, 44) è una perla delle parabole evangeliche, siamo invitati a scandagliare come bambini che “giocano ai pirati” il contenuto di questo tesoro dimostrandoci così aperti a crescere nella sapienza: <Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche> (13, 52). Nella consequenzialità delle parabole potremmo dire che il primo passo è quello di investire tutto per poter diventare legittimamente proprietari del tesoro. Solo dopo questa necessaria e ineludibile operazione si può cominciare a frugare per comprendere cosa il tesoro contenga e come farlo fruttare al massimo e al meglio senza dover fare nessuno sotterfugio e potendo operare in piena luce.

La prima lettura ci mostra Mosè alle prese con la costruzione della <Dimora> e quasi intento a ricreare il proprio modo di relazione a Dio a partire dalla nuova situazione che si è creata nel deserto. Tutto ciò se dà all’Altissimo un posto chiaro e centrale nella vita del popolo, altresì richiede un rispetto della trascendenza sempre più attento per salvaguardare le condizioni necessarie per una relazione autentica: <Mosè non poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora> (Es 40, 35). Questa presenza dell’Altissimo che ricolma la Dimora preparata per la sua presenza diventa il <tesoro> cui attingere ogni giorno e ogni <notte> (40, 38) per continuare, felicemente e saggiamente, il viaggio della vita facendo sì che ogni esodo conosca la sua meta.

Non è un caso che l’evangelista annoti con una certa solennità e rapidità: <Terminate queste parabole, Gesù partì di là> (Mt 13, 53). Ogni parola che riceviamo e ogni contatto che godiamo nella preghiera è un invito a riprendere a camminare con decisione e generosità… senza inutili lentezze. La parabola della rete se ci dice con chiarezza che i pescatori ripongono <i pesci buoni nei canestri> (13, 48) non ci dice invece dove <buttano> i <cattivi>. Verosimilmente li rimettono in mare… nella speranza che diventino migliori o comunque senza ucciderli. L’operazione degli angeli sarà quella di separare <i cattivi dai buoni> ma, forse, nel desiderio e nella speranza che i cattivi possano diventare buoni. In ogni modo siamo chiamati ad imparare l’arte serena dei pescatori che è molto diversa da quella dei cacciatori e dei macellai. Tutto questo esige di imparare molto da Mosè e dalla sua calma meticolosa nel fare ogni cosa così come gli è stato mostrato sul monte senza peraltro lasciarsi prendere né dall’ansia né tantomeno da un pericoloso protagonismo. Inoltre, abbiamo molto da imparare da quello <scriba> senza nome che scopriamo essere <divenuto discepolo del regno dei cieli> e da quel <padrone di casa> capace di fare ordine e distinguere tra le <cose nuove> e le <cose antiche> proprio come gli <angeli> evocati dalla parabola. Insomma, abbiamo molto da imparare.

Raggiante

XVII settimana T.O. –

La nota di commento con cui l’Esodo accompagna la discesa dal monte di Mosè può essere un’ulteriore pennellata per comprendere la parabola che il Signore Gesù ci racconta brevemente eppure in modo così suggestivo: <le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante…> (Es 34, 29). Così possiamo immaginare meglio il volto di quell’uomo che mentre lavora nel campo trova <un tesoro nascosto> (Mt 13, 44), come pure il volto di quel mercante che si trova dinanzi ad una <perla di grande valore> (13, 46). Forse in modo istintuale ci viene da pensare a chissà quale grande tesoro e a quale costosa perla, mentre forse la grandezza di queste scoperte è più legata al valore che hanno per quanti le trovano che non per il loro valore di scambio. In ogni modo non può che essere raggiante il volto di chi sente il cuore – in modo imprevisto – così <pieno di gioia> (13, 44).

Pensare a Mosè che scende dal monte Sinai dopo quaranta giorni e quaranta notti di intimità con il Signore nel digiuno, nella preghiera, nella commovente intesa con il suo Signore da cui fluiscono come dono per tutti <le due tavole della testimonianza> che regolano e orientano la vita come un’avventura di relazione a due dimensioni: il rapporto con Dio e quello con i propri simili. Per tre volte nella prima lettura ritorna l’aggettivo <raggiante> (Es 34, 29. 30.35). Il motivo è chiaro: <poiché aveva conversato con il Signore>. Attraverso questo riferimento che troviamo nell’Esodo possiamo capire meglio a che cosa alluda il Signore Gesù nelle due brevi parabole. Il tesoro e la perla sono due modi diversi per indicare la stessa cosa: la relazione con Dio su cui si fonda la nostra relazione con i fratelli. Il tesoro e la perla esigono la capacità e la volontà di concentrare interamente tutte le proprie forze, le proprie risorse, i propri desideri e non certo con il volto triste e afflitto, bensì con un entusiasmo grande e una gioia raggiante.

Possiamo oggi commisurare la nostra vita e le nostre attitudini con quelle di Mosè che scende dal monte e con quelle di questi due uomini di cui ci parla il Signore Gesù e chiederci se abbiamo trovato realmente il tesoro e la perla. Essi sono il segreto della nostra gioia: stringere tra le mani i segni di una relazione vissuta nella gioia indicibile e inenarrabile di un’intimità raggiante che si fa testimonianza e condivisione, non di una Legge ricevuta come imposizione di un Dio terribile e distante, ma come traccia di un amore provato che si fa indicazione di strada. Questo non solo per se stessi, ma quale dono da fare agli altri come quando, tornando da una faticosa e appassionante ascensione, si porta in regalo a valle il sorriso di qualcosa di bello e il racconto dai fiochi contorni di un’esperienza che fa palpitare. Eppure, non si può dimenticare che per essere raggianti bisogna accettare di esporsi nel duplice senso di una pellicola fotografica o di un viso che non si sottrae al sole. C’è sempre un rischio da correre perché un vero contatto con il divino non può lasciare la vita uguale. Per questo Mosè fa a valle ciò che più ragionevolmente avrebbe dovuto fare sul monte: <si pose un velo sul viso> (Es 34, 33). 

Legami

Santa Marta, Maria e Lazzaro –

Il Vangelo si apre con una nota: <molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello> (Gv 11, 19). Il contesto è la morte di Lazzaro e, davanti alla tomba dell’amico del Signore, si consuma il dramma del lutto che conferisce profondità al legame che unisce Gesù ai suoi amici. La presenza dei <molti Giudei> sembra non riuscire a consolare il cuore di Marta e di Maria quanto invece riesce a fare la presenza del Signore. Infatti, il testo continua dicendo: <Marta, dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa> (11, 20). Bisognerebbe aggiungere che, intanto, Lazzaro giaceva nella tomba silente e completamente abbandonato. La memoria di santa Marta diventa così l’occasione per fare il punto sui legami che danno consolazione e sono in grado persino di andare oltre la morte. La prima lettura sembra svelarci, già nel primo versetto, quello che potremmo definire il segreto stesso della vita: <amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio> (1Gv 4, 7).

Come definire la vita che si svolge a Betania? Una famiglia? Una sorta di piccola comunità? Un caso o una scelta? Un modello o un incidente? Ci si potrebbe porre molte domande su Marta, Maria e Lazzaro i quali vivono un legame di fraternità che sembra essere superato dal legame di amicizia che ciascuno, in modo unico e diverso, vive con il Signore Gesù. La realtà umana di Betania può diventare un modello liberante per comprendere che ciò che fa la differenza nella vita non è la modalità dei legami che ci fanno vivere, ma la loro essenza: <E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi> (4, 16). Credere all’<amore che Dio ha in noi> diventa così la fonte e il modello del modo di amarci reciprocamente in una discrezione e un rispetto che devono essere assoluti. Sembra che l’unica cosa che il Signore richieda è la capacità di non ridurre l’altro a se stessi, ma di creare continuamente e sempre più ampiamente le condizioni perché l’altro sia se stesso fino in fondo: <Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno> (Lc 10, 41).

Sembra ci sia una cosa inaccettabile per il Signore ed è il rimprovero amaro per la differenza dell’altro che, in realtà, diventa sottile rimprovero verso il Creatore delle differenze che tutto ha amabilmente creato nella differenza. Marta diventa così il simbolo di questa tentazione ricorrente di livellamento delle relazioni, delle emozioni, delle reazioni la quale, in realtà, è una resistenza alla logica della creazione per separazione e per differenza. Marta si sente autorizzata a rimproverare. Lo fa in casa: <Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti> (10, 40). Così pure e ancora più duramente: <Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!> (Gv 11, 21). È necessario passare dall’essere amici del Signore per quello che il Signore può fare per noi ad essere suoi amici per ciò che Egli è per noi. Persino bisogna passare dall’essere amici del Signore per quello che noi pensiamo di fare per lui, ad esserlo semplicemente per quello che noi siamo per lui. L’apostolo ce lo ricorda in modo lapidario: <Dio è amore>!

Scambiare

XVII Settimana T.O. –

La memoria del popolo così viene rammentata drammaticamente dal salmo: <Si fabbricarono un vitello sull’Oreb, si prostrarono ad una statua di metallo; scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia fieno> (Sal 105, 19-20). Ciò che vive il popolo il quale fatica a conquistare personalmente il dono della libertà che gli è stato gratuitamente regalato, lo viviamo anche noi sempre inclini a scambiare la logica del <seme> e quella del <lievito> (Mt 13, 33) con qualcosa di molto più possente e rassicurante come può essere un <vitello> (Es 32, 19) che rappresenti <un dio che cammini alla nostra testa. Perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto> (32, 23). Ciò che il popolo non sopporta è di non vedere e quindi di non poter controllare il mistero dell’accompagnamento di Dio nel suo cammino. A questo si contrappone la parola del Signore Gesù che – quale nuovo Mosè – paragona <il regno dei cieli> ad <un granello di senape> (Mt 13, 31) le cui caratteristiche sono proprio il contrario dei quelle di un <vitello>. Infatti, <è il più piccolo di tutti i semi> (13, 32). Si tratta di accettare di vivere nella logica del mistero e non in quella della dell’evidenza. In realtà, il mistero regala e rafforza il dramma della libertà mentre l’evidenza – dando spazio all’idolatria – non può che renderci sempre più schiavi.

Come spiega Divo Barsotti: <E’ certo che il mistero è una verità nascosta, un segreto nascosto in Dio e rivelato ai santi, ma è principalmente il compimento, la realizzazione segreta di un piano di Dio. Il mistero prima di essere una verità astratta, è quindi una realtà concreta>[1]. Proprio per questo non può imporsi da se stesso, ma ha bisogno di essere accolto come dono e riconosciuto come compito affidato alle nostre mani e alla nostra intelligenza. Quando non abbiamo la pazienza di attendere il tempo necessario al lievito perché tutta la pasta <si fermenti> (Mt 13, 33) ecco che qualcosa si spezza nella nostra vita: <Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò via le tavole e le spezzò ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece trangugiare agli Israeliti> (Es 32, 19-20). La stessa cura con cui viene descritta l’<opera di Dio> (32, 16) viene accuratamente descritta la conseguenza della nostra opera che si oppone, per mancanza di pazienza e di sapienza, all’opera di Dio nella nostra vita. Eppure, non tutto è perduto, perché Mosè accetta di salire di nuovo verso il Signore per chiedere <il perdono> (Es 32, 30). A noi di accogliere e di lasciar radicare nella nostra vita il seme del regno dei cieli senza opporre resistenza alla sua lenta ma inesorabile e splendida crescita dentro di noi. Forse all’inizio è veramente <il più piccolo di tutti i semi> (Mt 13, 32) ma ciò non toglie che proprio la piccolezza possa racchiudere una forza che non viene da noi ma è <opera di Dio> (Es 32, 16). Forse è proprio questo il cammino di conversione che ci viene richiesto: la conversione alla piccolezza di Dio che si scontra con l’<idea preconcetta> di una grandezza che è solo la proiezione di un nostro bisogno e della nostra paura di essere piccoli.


1. D. BARSOTTI, Vie mystique et mistère lituirgique, Cerf, Paris 1954, p. 8.