Luogo

XVII Domenica T.O.

Lasciamoci toccare profondamente dall’immagine che apre il vangelo di oggi e, come quel discepolo senza nome che porta il nome di noi tutti, sostiamo in contemplazione: <Gesù si trovava in un luogo a pregare…> (Lc 11, 1). Ancora oggi il Signore Gesù si trova in ogni luogo della nostra vita e lo abita con la sua preghiera. Essa è il segno della sua attenzione verso ciascuna delle nostre esistenze. Quando pensiamo alla preghiera facilmente immaginiamo subito una interminabile lista di richieste, il vangelo invece ci insegna che la preghiera è prima di tutto uno sguardo: uno sguardo su Gesù che ci aiuta ad assumere uno sguardo sul Padre che ci fa, a nostra volta, capaci di uno sguardo non più sui nostri bisogni e le nostre necessità, ma su quelli di coloro che – la condivisa figliolanza – ci affida come fratelli. La risposta di Gesù è semplice e immediata: <Quando pregate dite <Padre…> (11, 2). L’antica regola per i cristiani prevede e prescrive che si reciti la preghiera del Signore tre volte al giorno. Per gli antichi sembra quasi che basti questa triplice ripetizione quotidiana come preghiera del buon cristiano. La nostra preghiera cristiana non si differenzia dalle altre per le parole che contiene, ma per la conversione profonda e continua che presuppone e continuamente accompagna.

Ci viene incontro la figura di Abramo il quale, venuto a sapere che il Signore sta andando a distruggere le città di Sodoma e Gomorra, intercede audacemente per la loro salvezza. Abramo ha appena accolto la visita di tre misteriosi viandanti all’ingresso della sua tenda ove vive nella semplicità e nell’apertura ad ogni passaggio e ad ogni visita possibile. La vita sotto le tende è una vita dura e – al contempo – libera. Infatti, non mette in conto di poter difendere molto, ciò che può fare è solo di esporsi, massimamente, all’incontro. Sodoma e Gomorra sono città fatte di pietra e ormai cinte di mura, diremmo oggi che sono città blindate dove lo straniero e il diverso non sono accolti e, se vi   accolti, rischiano di essere abusati. Il Signore Dio va a riportare le città al deserto per salvare gli uomini dalle loro chiusure.

Davanti a quello che sta per succedere, Abramo non pensa a se stesso, né si premura di essere rassicurato dal fatto di poter scampare a quello che sta per accadere, ma si lancia nell’intercessione. Pertanto, a un certo punto si arrende, non riesce ad andare oltre i <dieci uomini>… e tutti si tace! L’apostolo Paolo ci svela come, nel mistero pasquale del Signore Gesù, l’intercessione di Abramo ha portato il suo frutto più maturo perché il Signore ha condotto all’estrema conseguenza la sua intercessione: lui, il Signore Gesù, ha rischiato in prima persona ed ha pagato il prezzo della preghiera con l’offerta della sua stessa vita. Nel vangelo le parole sulla preghiera si fanno parabola e il modo con cui ci si rivolge a Dio chiamandolo <Padre>, diventa, subito dopo, un monito per noi: <Quale padre…?> (Lc 11, 11). Ogni volta che preghiamo il Padre siamo chiamati non ad aspettarci da Lui qualcosa, ma a diventare come Lui capaci di dare tutto. Siamo noi ad essere padre, madre, fratello e amico per i nostri fratelli e sorelle in umanità. Allora la preghiera, lungi dall’essere un modo gentile per tirarsi fuori dalla mischia, è, in realtà, una bomba che può cambiare radicalmente la storia, ma non senza aver prima cambiato profondamente il nostro cuore. Pertanto, diventa chiara la difficile conclusione: <… lo Spirito Santo…>! È Lui che ci aiuta a discernere e ad incarnare la nostra conformazione a Dio che è Padre secondo il cuore di Cristo Signore.

Lieu

XVII Dimanche T.O. –

Laissons-nous toucher profondément par l’image qui ouvre l’évangile de ce jour et, comme ce disciple sans nom qui porte le nom de nous tous, arrêtons-nous dans la contemplation : «  Jésus se trouvait dans un lieu pour prier… » ( Lc 11,1 ). Aujourd’hui encore, le Seigneur Jésus se trouve dans chaque endroit de notre vie et l’habite par sa prière. Ceci est le signe de son attention envers chacune de nos existences. Lorsque nous pensons à la prière, nous imaginons tout de suite facilement une interminable liste de demandes, l’évangile, au contraire, nous enseigne que la prière est avant tout un regard : un regard sur Jésus qui nous aide à assumer un regard sur le Père qui nous rend capables, à notre tour, d’un regard non plus sur nos besoins et nos nécessités, mais sur ceux dont – la filiation partagée – nous sont confiés comme frères. La réponse de Jésus est simple et immédiate : «  Quand vous priez, dites ‘Père ‘… » ( 11, 2 ). L’ancienne règle des chrétiens prévoyait et prescrivait la récitation de la prière du Seigneur, trois fois par jour. Pour les anciens, il semblait que cette triple répétition quotidienne suffisait comme prière du bon chrétien. Notre prière chrétienne ne se différencie pas des autres par les paroles qu’elle contient, mais par la conversation profonde et continue qu’elle présuppose et accompagne continuellement.

L’image d’Abraham nous est proposée, lui qui, apprenant que le Seigneur projette de détruire les villes de Sodome et Gomorrhe, intercède audacieusement  pour les sauver. Abraham vient à peine d’accueillir la visite des trois mystérieux voyageurs à l’entrée de sa tente où il vit dans la simplicité et l’ouverture à chaque passage et à chaque visite possible. La vie sous les tentes est une vie dure et – en même temps – libre. En fait, il se rend compte de ne pas pouvoir défendre grand-chose, tout ce qu’il peut faire c’est de s’opposer au maximum à l’affrontement. Sodome et Gomorrhe sont des villes construites en pierre et désormais villes emmurées, l’on dirait aujourd’hui des villes blindées où l’étranger et celui qui est différent ne sont pas accueillis et, s’ils étaient accueillis, ils risqueraient d’être abusés. Le Seigneur Dieu va déplacer les villes au désert, pour sauver les hommes de leur fermeture.

Face à ce qui se prépare, Abraham ne pense pas à lui et ne se préoccupe pas d’être rassuré par le fait de pouvoir échapper à ce qui risque d’arriver, mais il se lance dans l’intercession. Pourtant, à un certain point, il se rend et ne réussit pas à aller outre des «  dix hommes »…et tous se taisent ! L’apôtre Paul nous dévoile comment, dans le mystère pascal du Seigneur Jésus, l’intercession d’Abraham a porté son fruit le plus mûr, car le Seigneur a conduit à son extrême conséquence son intercession : lui, le Seigneur Jésus, a risqué personnellement et à payé le prix de la prière par l’offrande de sa vie même. Dans l’évangile, les paroles sur la prière deviennent paraboles et la façon dont elles s’adressent à Dieu en l’appelant «  Père », deviennent tout de suite un avertissement pour nous : « Quel père… ? » ( Lc 11, 11 ). Chaque fois que nous prions le Père, nous sommes appelés, non pas à attendre quelque chose de Lui, mais à devenir comme Lui, capables de donner tout. Nous sommes nous-mêmes père, mère, frère et ami pour nos frères et sœurs en humanité. Alors, la prière, loin d’être une gentille façon de nous tirer hors de la mêlée, est, en réalité, une bombe qui peut changer radicalement l’Histoire, mais, pas sans avoir d’abord changer notre coeur. Dès lors, la difficile conclusion devient claire : « …l’Esprit Saint… » ! C’est Lui qui nous aide à discerner et à incarner notre conformité à Dieu qui est Père selon le coeur du Christ Seigneur.

Sereno realismo

XVI Settimana T.O. –

Non è difficile immaginare l’imbarazzo di un padrone che si sente quasi accusato dai propri contadini di avere seminato o almeno lasciato che qualcuno seminasse della <zizzania> (Mt 13, 25) nel campo. Eppure, la reazione del padrone è di raro equilibrio, soprattutto quando avrebbe avuto motivi per dubitare, fino a poter punire i suoi contadini. La reazione è di grande equilibrio senza cedere in nulla a nessuna forma di allarmismo: <Un nemico ha fatto questo> (13, 28). Nondimeno noi sappiamo dal racconto che quel nemico ha potuto seminare la zizzania <mentre tutti dormivano> (13, 25). Ci si potrebbe, a questo punto, porre la domanda circa la negligenza dei contadini: forse avrebbero dovuto fare dei turni di veglia per impedire che qualcuno si intrufolasse nottetempo nel campo e vi seminasse un seme diverso da quello volutamente seminato?

Stranamente nella reazione del padrone non troviamo alcun indizio che faccia pensare a questa possibilità. Sembra invece che la cosa sia già messa in conto e che non sorprenda più di tanto che di notte, quando tutti dormono possano avvenire delle cose spiacevoli che, però, rimangono solubili: <Lasciare che l’una e l’altra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura…> (13, 30). Se sotto le vesti e i gesti di questo padrone sereno possiamo riconoscere il volto del Padre, allora veramente possiamo dire che: <Dio è onnipotente si nasconde perché tutta la sua gioia consiste nel fatto di essere amato liberamente dalle sue creature: vuole essere preferito>1. Per questo persino nel sublime momento del dono della Torah per ben due volte il popolo viene interrogato, attraverso il ministero di autorità liberante di Mosè, sulla sua libertà di accogliere o meno il cammino segnato dalle parole che sanciscono l’Alleanza: <Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme> (Es 24, 3).

Nonostante la risposta sia stata generosamente positiva, dopo aver esposto il contenuto dell’Alleanza, il popolo viene nuovamente interrogato sulla sua volontà e la sua libertà: <Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo> (24, 7). Alla luce di questi testi forse riusciamo a dare un nome più preciso a quella misteriosa <zizzania> che rischia di far perdere il raccolto. Potremmo dire che nel campo del nostro cuore viene seminata la zizzania quando acconsentiamo alla paura e decliniamo alla libertà. Se, infatti, siamo e rimaniamo liberi, allora possiamo sopportare anche di crescere accanto a ciò che non solo è diverso da noi, ma perfino ci è nemico, senza sentirci affatto minacciati nella nostra possibilità di diventare quello che siamo e che nessuna prossimità, salvo che noi vi acconsentiamo, può realmente mutare e tantomeno corrompere. In realtà, non c’è bisogno di cercare né di trovare nessun colpevole, ma continuare a lavorare alla nostra crescita, imitando la pazienza che l’Altissimo ha nei nostri confronti e sapendola offrire anche agli altri con realismo, ma senza allarmismo.


1. C. GEFFRÉ, Une espace pour Dieu, Cerf, Paris 1970, p. 33.

Al largo

San Giacomo apostolo –

In un inno della Liturgia monastica per gli Apostoli si canta così: <Lo Spirito soffia su di voi, uomini che prendono il largo, gettate in noi l’amo del desiderio di Dio e rilanciate il nostro cammino>. Parole adattissime all’’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, che il vangelo di questa festa ci presenta in una luce almeno ambigua per la richiesta maldestra di sua <madre> (Mt 20, 20) che, nella tradizione della Chiesa, è legato al mare: dall’inizio a oltre la fine. È’ infatti in riva al <mare della Galilea> (Mc 1, 16) che la sua storia di intimità con il Maestro comincia, ed è al cospetto dell’Oceano che la tradizione vuole sia conservata la sua tomba. Sappiamo dagli Atti che il desiderio di sua madre venne esaudito, poiché verso l’anno 44 Erode Agrippa <fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni> (At 12, 2). La liturgia fa memoria di questo privilegio quando prega dicendo: <tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli apostoli, sacrificasse la vita per il vangelo> (Colletta). Ma come dimenticare la domanda postagli direttamente dal Signore Gesù al cospetto della madre intrigante: <Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?>. La risposta fu immediata ed unanime: <Lo possiamo> (Mt 20, 22). 

E così questi due apostoli-fratelli sono posti – dalla tradizione – agli estremi del tempo, nel dono della vita per Cristo e il suo vangelo: Giacomo per primo e Giovanni per ultimo, quasi a sigillo della partecipazione pasquale dell’intero gruppo degli apostoli: <a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale> (2Cor 4, 11). L’apostolo Giacomo – che molto probabilmente non è mai uscito dai confini della sua terra – ha veramente gettato la rete della sua vita al largo. Quelle reti bucate che lui e il fratello <riassettavano> (Mt 4, 21) sulla  barca, con il loro padre, sono diventate un cuore che si è lasciato sprofondare nel mare del mistero di Cristo, fino a portalo pienamente come <un tesoro in vasi di creta> (2Cor 4, 7). Le conchiglie che i pellegrini portano con sé come ricordo del loro pellegrinaggio a Campostela sono la memoria di questo desiderio di immergersi nell’oceano del mistero pasquale di Cristo, portandosi sempre di più <al largo> (Lc 5, 4) del suo amore. Ed è così che si compie la parola del salmo: <Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni> (Sal 125, 6). 

Chiamato assieme a suo fratello, Giacomo non ha smesso di seguire il Signore insieme ad altri e, di questo pellegrinaggio infinito, la sua tomba si fa punto di riferimento. Nella vita di fede non si possono cercare privilegi, neppure quelli di una maggiore vicinanza al Signore e Maestro della nostra vita: questo tradirebbe infatti la stessa logica del discepolato che, per sua natura, è vissuto in comunione. Nessuno è soltanto uditore e nessuno è solo protagonista, ma si cammina insieme senza troppi programmi e in docilità crescente alla logica della strada. La parola di ciascuno, sottomessa all’ascesi del silenzio, entra in armonia e in contrappunto con la parola dell’altro. Come spiega stupendamente un autore contemporaneo: nessuno può pensare di credere veramente alla verità se pensa di esserne l’unico discepolo e garante spinoso e solitario. Così afferma: <La verità vive nell’amore ma si sottrae alla sua gelosia>. Chi infatti – pur con le migliori intenzioni – esclude l’altro, non fa che separarsi da una parte di se stesso poiché, come continua la citazione di cui sopra: <l’assoluto che si riceve è quello che si condivide>1.


1. P.- A. LESORT, Une brassée de confessions de foi, Seuil, p. 191.

Per chi?

XVI Settimana T.O. –

Per chi?

Il cammino di ascolto e di formazione attraverso le parabole del Regno dei cieli è appena cominciato e i discepoli subito pongono al Signore Gesù una domanda: <Perché a loro parli con parabole?> (Mt 13, 10). La risposta del Signore, come spesso avviene, in realtà tende ad aiutare i discepoli a rettificare e ad orientare meglio la loro reazione a quello che Gesù va dicendo e invece di parlare degli altri, subito si parla dei discepoli stessi: <Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato> (13, 11). Al <perché> cui sembrano così interessati i discepoli corrisponde una chiarificazione del <per chi> il Signore apre la sua bocca e riversa il suo insegnamento sui suoi ascoltatori non come una clava che ferisce, ma come un balsamo che risana affinché si compia pienamente e per tutti la profezia: <… e io li guarisca!> (13, 15).

Nella prima lettura siamo ricondotti ad un altro momento assai importante – per non dire fondamentale – della storia di Israele che è quello della consegna della Torah sul monte Sinai che è accompagnata da una sorta di coreografia dell’indicibile che si fa parola donata eppure con tutta una serie di mediazioni che garantiscano l’incolumità di quanti si trovano alle falde del monte. La teofania del Sinai fatta di <lampi, nuba densa sul monte e un suono fortissimo di corno> (Es 19, 16) tanto che <tutto il monte tremava molto> (19, 18) non è che un altro modo per parlare in parabole al cuore di un popolo che ha bisogno ancora di guarigione per mangiare cibo solido e a cui bisogna dare il tempo e i mezzi per acclimatarsi al linguaggio del Signore Dio. La <vetta del monte> (19, 20) su cui Mosè e convocato in solitudine pone una distanza terapeutica tra Dio e il popolo per dare a questi il tempo di abituarsi a Dio come avviene quando bisogna riabituare gli occhi a un eccesso di luce o al passaggio da una vivida luce alla penombra di una casa.

Il parlare di Gesù in parabole come il rivelarsi di Dio lungo il cammino dell’esodo nella teofania del Sinai dicono la stessa cosa: ciò che sta a cuore al Signore non è il <perché> del suo parlare o del suo tacere, del suo rivelarsi o del suo nascondersi, bensì il <per chi> egli fa l’una o l’altra cosa e, non raramente, l’una e l’altra cosa. Chissà se possiamo sentirci veramente destinatari della parola che il Signore Gesù rivolge ai discepoli: <Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano> (Mt 13, 16). Oppure ci sentiamo più a nostro agio con quella folla di poveri e di piccoli che restano alle <falde del monte> (Es 19, 17) in attesa di essere guariti e recuperare così la propria sensibilità all’ascolto e alla visione e il proprio coraggio per rispondere con la vita al dono ricevuto. In ogni modo la parola di Dio che risuona nella maestà del Sinai o nella discretissima voce di Gesù non ha un <perché> come non ha un perché ogni bellezza e ogni amore.

Condizioni

Santa Brigida –

Nella Colletta con cui si apre la celebrazione della festa di santa Brigida si prega così: <O Dio, che hai guidato santa Brigida nelle varie condizioni della sua vita…>. Da questa santa che fu sposa, madre, vedova, religiosa, fondatrice, mistica, riformatrice… possiamo imparare a non temere i cambiamenti della e nella vita trasformandoli in condizioni e opportunità per un più di vita. Di certo la scelta liturgica della prima lettura è legata alla grande devozione di Brigida per la Passione del Signore, nondimeno il programma spirituale delineato dall’apostolo Paolo può diventare un programma di trasformazione interiore che passa attraverso la capacità di assumere la vita in tutti i suoi aspetti e nei suoi molteplici cambiamenti: <E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me> (Gal 2, 20). Ciò che cambia la vita e porta a pienezza è questa relazione trasformante capace di accogliere ogni frammento di esistenza fino a renderlo un gradino per salire verso una comprensione più ampia del mistero di Cristo che è capace di trasformare la vita intera portandola alla sua piena maturazione.

Nella preghiera sulle offerte ancora si prega in questi termini: <Padre misericordioso che, distrutto l’uomo vecchio, hai impresso in santa Brigida l’immagine della creatura nuova…>. Naturalmente non bisogna dimenticare che <l’immagine della creatura nuova> se è un dono di Dio, nondimeno è il frutto di una crescente capacità di rinnovamento interiore che passa, spesso e necessariamente, attraverso il crogiolo della disponibilità a lasciare che tante cose della vita cui siamo giustamente legati e talora persino comprensibilmente attaccati possano cadere o scomparire. L’invito esigente e pressante del Signore Gesù allora si colora di nuove e più intime sfumature: <Rimanete in me e io in voi> (Gv 15, 4). Questo rimanere in Cristo significa, come ben comprese santa Brigida, entrare nella logica della croce che ci rimanda alla necessità di accettare di essere inchiodati dalla vita reale e quotidiana piuttosto che da una sorta di schiavitù verso le proprie immaginazioni.

Così possiamo comprendere come la passione di Brigida per la Passione del suo Signore non è semplicemente un atto di devozione, ma un respiro della vita che le permette di assumere fino in fondo le condizioni che l’esistenza le impose in modo talora così doloroso fino a rendere questi passaggi non cercati né desiderati delle vere opportunità. Alla fine della celebrazione la preghiera si fa augurio: <fa’ che sostenuti dalla forza di questo sacramento impariamo, sull’esempio di santa Brigida a cercare te sopra ogni cosa, per portare l’immagine dell’uomo nuovo>. Tutto questo sarà possibile se amiamo rimanere attaccati amorevolmente a Cristo come i tralci alla vite e se, come ogni arbusto o albero che cresce sulla nostra terra, accettiamo di rimanere ostinatamente al posto che la vita ci ha assegnato.

Intimità

Santa Maria Maddalena –

Un testo di Maurice Zundel ci aiuta ad entrare nel mistero di questa memoria così pasquale di Maria di Magdala: <L’appuntamento con Gesù Cristo si dà prima di tutto in incontro comunitario. Sembra dire il Risorto a Maria di Magdala: “Se mi vuoi sentire, bisogna passare attraverso l’universale di una presenza comunitaria. Altrimenti mi ridurresti alla tua misura e mi trasformeresti in un idolo. Se vuoi veramente entrare in relazione con me, bisogna farlo in apertura a tutta l’umanità. Questo perché tu potrai stringermi veramente, quando il tuo cuore si sarà dilatato alla misura del mio stesso cuore”>1. La memoria di Maria Maddalena ci riporta alle emozioni del mattino di Pasqua, ma in questo giorno siamo chiamati a concentrare l’attenzione del nostro cuore non tanto sul fulgore del Risorto, ma sulle nostre piccole e grandi tenebre che hanno bisogno di lasciarsi inondare e rischiarare dalla luce pasquale che, come all’inizio della creazione, rimette in moto la vita e la rende ancora più piena e felice.

In Maria di Magdala, discepola del Signore, possiamo cogliere il cammino di ogni discepolo chiamato a diventare apostolo. Si tratta di vivere un’intensità di intimità che non si ripiega in un intimismo autoreferenziale, ma si apre ad una testimonianza ad amplissimo raggio. Il cammino di Maria di Magdala va dalle lacrime alla corsa testimoniale. Nell’intimità di ciò che avviene davanti alla tomba vuota, la Maddalena diventa capace di portare una parola: <… e ciò che le aveva detto> (Gv 20, 18). Come ogni apostolo, anche Maria di Magdala non si accontenta di riportare ad altri la parola udita dal Signore, ma se ne testimonianza con tutta la propria vita e con tutta la propria passione. Solo l’intimità fonda la testimonianza, nondimeno per dire qualcosa che sia credibile e affidabile è necessario aver vissuto un’esperienza di profonda partecipazione al mistero pasquale. Una partecipazione che esige un amore non solo grande ma che, non potendosi improvvisare, ha bisogno di una lunga e remota preparazione.

Questo amore è certamente quello che è sbocciato nella frequentazione tra la discepola e il Maestro, ma esso ha dato frutto, nel momento della partecipazione, a quel dono pasquale che, caduto dalla croce come un frutto maturo, ha diffuso tutto il suo profumo nel giardino della risurrezione ove Maria è divenuta nostra madre nella fede amorosa di chi sa attraversare ogni <notte> (Ct 3, 1) senza temere nessun <buio> (Gv 20, 1): né dentro il proprio cuore né dentro le pieghe più dolorose della storia. Tutti i vangeli attestano che ai piedi della croce era presente quel gruppetto fedele di donne che avevano seguito e assistito il Signore Gesù ponendosi al suo servizio nel periodo della sua predicazione. Fra di loro, Maria di Madgala viene nominata per prima. Le parole e i tenerissimi gesti di Cristo avevano suscitato in lei una fede capace di liberarla dal male oscuro del suo travaglio interiore, fino a condurla a rispondere all’amore con altrettanto amore.


1. M. ZUNDEL, Avec Dieu dans le quotidien, Saint Augustin, p. 113.

Cammino

XVI Settimana T.O. –

Non possiamo certo non condividere non solo la <grande paura> (Es 14, 10) che stringe il cuore dei figli di Israele unitamente a tutti coloro che si sono uniti alla loro speranza di libertà e di nuove prospettive di vita. Non meraviglia certo la paura per la pressione di <seicento carri scelti e tutti i carri d’Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi> (14, 7) che spingono il popolo, inerme e disarmato, nelle fauci del mare il quale sembra aspettarli come si attende pazientemente una preda ignara nella trappola preparata da tempo. Anche noi avremmo gridato, anche noi rimpiangiamo le schiavitù che conosciamo e cui siamo abituati, anche noi ci pentiamo di aver intrapreso entusiasmanti cammini di libertà che ci pongono di fronte alla sfida esigente della nostra solitudine e responsabilità. La reazione di Mosè davanti al più che comprensibile sconcerto del popolo è di fargli coraggio: <Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore> poiché <il Signore combatterà per voi> (14, 13-14). Da parte del Signore, invece, c’è una risposta non facile da comprendere in un momento così difficile in cui il panico attanaglia i cuori, le menti, paralizzando con la paura i passi e i pensieri: <Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino> (14, 15).

Questa parola rivolta dal Signore Dio al suo servo Mosè ci aiuta a comprendere ancora meglio la risposta che il Signore Gesù dà agli scribi e ai farisei evocando gli esempi di Giona e della <regine del Sud> che <venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone> (Mt 12, 42). Giona e la regina del sud sono due persone che alla fine hanno accettato, pur con tutto il combattimento vissuto dal profeta, di porsi in cammino e di andare oltre i proprio giudizi e preconcetti e perfino oltre le proprie ricchezze e sicurezze per aprirsi a un di più di conoscenza del cuore di Dio e del cuore dell’uomo, a un di più di sapienza e di vita. Mentre gli scribi e i farisei dicono <da te vogliamo vedere un segno> (12, 38), sembra che il Signore Gesù risponda: “Da voi voglio vedere un segno!”. Infatti, il segnale che permette ai segni di manifestarsi e di essere accolti è proprio quello di scomodarsi come fece contro voglia Giona e così appassionatamente la regina del sud.

Solo il fatto di mettersi e rimettersi continuamente in <cammino> permette al Signore di farsi non solo compagno di strada, ma di rivelarsi vero e ardito apripista come avvenne nel mare e come avverrà per quarant’anni nel deserto. Così pure il Signore Gesù non può darci nessun <segno> se non gli facciamo segno di volere veramente aprirci al dono della sua presenza lasciandoci scomodare e proiettare più in là di ciò che abbiamo messo in conto di voler vedere per poter così finalmente aprire gli occhi su ciò che vuole essere visto e accolto dalla nostra vita per rimetterla ogni mattina in <cammino>. Si tratta del cammino della memoria di quanto già il Signore ha compiuto per noi per riaprirsi alla fiducia e rafforzarla sapendo rinunciare all’assurda pretesa che l’amore si dimostrato e la bontà di Dio continuamente provata… basta solo continuare il <cammino> guardando sempre avanti e mai indietro.

Visitati

XVI Domenica T.O.

La domanda che si pone il salmista: <Signore, chi abiterà…> (Sal 14, 1) illumina la lettura del vangelo di questa domenica. Questo testo non va letto in modo isolato, ma imprescindibilmente legato al testo che abbiamo letto e meditato la scorsa domenica. Il Signore Gesù che si presenta come il buon samaritano, capace di chinarsi sulle ferite di quell’uomo che <scendeva da Gerusalemme a Gerico> (Lc 10, 30) e lo conduce alla locanda perché possa essere curato fino a ristabilirsi, si fa oggi ospitare nella casa di Marta e di Maria. Il Signore Gesù si fa ospite, ma in realtà siamo noi ad avere bisogno della sua visita, più di quanto egli abbia bisogno della nostra accoglienza. Per interpretare il testo del Vangelo, la consueta sapienza della Liturgia ci mette nella giusta direzione, ridandoci la possibilità di leggere uno dei testi più belli delle Scritture Ebraiche: l’accoglienza, da parte di Abram, della visita dei misteriosi viandanti. L’attitudine più forte e più significativa che troviamo in lui è la sua prontezza che, ben prima di farsi fretta nel servire – e nel chiedere alla moglie Sarai e al suo servo di servire – è attesa vigilante <all’ingresso della tenda> perfino <nell’ora più calda del giorno> (Gn 18, 1). 

La cosa più importante non è la nostra accoglienza e il nostro modo di accogliere, bensì il fatto che Dio ci visita e il modo con cui egli lo fa. Con la sua consueta raffinatezza letteraria l’evanglista Luca fa seguire l’accoglienza nel <villaggio> (Lc 10, 38) di Betania, alla parabola del samaritano compassionevole. Quasi a dire che solo l’esperienza di una radicale compassione può renderci ospitali verso gli altri. Non solo, la presenza di Maria e il suo sedersi <ai piedi del Signore> per ascoltare la <sua parola> (10, 39), ci ricorda che, per quanto possiamo accogliere Gesù nella nostra vita cercando di rispondere ai suoi bisogni e necessità, è sempre Lui a darci le cose più importanti e a donarcele in pienezza. In tal modo il dittico del buon Samaritano che si ripropone in Marta, viene completato da quello di Maria e ci dà così una sorta di mappa interiore della vita del discepolo, il cui desiderio è quello di poter vivere, in prima persona, ciò che viene evocato dall’apostolo Paolo: <Cristo in voi, speranza della gloria> (Col 1, 27)

Il gesto così fine dell’accoglienza di Abramo e di Marta che si completa nell’atteggiamento più che accogliente di Maria, apre uno spazio di pace in cui il cuore di tutti – compreso quello dell’Altissimo – si rinfranca affinché tutti possano riprendere più serenamente il cammino della storia: una storia chiamata ad ospitare il cuore stesso di Dio che ci accoglie lasciandosi accogliere. Il questo modo non solo si rivela <il mistero nascosto da secoli e da generazioni> (Col 1, 26), ma questo mistero diventa il modello stesso della nostra vita in una libertà e in una carità non solo crescenti, ma sempre più profonde e serene. La parola del Signore Gesù ci aiuta a non dimenticare che libertà e carità non possono che essere l’espressione più pura di ogni personalità che, come l’amore, è sempre unica e quindi impossibile a ripetersi.

Visités

XVI Dimanche T.O. –

La question que se pose le psalmiste : «  Seigneur, qui habitera… » ( Ps 14, 1 ) illumine la lecture de l’évangile de ce dimanche. Ce texte n’est pas lu de manière isolée, mais lié indissociablement au texte que nous avons lu et médité dimanche dernier. Le Seigneur Jésus qui se présente comme le bon samaritain, capable de se pencher sur les blessures de cet homme qui «  descendait de Jérusalem à Jéricho » ( Lc 10, 30 ) et le conduit à l’auberge pour qu’il puisse être soigné jusqu’à son rétablissement, devient, aujourd’hui l’invité dans la maison de Marthe et Marie. Le Seigneur Jésus se fait inviter, mais s’est nous qui, en réalité, avons besoin de sa visite, bien plus qu’il n’a besoin de notre accueil. Pour interpréter le texte de l’Evangile, la sagesse habituelle de la Liturgie nous met dans la bonne direction, nous redonnant la possibilité de lire l’un des plus beaux textes de l’Ecriture Hébraïque : l’accueil de la part d’Abraham de la visite des mystérieux voyageurs. L’attitude la plus forte et la plus significative que nous trouvons en lui est la promptitude qui, bien avant de devenir rapidité dans le service  – et dans la demande à sa femme Sarah et à son serviteur de servir – est une attente vigilante «  devant l’entrée de la tente » même «  à l’heure la plus chaude du jour » ( Gn 18, 1 ).

La chose la plus importante n’est pas notre accueil et notre façon d’accueillir, mais bien le fait que Dieu nous visite et la manière dont il le fait. Par son habituel  raffinement littéraire, l’évangéliste Luc fait poursuit l’accueil dans le «  village » ( Lc 10, 38 ) de Béthanie, après la parabole du samaritain compatissant. Comme pour dire que seule l’expérience d’une réelle compassion peut nous rendre hospitaliers envers les autres. Non seulement la présence de Marie et son assise «  aux pieds du Seigneur » pour écouter «  sa parole » ( 10, 39 ), nous rappelle que, même si nous pouvons accueillir Jésus dans notre vie en cherchant de répondre à ses besoins et ses nécessités, c’est toujours Lui qui nous donne les choses les plus importantes en plénitude. Ainsi, le diptyque du bon Samaritain reproposé en Marthe, est complété par celui de Marie nous donnant ainsi une sorte de plan intérieur de la vie du disciple, dont le désir est  d’abord de pouvoir vivre par soi-même, ce qui est évoqué par l’apôtre Paul «  Christ en vous, espérance de la gloire » ( Col 1, 27 ).

Le geste si délicat de l’accueil d’Abraham et de Marthe complété par l’attachement plus que par l’accueil de Marie, ouvre un espace où le coeur de tous – y compris celui d’Abraham – se rafraîchit pour que tous puissent  reprendre le chemin  de l’Histoire plus sereinement : une Histoire appelée à inviter le coeur même de Dieu qui nous accueille  en nous laissant accueillir. Ainsi se révèle, non seulement «  le mystère caché depuis des siècles et des générations » ( Col1, 26 ), mais ce mystère devient aussi le modèle même de notre vie dans une liberté et une charité, non seulement croissantes, mais toujours plus profondes et sereines. La parole du Seigneur Jésus nous aide à ne pas oublier que liberté et charité ne peuvent qu’être l’expression la plus pure de toute personnalité qui, comme l’amour, est toujours unique et donc impossible  à se répéter.