Coraggio
XIX Domenica T.O. –
Siamo come bambini cui è stata fatta una promessa e che attendono il ritorno della mamma o del papà in attesa di scoprire concretamente di quale dono si tratti. L’unica cosa che i bambini, a cui è stata fatta la promessa di un dono, non riescono a pensare – anche quando nell’attesa ciondolano dal sonno – è che il papà non torni e che la promessa si possa rivelare, in realtà, un inganno: <siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito> (Lc 12, 36). All’immagine dei bambini che attendono fiduciosi il concretizzarsi delle promesse, il Vangelo accosta quella di servi che – in una gioia contagiosa – attendono trepidi il ritorno del loro padrone dalle nozze. Del resto, cosa mai non si è capaci di dare quando si è innamorati e si vive l’ebrezza di un amore coronato, in questa attesa fatta di certezza irremovibile? Alla fine, è molto difficile distinguere se la cosa più importante sia il dono atteso o la conferma che ci si può fidare della parola di chi si è legato a noi nell’alleanza di una promessa scambiata, tanto da non poter minimamente dubitare della sua parola. Noi tutti, sin dalla più tenera età e talora fino al penultimo respiro, ci dibattiamo in questo combattimento della fiducia nell’altro, questa fiducia è l’anima dello stesso combattimento della fede come promessa di compimento: <Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno> (Lc 12, 32).
La fede di cui si parla nella seconda lettura è il viaggio di cui si parla nella prima. Ma come dimenticare che la fede non è qualcosa che riguarda noi, ma che è riguarda prima di tutto e soprattutto Dio stesso? È come quando si parte in montagna: i nostri cammini sono sempre incerti, faticosi e, non raramente, si ha la tentazione di fermarsi. Nondimeno, la certezza che la montagna non si sposti e resti dove è ad attenderci, dà la sicurezza della meta all’incerto e faticoso cammino. Se le montagne si spostassero… allora la cosa sarebbe disperante perché ogni passo potrebbe rivelarsi inutile fino ad esasperare ogni speranza di poter raggiungere la meta. La Sapienza esorta ardentemente facendo memoria: <La notte della liberazione fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà> tanto che <i figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli> (Sap 18, 6.9).
Di questi <successi e pericoli> troviamo un’evocazione litanica nel capitolo undecimo della Lettera agli Ebrei di cui leggiamo una parte nella liturgia di questa domenica. La cifra riassuntiva di Abramo, come archetipo dell’uomo di fede, è che <Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso> (Eb 11, 10). È in questa fiducia irremovibile nella promessa di un altro che si basa la capacità di attendere e di vegliare. L’invito alla fiducia del Signore è un invito alla laboriosità e alla veglia festosa e serena poiché <A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più> (Lc 12, 48). Ci trovi il Signore al posto del nostro desiderio e, nel frattempo, vigiliamo e lavoriamo perché esso trovi il suo giusto posto nel quotidiano <coraggio> dell’esodo quotidiano.
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