Per la libertà!

XXVIII settimana T.O.

L’affermazione di Paolo è lapidaria: <Cristo ci ha liberati per la libertà!> (Gal 5, 1). Quando il Signore Gesù definisce come <malvagia> la sua <generazione> che continua a cercare un <segno> (Lc 11, 29) forse si riferisce proprio a ciò che potremmo definire una resistenza alla libertà. E allora la parola dell’apostolo si fa tagliente e sommamente esigente: <State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù> (Gal 5, 1). Il giogo cui si riferisce l’apostolo è quello che il Signore Gesù, in un altro passo del Vangelo, evoca come superamento delle pesantezze insopportabili delle consuetudini e delle osservanze che se pure si fondano sulla Parola di Dio talora rischiano di stravolgerle: <il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggere> (Mt 11, 30). Sembra proprio che questa spasmodica ricerca di segni, che spesso ritroviamo pure ai nostri giorni, corrisponda ad un bisogno di sicurezze e di rassicurazione che rischiano di scontrarsi con quel dono di libertà che rimanda necessariamente al dovere di ciascuno di trovare la propria strada per corrispondere alla verità cui è interiormente chiamato.

Quasi sfinito dalle inutili controversie con i farisei e dalle pressioni della folla che cerca una sorta di evidenza messianica nella testimonianza di Gesù, l’evocazione di Giona e della regina del sud sono l’unico modo per rimandare al mistero di un modo diverso di attraversare la porta della salvezza. Gli abitanti di Ninive accolgono l’invito alla conversione del reticente Giona con una semplicità e una naturalezza che talora sembrano lontanissime dalle nostre complicazioni religiose. La regina del sud risponde ad un bisogno del suo cuore stupendamente curioso e si reca a Gerusalemme per conoscere Salomone mettendosi decisamente e incondizionatamente in cammino. Quanti ascoltano Gesù, non solo i suo contemporanei, sembrano temere di imbarcarsi veramente nella sua logica e sembrano rimandare continuamente la scelta di una compromissione esistenziale con il suo messaggio.

Si potrebbe definire questa fatica a decidersi nascondendosi dietro la maschera di devoti ragionamenti come una sottile paura di quella libertà che il Cristo ci offre ogni giorno. Questa libertà che il Grande Inquisitore di Dostoevskij ritiene troppo pesante per le fragili spalle della nostra umanità è un atto di fiducia da parte del Creatore che conferma, nell’esperienza personale di ciascuno, il dono fatto al mondo con la creazione. Siamo così continuamente consegnati a noi stessi e alle nostre scelte che devono essere non solo libere teoricamente, ma pure capaci di correre concretamente il rischio della libertà. La parola del Signore Gesù è talora violenta, ma non è mai oppressiva! Al contrario i gesti e le parole del Signore Gesù continuamente ci aiutano a non cedere alla tentazione di cercare un nuovo padrone cedendo alla tentazione di <schiavitù> apparentemente nuove, ma che sono sempre la stessa catena che non ci permette di vivere pienamente.

Amato

XXVIII Domenica T.O.

Dopo avere letto – domenica scorsa – quanto il Signore Gesù ci insegna circa il modo di rapportarci agli altri e, in particolare, con quanti avremmo la tentazione di trattare con sufficienza e poca delicatezza – le donne e i bambini -, oggi il Maestro ci insegna a rapportarci in modo giusto con le <ricchezze> (Mc 10, 23). Sotto questo nome non bisogna intendere semplicemente i beni materiali, ma persino i beni spirituali che quel <tale> (10, 17), dopo l’elenco rammemorato dallo stesso Signore Gesù, è in grado di identificare in modo preciso: <Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre> (10, 19). Dopo che il Signore Gesù ha fatto l’elenco di ciò che questo tale sicuramente conosce, questi non ha nessun problema e – bisogna riconoscerlo, nessuna falsa modestia come noi – nel dire con giusta fierezza: <Maestro, tutte queste cose lo ho osservate fin dalla giovinezza> (10, 20). A questo punto del dialogo si rende necessario un momento di pausa quasi per prendere un attimo respiro e misurare, intuitivamente, la posta in gioco tra Gesù e questo tale, tra Gesù e noi. Mentre ci si aspetterebbe una presa di distanza da parte del Signore o almeno l’esplicitazione immediata delle esigenze della sequela l’evangelista Marco chiosa con una nota indimenticabile: <Allora Gesù fissò lo sguardo su lui e lo amò…> (10, 21). Una nota principale, come il tema ricorrente in una sinfonia, e che non si può in alcun modo sottovalutare o dimenticare. Il seguito della frase rivolta a questo tale di cui i Vangeli non ci riportano il nome – Matteo ci dice per due volte che si tratta di un <giovane> (Mt 19, 20. 22) – deve essere letto in quell’atmosfera umanamente forte, creata dallo sguardo fisso di Gesù su quest’uomo che potremmo chiamare con lo stesso nome che la tradizione greca riserva all’apostolo Giovanni: Amato! Così potremmo chiamare quell’uomo che normalmente tutti indichiamo come il “giovane ricco”. Come giustificare questo sguardo pieno di amore e di predilezione del Signore Gesù, se non a partire da un’affinità scorta dal Maestro in questo possibile discepolo? Egli, pur diventando un discepolo mancato, nondimeno ha potuto aggiungere ai suoi <molti beni> (Mc 10, 22) il sommo bene di quel verbo che traduce un dono incommensurabile e, nonostante il suo rifiuto, intramontabile. Di fatto quest’uomo viene folgorato dall’amore di Cristo per il quale è, in certo modo, preparato visto il suo atteggiamento pieno di ardente desiderio come lo siamo ciascuno almeno in certi momenti e in alcuni passaggi cruciali della nostra esistenza discepolare.

Aimé

XXVIII Dimanche du T.O. 

Après avoir lu – dimanche dernier – comment le Seigneur Jésus nous enseigne la façon de nous comporter avec les autres, et en particulier, avec ceux que nous avons la tentation de traiter avec suffisance et peu de délicatesse – les femmes et les enfants -, aujourd’hui, le Maître nous enseigne comment nous comporter de façon juste avec les ” richesses ” – ( Mc 10, 23 ). Sous ce nom, il ne faut pas comprendre simplement les biens matériels, mais aussi les biens spirituels  que ce “personnage ” ( 10, 17) après la liste remémorée par le Seigneur Jésus lui-même, est capable d’identifier de façon précise : ” Ne pas tuer, ne pas commettre d’adultère, ne pas voler, ne pas faire de faux témoignage, ne pas frauder, honorer son père et sa mère ” ( 10, 19 ). Après que le Seigneur Jésus ait énoncé la liste que cet individu connaît, celui-ci n’a aucun problème  et – il faut le reconnaître, aucune fausse modestie, comme nous – pour dire avec juste fierté : ” Maître, toutes ces choses, je les ai observées depuis ma jeunesse ” ( 10, 20 ). A ce point du dialogue, un moment de pause est nécessaire pour reprendre sa respiration et mesurer, intuitivement, les enjeux qui se jouent entre Jésus et ce personnage, entre Jésus et nous. Alors que l’on pourrait s’attendre à une prise de distance de la part du Seigneur ou, du moins à une explication immédiate des exigences pour le suivre, l’évangéliste Marc conclut par une remarque inoubliable : ” Alors, Jésus fixa son regard sur lui et l’aima…” ( 10, 21 ). Une remarque principale, comme le thème récurrent d’une symphonie que l’on ne peut d’aucune façon sous-évaluée ou oubliée. La suite de la phrase adressée à ce personnage dont les Evangiles ne nous communiquent pas le nom – Matthieu nous dit deux fois qu’il s’agit d’un ” jeune ” ( Mt 19, 20.22 ) – doit être lue dans cette atmosphère unanimement forte, crée par le regard fixe de Jésus sur cet homme que nous pourrions appeler par le même prénom que la tradition grecque réserve à l’apôtre Jean :  Aimé !  Nous pourrions nommer ainsi cet homme que tous surnomment normalement le ” jeune homme riche “. Comment justifier ce regard plein d’amour et de prédilection du Seigneur Jésus, sinon à partir d’une affinité découverte par le Maître en un possible disciple ? Celui-ci, même en devenant un disciple recalé, a pourtant pu ajouter à ses ” nombreux biens ” ( Mc 10, 22 ) le bien suprême de ce verbe qui traduit un don incommensurable et ceci, malgré son refus, intemporel. En effet, cet homme est foudroyé par l’amour du Christ pour lequel, d’une certaine manière, il est préparé au vu de son attachement plein d’un désir ardent comme nous le sommes, chacun d’entre nous, au moins certaines fois et dans certains passages cruciaux de notre existence de disciples.

Osservare

XXVII settimana T.O.

Prima di rimandare alla necessaria obbedienza come sottomissione e conformazione, l’ultima parola del Vangelo di oggi rimanda a qualcosa di più intimo e, per molti aspetti, più fondamentale: <ascoltano la parola di Dio e la osservano> (Lc 11, 28). Osservare prima di obbedire significa guardare con attenzione e con passione. Osservare significa inoltre non solo guardare, ma ritenere nella mente e custodire nel cuore. Si tratta, così, di un’azione intensa verso qualcuno e qualcosa ed è un’attitudine che consegue ad una intuizione di preziosità che ci inclina a concentrare tutte le forze perché nulla vada perduto e perché nulla ci sfugga. L’evocazione da parte della <donna> (11, 27) che alza la voce per benedire ed esaltare il grembo e il seno della madre che ha cullato e ha nutrito il Signore Gesù, ci rimanda ad uno sguardo assolutamente unico per intensità e per cura che è quello di una madre nei confronti del proprio piccolo. È uno sguardo a cui non sfugge ciò che tutti gli altri non sono in grado né di vedere, né di comprendere.

È in questo senso che la Madre di Gesù diventa un modello per ogni discepolo ed è in questa direzione che possiamo comprendere la parola alquanto provocatoria del Signore: <Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano> (11, 28). Potremmo fare, alla fine di questa settimana, un piccolo test: ricordiamo a memoria la sequenza dei testi evangelici che abbiamo letto durante questi ultimi giorni? Testi preziosi, testi che avrebbero dovuto segnare fino a cambiare, almeno di poco, la nostra vita: il buon samaritano, Marta e Maria, la preghiera del Signore, l’invocazione del dono dello Spirito, la potenza di Gesù contro il male…! Fino a che punto abbiamo veramente “osservato” queste parole e questi gesti del Signore tanto da imprimerli nel nostro cuore e custodirli come doni preziosi di cui prenderci cura amorevolmente? Quale traccia questi testi hanno lasciato nel nostro cuore?

L’apostolo Paolo ci offre un criterio per poter rispondere a questa grave domanda che ci riguarda personalmente e profondamente: <Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa> (Gal 3, 28-29). Se osserviamo la Parola, il nostro modo di guardare e osservare il mondo attorno a noi non potrà rimanere uguale, ma sarà sempre più dilatato. Così il nostro rapporto con il Signore attraverso l’accoglienza amorosa della sua Parola non è semplicemente una questione di informazione, ma è un’esperienza di sguardo scambiato che ci permette di sentire la gioia di una relazione che se passa attraverso la parola, non si limita e non si identifica mai con le sole parole.

Maledizione

XXVII settimana T.O.

Due testi esigenti sono quelli che la Liturgia ci offre e ci chiede di accogliere quest’oggi. Paolo non esita a dire che <Cristo ci ha riscattato dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi> (Gal 3, 13). Sulla bocca del Signore Gesù troviamo una parola assai dura e, per molti aspetti, sconvolgente: <Chi non è con me, è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde> (Lc 11, 23). Parole forti che, nella storia, hanno rischiato di creare qualche corto circuito in quella che è la comprensione e la ricezione del Vangelo nel concreto delle nostre vite. Eppure, il messaggio è chiaro: <Quelli invece che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione…> (Gal 3, 10). Con la parabola che il Signore Gesù racconta per cercare di comunicare con i farisei che lo screditano fino ad accusarlo di connivenza con Beelzebùl, ci mette di fronte alle esigenze di una certa chiarezza interiore per poter realmente passare dalla maledizione alla benedizione.

Questo passaggio esige una scelta e una decisione che non può mai abbassare il proprio livello di vigilanza e di attenzione. Non basta rendere la casa del nostro cuore <spazzata e adorna> (Lc 11, 25), è necessario pure tenere custodita la porta perché il male non vi possa più penetrare tanto che <l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima> (11, 26). Questo combattimento interiore da cui nessuno è risparmiato riguarda la tensione inevitabile e mai definitivamente risolta tra l’osservanza fedele e generosa della Legge e la coltivazione di quella libertà e serenità interiore senza le quali persino le osservanze più degne rischiano di renderci schiavi in modo <peggiore>.

Non è facile, ma è comunque doveroso, portare il peso di questa consapevolezza. Nella vita – e in particolare nella vita spirituale – non c’è nulla di scontato, di automatico, di oggettivamente chiaro e definito. Il cammino della verità e della libertà ci obbliga ad una continua capacità di far ritrovare ai nostri gesti e alle nostre abitudini le loro origini più vere e profonde, quelle che motivano e continuamento orientano le nostre esistenze verso il proprio fine. Ciò che permette questo cammino è accettare di entrare nella logica della fede per diventare <figli di Abramo> (Gal 3, 7). Essere figli di Abramo significa accettare di diventare stranieri e pellegrini, comporta accettare ogni giorno di rimettersi in cammino verso orizzonti sconosciuti vivendo più sotto le stelle che al riparo dei nostri tetti e delle nostre convenzioni. Essere discepoli del Signore Gesù significa accettare il paradosso che la benedizione possa e talora debba passare attraverso l’esperienza rude della <maledizione> che ci obbliga a fare il salto pasquale senza il quale non possiamo ricevere <la promessa dello Spirito> (Gal 3, 14).

Amico

XXVII settimana T.O.

Come spesso avviene nelle sue Lettere, l’apostolo Paolo ci interroga senza peli sulla lingua e senza troppi fronzoli: <Colui dunque che vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della Legge o perché avete ascoltato la parola della fede?> (Gal 3, 5). Questa domanda, la cui risposta va data con grande calma e senza nessuna precipitazione, ci porta al cuore della Lettera ai Galati che stiamo leggendo in questi giorni. La <parola della fede> è per Paolo non un semplice messaggio da ricevere e trasmettere con cura, ma è quel dono che viene dallo <Spirito> (3, 2) e ci mette in condizione di vivere secondo l’energia dello Spirito di Cristo. Egli ci rende capaci di una fede operosa e non “chiacchierosa” che ci mette in grado di rinnovare e trasformare tutti i nostri rapporti e tutte le nostre modalità di entrare in relazione con gli altri facendo verità nel nostro interagire fraterno.

La parola che il Signore Gesù racconta per spiegare ulteriormente la necessità e l’efficacia della preghiera non parla di un devoto fedele che si rivolge al suo dio rasentando il pavimento, ma ci narra invece la storia di <un amico> (Lc 11, 5) che a <mezzanotte> va a disturbare un suo <amico> per poter accogliere dignitosamente e amichevolmente un altro <amico> che è <giunto da un viaggio> (11, 6). Con questa parabola la preghiera che il Signore ha appena insegnato ai suoi discepoli nella cornice di quel luogo solitario e appartato su cui si era recato per pregare (11, 1), si impasta meravigliosamente con la nostra storia e con la nostra vita segnata prima di tutto e soprattutto dalla necessità di accogliere e prenderci cura delle relazioni. Il Signore Gesù non solo ci parla della necessità e dell’efficacia della preghiera, ma pure delle sue difficili coordinate che comportano pure una buona dose di <invadenza> (11, 8).

Eppure, non bisogna dimenticarlo, il Vangelo si conclude con una nota che ci porta non solo al cuore e all’essenza della preghiera, ma pure al cuore di ciò che è necessario per la vita e indispensabile per creare e curare delle relazioni sane, belle e in continua crescita: <quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!> (11, 13). Lo Spirito Santo è il dono che ci permette di chiedere in modo giusto e di donare in modo adeguato. Egli è il dono di quella <intelligenza> (Gal 3, 3) senza la quale rischiamo di dare <una serpe al posto del pesce> (Lc 11, 11). Quando preghiamo siamo invitati a non sprecare parole, ma siamo invitati a investirci radicalmente in quello che chiediamo e speriamo da Dio e dagli altri. Il primo passo della preghiera è l’ardire di credere in ciò che chiediamo, tanto da essere capaci di trovare le strade più giuste e persino quelle più impensate e impreviste per realizzare i nostri buoni desideri senza dimenticare di rischiare tutto perché si possano realizzare a costo di rimetterci la nostra faccia!

Potenza

XXVII settimana T.O.

Uno dei primi padri ad aver commentato la preghiera che il Signore consegna ai suoi discepoli è stato Cipriano di Cartagine, il quale dice così: <Quali e quante poi sono, fratelli carissimi, le rivelazioni della preghiera del Signore! Esse si trovano raccolte in un’invocazione brevissima, ma carica di spirituale potenza. Non c’è assolutamente nulla che non si trovi racchiuso in questa nostra preghiera di lode e di domanda>1. Per riprendere ciò che l’apostolo ribadisce più volte nello spazio di poche righe, potremmo dire che il Padre Nostro sia un riassunto del <Vangelo che io annuncio tra le genti> (Gal 2, 6). La formula, più breve e concisa, che ci viene tramandata da Luca, sembra avere un’efficacia ancora più grande. Quando il Signore Gesù risponde alla richiesta di uno dei suoi discepoli esordisce così: <Quando pregate dite: “Padre” …> (Lc 11, 2) e conclude con un’invocazione: <non abbandonarci alla tentazione> (11, 4).

Se rileggiamo il Padre Nostro a partire dalla prime e dall’ultima parola, sembra di poter dire che questa preghiera è l’antidoto alla tentazione della paura che talora ci induce a trescare per non turbare e non essere turbata. La dura accusa che Paolo fa nei confronti di Pietro <a viso aperto perché aveva torto> (Gal 2, 11) ci riporta alla continua necessità di purificare i nostri cuori da tutto ciò che ci fa temere Dio, gli altri e, forse prima di tutto, noi stessi. Se invece, ogni giorno attraverso la preghiera, impariamo a rivolgerci a Dio col nome di <Padre>, allora la preghiera diventa una scuola di libertà e un’accademia di verità. Se ripetiamo con la mente e con il cuore la preghiera che il Maestro ci ha insegnato, impariamo a nominare tutti gli aspetti e tutte le coordinate della nostra vita imparando ad accoglierli e ad attraversarli senza cadere nella trappola, sempre incombente, della <simulazione> (2, 13). 

Nella preghiera impariamo a nominare il <regno> senza dimenticare <il pane quotidiano>, nella preghiera ci ricordiamo di avere un <Padre> senza dimenticare di essere non solo figli, ma anche fratelli e questo esige che ogni giorno non solo mangiamo, ma anche <perdoniamo> (Lc 11, 4). La preghiera così diventa non una realtà parallela alla vita, ma ci aiuta ad impastare la nostra terra con il cielo di Dio senza lasciarci prendere dalla <tentazione> di inutili e dannosi purismi ma cercando di diventare sempre più e sempre meglio discepoli del Vangelo. Come ricorda Simone Weil: <Aver rimesso ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato. Significa accettare che l’avvenire sia ancora vergine e integro, rigorosamente congiunto al passato con legami a noi ignoti, ma del tutto libero da quei legami che la nostra immaginazione presume di imporgli>. La stessa Weil aggiunge: <La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale>2 in una parola la libertà del Vangelo che si fa Vangelo di libertà per le sterminate terre pagane del nostro cuore.


1. CIPRIANO DI CARTAGINE, Sul Padre nostro, 9.

2. S. WEIL, <A proposito del Pater>, in Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, pp. 94-96. 

Condotta

XXVII settimana T.O.

Le letture ci offrono, come in uno specchio, la possibilità di guardarci dentro per comprendere meglio chi siamo e per decidere chi vogliamo diventare giorno dopo giorno. L’apostolo Paolo si mostra capace di trasformare la sua lontananza da Cristo in un’occasione di autentica testimonianza: <voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo> (Gal 1, 13). Parla dapprima di sé l’apostolo, per cedere subito il posto alla presenza del Signore Gesù il quale, entrando nella sua vita l’ha trasformata da motivo di timore e di terrore in motivo di benedizione e di gratitudine: <E glorificavano Dio per causa mia> (1, 24). Così pure nel Vangelo ci troviamo ad essere confrontati con due modi di accogliere il Signore Gesù non solo diversi, ma persino potenzialmente contrapposti. Nondimeno la cosa più importante di questo gioiello di vangelo non è il modo con cui Marta e Maria accolgono il Signore nella loro casa e nella loro vita, bensì il fatto che il Signore – proprio dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano nella cui figura ha nascosto e significato il mistero di se stesso – si lasci accogliere e persino coccolare in quelli che sono i modi propri di Maria e quelli, diversi ma così importanti, di Marta.

Potremmo leggere questo passaggio di Gesù nella casa di Marta come una parabola esistenziale che spiega ulteriormente la parabola del buon samaritano. Alle figure del levita e del sacerdote si accostano, per differenza, quelle di Marta e di Maria. La figura così compassionevole e coinvolta del samaritano si rivela in tutta chiarezza nel modo con cui il Signore Gesù si fa non solo accogliere, ma si fa garante di modi diversi di accoglierlo, di amarlo e di servirlo. La parola di Marta è ben più che una lamentela: <Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti> (Lc 10, 40). È piuttosto una dichiarazione di condotta, di logica, di orientamento e di scelta di vita che, invece, di essere accolto come una grazia personale da far fruttificare rischia di trasformarsi in una clava con cui giudicare e condannare gli altri. La risposta del Signore Gesù non è un rimprovero per Marta, ma è un invito energico ad andare all’essenza dei suoi gesti di premura e di cura, non lasciandosi distogliere dai suoi pensieri di giudizio che, in realtà, sono una sottile richiesta di approvazione e persino di dichiarazione di eccellenza. Se questa è la malattia di Marta, allora il medico compassionevole non esita a somministrare la cura adeguata: <Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta> (10, 42). Stiamo attenti a scegliere la nostra linea di condotta nella dedizione e nella libertà del cuore sapendo e amando che gli altri possano avere altre priorità e altre modalità. Che non ci capiti di dimenticare che donare e ricevere, ricevere e donare sono le due facce di una stessa medaglia, sono il respiro della stessa anima e il duplice movimento dello stesso cuore.

E’ lui!

XXVII settimana T.O.

La parabola che il Signore Gesù racconta è la riposta ad una domanda che si fa più precisa e in cui quasi si esprime il bisogno di essere assolti dal dovere di doversi prendere troppa cura dell’altro. Il dottore della Legge chiede dapprima: <che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?> (Lc 10, 25). Il Signore Gesù lo rimanda semplicemente all’osservanza della Torah intesa come le due tavole dell’amore per Dio e per il prossimo. Allora <volendo giustificarsi> il dottore chiede a Gesù <E chi è mio prossimo?> (10, 29). Una domanda che a noi potrà sembrare inutile e invece dice la duplice fatica quotidiana a guardare gli altri come “prossimo” e, soprattutto, a farci, in prima persona e a proprio rischio, prossimo per gli altri. Quando il Signore Gesù racconta questa parabola, in realtà, parla di se stesso e ci racconta la sua storia: la ragione e i modi con cui egli si è avvicinato a noi fino a farsi carico delle nostre ferite e delle nostre debolezza curandoci con la sua <compassione> (10, 33).

Gregorio di Nissa commenta questo passo del Vangelo come un gesto non di elemosina, ma come un gesto nuziale e amoroso: <La Sposa del Cantico mostra colui che cercava dicendo: “Ecco colui che cerco, colui che per diventare nostro fratello è salito dal paese di Giuda. E’ diventato amico di colui che era caduto nelle mani dei briganti: ha guarito le sue piaghe con olio, vino e fasciature; l’ha fatto salire sulla propria cavalcatura; l’ha fatto riposare all’albergo; ha pagato due pezzi d’argento per il mantenimento; ha promesso di dare al suo ritorno quanto fosse stato speso in più per compiere i suoi ordini”. Ognuno dei particolari ha un significato evidente>. Questo significato lo si potrebbe riassumere con le parole roventi dell’apostolo Paolo: <Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo, da me annunciato non segue un modello umano> (Gal 1, 11). Il Vangelo della compassione diventa il modello del nostro processo di umanizzazione che non è altro che un recupero della nostra divina integrità.

Lo stesso padre della Chiesa continua dicendo: <Il Verbo allora gli espone, sotto forma di un racconto, tutta la storia santa della misericordia: racconta la discesa dell’uomo, l’imboscata dei briganti, la perdita della veste incorruttibile, le ferite del peccato, l’appropriazione da parte della morte di metà della nostra natura (poiché la nostra anima è rimasta immortale), il passaggio inutile della Legge (poiché né il sacerdote né il levita hanno curato le piaghe di colui che era caduto nelle mani dei briganti)>. E conclude così: <Col suo corpo, come cavalcatura, è andato là dov’è la miseria dell’uomo. Ha guarito le sue piaghe, l’ha fatto riposare su di sé ed ha fatto per lui della sua misericordia un albergo, dove tutti quelli che sono affaticati e oppressi trovano il ristoro (Mt 11.28)1. Dopo tutto ciò rimane solo una parola che rischia di essere la bilancia su cui pesare tutto il senso della nostra esistenza: <Va’ e anche tu fa’ così> (Lc 10, 37).


1. GREGORIO DI NISSA, Omelia 15^ sul Cantico dei Cantici.

Correggersi

XXVII Domenica T.O.

Come non commuoversi davanti a questo Dio pensoso di cui ci parla la prima lettura di questa domenica? Un Dio che, invece di crogiolarsi nell’auto-ammirazione narcisista davanti alla sua splendida creazione, è capace di scorgerne i limiti e ha l’umiltà di completare l’opera e persino di correggere il tiro. In tal modo Dio rivela magnificamente l’essenza del suo essere amore e perciò continuamente attento al mondo che è fuori di sé, pur essendo originato in sé: un Dio attento all’altro, al creato, lui che è Altro e Creatore. Non ha paura e non ha vergogna il nostro Dio di doversi correggere, perché solo così potrà chiedere alle sue creature di lasciarsi continuamente andare nel cammino di conversione. Il Signore Gesù – di cui <Adamo> è <figura> (Rm 5, 14) – porta a compimento questa rivelazione quando, davanti a tutti i possibili cavilli giuridici, cerca di riportare il cuore dei suoi interlocutori <all’inizio della creazione> (Mc 10, 6). Siamo ricondotti al momento in cui, mentre ci aspetteremo un distillato di assoluta perfezione, il nostro Dio dice con grande umiltà: <Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli corrisponda> (Gn 2, 18). Nelle versioni greche della Bibbia di Aquila e di Simmaco l’espressione di Gn 2, 18 suona in questi termini: <non è bene che l’uomo sia monachos>! Sembrerebbe una solenne e autorevolissima disapprovazione della vita monastica, ma, in realtà, è un riconoscimento profondo del fine e del senso di ogni vita umana – in qualsiasi condizione si venga a trovare o scelga deliberatamente di porsi – è chiamata a vivere un processo di umanizzazione che non si può che dare attraverso la relazione. All’<inizio della creazione>, almeno nella logica del secondo dei racconti che la Genesi ci tramanda, sembra che Dio avesse pensato di essere sufficiente a livello relazionale per assicurare il processo di umanizzazione dell’Adamo originario… ma poi si deve rendere conto del bisogno di una mediazione più prossima, che sia un <aiuto> più vicino e che <corrisponda> (Gn 2, 18) in modo più diretto. Di questo respiro il Signore Gesù ci ha dato prova nella sua incarnazione e nella capacità di assumerne fino in fondo i rischi: egli <che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio e gli provasse la morte a vantaggio di tutti> (Eb 2, 9). Per questo il Signore Gesù che <non si vergogna di chiamarli fratelli> (2, 11) chiede agli uomini e donne di ogni tempo – compreso il nostro – di essere capaci di andare oltre quello che <Mosè ha prescritto per la durezza del vostro cuore>.