Inferno

XXVI Domenica T.O.

Di certo il tema dell’inferno non è più tanto di “moda” e, grazie a Dio, tutta l’aneddotica tradizionale su questo luogo di <tormenti> (Lc 15, 23), descritto con dei particolarismi inquietanti e rivelativi di una fervida quanto rischiosa fantasia, ha ceduto il passo ad una maggiore austerità di immagini a vantaggio di una più profonda sensibilità della posta in gioco. E la posta in gioco è assai alta: il rischio è quello di fallire la propria vita nel tempo e nell’eternità. Questo senso di fallimento e questa coscienza di aver sprecato la propria grande occasione è il sentimento che brucia e consuma quel povero ricco che, alla fine, se fa pena a noi che leggiamo, chissà quanta pena fa al Signore Gesù che racconta questa parabola. Nel capitolo precedente del suo vangelo, Luca ci ha messo di fronte all’abisso della misericordia di Dio che si comporta come pastore che cerca la sua pecora smarrita, come donna che non si dà pace finché non ritrova la dramma perduta, come padre che non smette mai di essere tale. Ora ci pone di fronte all’altra faccia della medaglia: noi e il nostro modo di portare il mistero della vita in relazione a noi stessi, agli altri e a Dio. L’esortazione dell’apostolo ci rammenta l’orizzonte più degno per ciascuno di noi: <Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza> (1Tm 6, 11).

Nella parabola non si dice che il ricco fosse cattivo e il povero buono: semplicemente c’è questa <porta> (Lc 16, 20) in terra che diventa poi un <grande abisso> (16, 26) in cielo. Il vero problema del ricco è quello di non aver visto il povero e, in cielo, chiede di essere visto da chi – in questo caso Lazzaro – non potrebbe neanche riconoscerne il volto: quel volto che è rimasto sempre blindato all’interno, mentre si facevano <lauti banchetti> (16, 19). Il messaggio è chiaro e semplice: come si può pensare di vedersi e incontrarsi in cielo se non ci si è mai incontrati e nemmeno scontrati in terra. Il ricco non è un insensibile, vista la sua preoccupazione per i suoi cari <cinque fratelli> (16, 28), ma è un superficiale che ha dimenticato il “settimo” dei suoi fratelli che è appunto Lazzaro. Così a questo ricco si applica a pennello la parola del profeta: <sdraiati sui loro divani mangiano… Canterellano… bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano> (Am 6, 4-6). È come se non ci fosse il tempo per chiedersi che cosa stia avvenendo davanti alla <porta>, là dove ci sarebbe da imparare ad essere uomini persino dai <cani> (Lc 16, 21). Il ricco non vede nulla, non ha occhi per nessuno se non per se stesso!

Certo: la reazione di Abramo è forte, persino spietata, ma è un modo per mettere in guardia dal pericolo di cadere in una sorta di anestesia spirituale che ci può prendere ogni volta in cui non leggiamo più la nostra vita – nell’abbondanza e nella povertà – proprio e sempre <Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato> (1Tm 6, 13). Il rimedio all’anestesia spirituale è quello di <conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento> (6, 14) aprendosi così ad una “anastasìa” già qui in terra. Invece di starsene <sdraiati> (Am 6, 4) dobbiamo alzarci e oltrepassare quella <porta> blindata che rischia di essere la nostra pietra tombale per l’eternità rivelando, in realtà, a quale inferno ci siamo condannati da noi stessi con una tristissima incuria.

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