Idoli

XX settimana T.O. –

Il libro dei Giudici è capace di affondare il dito e la lama direttamente nella piaga del nostro cuore: <gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti> (Gdc 2, 12). In una parola, si potrebbe dire che tutti i mali vengono dalla dimenticanza che crea un’autoreferenzialità difficile da guarire, se non attraverso il cauterio della prova e dell’umiliazione: <In tutte le loro spedizioni la mano del Signore era per il male, contro di loro> (2, 15). Si potrebbe arrivare a dire che nel Vangelo assistiamo ad una sorta di spedizione in piccolo che sortisce lo stesso risultato di naufragio: <un tale si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?> (Mt 19, 16). Molto probabilmente davanti ad una domanda come questa ci sentiremmo ammirati e ci precipiteremmo a fornire una risposta con tutti i particolari del caso per soddisfare al massimo colui che interroga con tanta devozione e riverenza.

Il Signore Gesù, invece, reagisce molto diversamente: <Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo> (19, 17). L’evocazione dei comandamenti fatta dal Signore Gesù si richiesta di questo tale è assai singolare e significativa perché si limita alla seconda tavola delle Dieci Parole che riguarda la relazione con gli altri che culmina con la contaminazione di un versetto del Levitico: <e amerai il prossimo tuo come te stesso> (19, 19). Stranamente questo tale si sente perfettamente a posto con tutte le esigenze di un amore così esigente fino a dire: <Tutte queste cose le ho osservate> (19, 20). A questo punto la malattia è tremendamente conclamata! Questo tale ritiene che si possa fare tutto per bene e di conseguenza poter raggiungere la pienezza del buono. In realtà, non è così secondo il Signore!

Ciò che manca a questo tale è la consapevolezza della complessità del cuore e dell’inevitabile ambiguità della vita, tanto da essere alla ricerca di una ricetta che, più o mono consciamente, rischia di portare a forme sempre più sottili di idolatria. Nell’elenco dei comandamenti sembra che al centro si trovi proprio quello che recita così: <non ruberai> (19, 19). Si tratta di qualcosa di molto più profondo ed esigente del semplice non rubare, di tratta di resistere alla tentazione di appropriazione per rimanere in una libertà del cuore che esige una povertà da se stessi. Per cominciare ecco qual è il consiglio del Signore: <vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo> (19, 21). Non si tratta di una semplice misura pauperistica… ben di più si tratta di un modo nuovo di percepire se stessi e quindi di porsi in relazione a Dio e agli altri. La conclusione non lascia dubbi e, soprattutto, non ci lascia in pace: <Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze> (19, 22). Per dirla con il libro dei Giudici questo <tale> che si rivela infine essere un <giovane> aveva troppi <idoli>, forse era idolo di se stesso e per questo è necessario il lungo tempo della prova che è sempre un necessario impoverimento per imparare a non rubare e ad assumere. Non si tratta di avere di più collezionando anche meriti spirituali, ma di avere meno da esibire di se stessi e più da accogliere per se stessi e per gli altri.

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